Missioni dei Mietitori

dove vengono svolte le missioni

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    Xado the Cybernet Reaver

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    ~ Desolazione ~


    Sono oramai passati mesi dalla tragedia che ci ha colpiti tutti.
    Dopo la perdita di Kainh e la quasi totale distruzione della CDA e dei Pilastri, abbiamo dovuto necessariamente riunire le forze per proteggerci … per proteggere il futuro di Nosgoth.
    So che così facendo abbiamo abbandonato al loro destino molti che vedevano in noi una speranza ma, ahimè, non ho potuto veramente fare altrimenti.

    Con queste parole Bleed, osservando evidentemente turbato il Pilastro dell’Equilibrio, l’unico Pilastro ancora rimasto integro ed incontaminato anche se con evidenti segni di scalfitura, si stava rivolgendo ai suoi fratelli Mietitori che gli chiedevano di prendere finalmente una decisione.
    Ora, dopo tanti mesi passati a ricostruire, a fortificare ed a creare quella che forse era la più impenetrabile fortezza che Nosgoth avesse mai visto ergersi sulle sue lande, finalmente era giunto il momento.
    Il momento di ricominciare a combattere, ancora una volta, per il ripristino dell’Equilibrio … anzi no, stavolta era per la salvezza di tutta Nosgoth.

    Dando le spalle ai Pilastri, così si rivolse ai due fratelli che aveva davanti, tornati ancora una volta al suo cospetto ed al servizio della Cattedrale e dell’Alleanza:
    Le voci che ci sono arrivate durante questi mesi di isolamento sono tremende ed oscure.
    Alcuni nostri informatori ci hanno confermato che questa perenne nebbia che oscura, giorno e notte, il nostro cielo si estende invero fino ai confini conosciuti di Nosgoth. Sembra quasi di rivivere le storie narrate nelle cronache di chi ha vissuto l’epoca dell’Impero di Kain.
    I Corrotti, i Vampiri degenerati dal morbo che infetta ormai da secoli la loro specie, si sono fatti sempre più numerosi, sempre più spavaldi ed aggressivi. Oramai perfino i loro infanti riescono a muoversi durante il giorno senza quasi problemi. Questo ha portato ad un’unica ed inevitabile conseguenza, complice la nostra assenza d'azione: una ecatombe.
    Sappiamo che numerosi villaggi sono stati attaccati, depredati e saccheggiati da orde di Corrotti.
    Di quei villaggi, più o meno di piccole dimensioni, che un tempo formavano una ragnatela di comunità sparse per tutte le lande di Nosgoth forse non rimane più nulla.
    Le persone che sono riuscite a scappare, o quelle che non hanno osato opporsi ai maledetti redivivi rimanendo a difendere le proprie case, sono sciamate nelle principali grandi città. Andando così ad ingrossare le fila dei Sarafan, ormai sotto il completo controllo di William ... o forse dovrei dire di Hash’Ak’Gik.
    Comunque sia non ne abbiamo la completa certezza. Potremmo forse trovare ancora qualche villaggio intatto e riuscire a metterli in qualche modo in sicurezza? Accetterebbero ancora il nostro aiuto o ormai ci considerano dei traditori e dei demoni alla stregua dei Corrotti?
    Questo starà a te scoprirlo, amico mio.
    Recati nella foresta attorno alla nostra Cattedrale e cerca di batterla in lungo ed in largo quanto meglio possibile.
    Cerca di scoprire se i villaggi che negli ultimi anni erano sorti qui attorno a noi sono ancora integri ma … la mia paura è che sia ormai troppo tardi. Se dovessi trovare presenza di Corrotti … beh, dovrai iniziare ad assottigliarne le fila, più che puoi.
    Ma fa attenzione, negli ultimi mesi non è aumentato solo il loro numero, esponenzialmente, ma anche la loro forza potendo nutrirsi in abbondanza e muoversi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Fa attenzione anche alle creature della foresta … la pazzia e la sete di sangue ha infettato anche loro.
    Hai una settimana di tempo, Xado. Scopri quanto più puoi in questo lasso di tempo, uccidi quanti più nemici tu possa e poi torna qui da noi. Abbiamo bisogno di notizie fresce per pianificare le nostre prossime mosse sul nuovo scacchiere.


    LDR 2

    UNA TENUE FIAMMA

    Xado guardò silenzioso i pilastri.
    "Mi hai sentito fratello?" disse Bleed confuso.
    "Dovremmo distruggerli noi" e appoggiò una mano sul pilastro dell'equilibrio
    Bleed lo guardò allarmato, Xado si girò verso di lui "Da quando sono stati eretti Nosgoth non ha mai avuto pace, dovremmo distruggerli far tornare gli Hylden e combattere l'ultima battaglia per le sorti del mondo!"
    "Xado se questo è uno dei tuoi scherzi non mi piace per niente" continuò Bleed
    Il ragno mietitore rise amaramente "Sono solo molto sconfortato, ho combattuto per millenni contro la corruzione. Ora guardaci, siamo ombre di ciò che eravamo. Nosgoth è tornata corrotta, non si è salvato un solo pilastro di quelli da noi purificati
    Sai fratello ricominciare è dura. Se mi avreste lasciato sfid.."
    "Saresti morto e per cosa? " rispose duramente Bleed

    i due si guardarono negli occhi

    Mesi Prima

    Il ragno mietitore era davanti alla bara del senza cuore, dietro di lui i compagni in lutto dell'Alleanza stavano dando l'estremo saluto al loro Signore. Alzò lo sguardo i pilastri erano neri come la pece. Dentro di se sentì il peso della più grande sconfitta della
    sua esistenza. "Fallimenti su fallimenti" disse una voce dentro la sua testa "Ma Noi possiamo ancora rimediare... possiamo ucciderlo".
    Xado chiuse gli occhi e li riapri. Successe in un frammento di secondo i suoi occhi zampillarono di luce rossa ma qualcuno l'aveva notato.
    Al termine del funerale si rinchiuse nella sua stanza e ci rimase per alcuni giorni.
    Era una fredda mattina quando uscì dalla cattedrale. Non si voltò a guardarla come era solito fare quando partiva ma procedette senza esitazione
    "Xado" sentì una voce amica
    "Asgarath vattene, non sono in vena di parlare con nessuno"
    "Dimmi almeno dove stai andando" chiese il vecchio druido
    "Mi sembra ovvio, qui nessuno è forte quanto me, quindi spetta a me sfidare il signore degli Hylden, vendicare Kainh e salvare Nosgoth"
    "Follia, Xado questa è pura follia" disse un'altra voce, questa volta era Bleed.
    "Sembra che questa mattina i dintorni della cattedrale siano parecchio affollati" disse il ragnomietiore sprezzante
    "Ti abbiamo tenuto sotto controllo dopo che Asgarath ha notato ..."
    "I tuoi occhi al funerale" concluse Asgarath "Hanno lanciato delle luci rosse, come quando..."
    Xado li guardo entrambi e gli occhi gli si accesero di rosso, i due mietitori indietreggiarono e sguainarono la mietitrice
    "Intendi questi? No non abbiate paura fratelli miei. Odax non è tornato ma è pur sempre parte di me. Posso odiare trasformarlo in furia come potete vedere ma sono sempre io" gli occhi ritornarono alla normale colorazione blu.
    "Ma cosa ti è successo?" chiese grave Asgarath
    "La nuova corruzione di Nosgoth ha un prezzo. Noi non siamo esseri puri, ciò che è successo ha risvegliato in me quella parte che ha creato Odax, ma non sono uno sprovveduto ne un giovane mietitore so come affrontare la cosa e gestirla"
    "Andando a farti uccidere?" disse ironicamente Bleed
    "Come ho già detto attualmente sono l'unico in grado di tenergli testa"
    "No Xado ti sopravvaluti" disse Asgarath
    "Vien dentro c'è qualcuno che vuole parlarti, poi se vorrai ti lascerò andare ovunque tu voglia" disse severo Bleed.
    Rientrarono e andarono al salone dei Pilastri, ivi stava una persona minuta. Quando Xado la vide gli sussultò il cuore.
    "Maestà che ci fa qui" disse Xado inginocchiandosi
    Era Merimange regina del nanosterro
    "Alzati Xado" e lo guardò triste
    "Sapevamo che avresti tentato di fare qualcosa di stupido cosi ci siamo messi in contatti col ragnosterro ed eccola qua" disse Asgarath
    "E' pericoloso essere qui, non dovrebbe ..."
    lei le mise una mano sulla bocca per zittirlo "Nosgoth ed il mio regno hanno bisogno di te. Ascolta i tuoi amici, so cosa alberga nel tuo cuore, so che vuoi solo fare la cosa giusta ma facendoti uccider enon la farai"
    Xado abbasso il capo e lei continuo "L'alleanza non può perdere altri valorosi.... e io non posso sopportare che tu ....muoia" i due si guardarono.
    Asgarath e Bleed si guardarono imbarazzati e si sentirono di troppo
    Xado era confuso "Avrò la sua testa"
    "Quando sarai pronto" rispose Merimange "ed ora non lo sei. Promettimi che non lo affronterai finche non sarai più forte"
    Bleed e Asgarath se avessero respirato avrebbero trattenuto il fiato, se Xado non si fosse convinto avrebbero dovuto passare alle maniere forti e non sarebbe stato semplice fermarlo.
    "E sia!" disse amareggiato



    "Hai promesso" disse Bleed
    "lo so lo so. Più invecchi e più diventi noioso sai!" poi sorrise e "Sai cosa ho deciso basta segreti da oggi basta anonimato! Tutte le donne di Nosgoth sogneranno me come loro principe azzurro che le salva dai dannati".
    Bleed si mise una mano sulla fronte contrariato "Sempre il solito!"

    Qualche ora dopo il ragnomietitore stava sfrecciando tra i rami della foresta. Si sentiva libero aveva passati i mesi insieme ai suoi fratelli a ricostruire la cattedrale ed ora finalmente ricominciava il suo peregrinare.
    Qualcosa attiro' la sua attenzione in mezzo al sentiero. Erano i resti di una carovana, era stata attaccata riversi a terra c'erano i resti di due uomini in evidente stato di putrefazione.
    Li avevano abbandonati, questo pensò mentre li seppelliva. "Se trovo già cadaveri appena uscito dalla cattedrale ... cosa troverò più avanti?"

    Conosceva un piccolo villaggio a ovest dei pilastri appena prima la baia di Nachtolm decise di andar lì. In meno di mezza giornata fu in vista del villaggio o almeno quello che ne rimaneva.
    Sembrava che fosse tutto bruciato da molto tempo, probabilmente durante l'attacco alla cattedrale l'esercito era passato di qui ed hanno distrutto tutto. La cosa strana fu che non trovò un solo cadavere.
    Sentì un rumore verso i resti di una capanna. ne uscì un giovane Dumahim. "Scommetto che sei a caccia!" disse sconsolato.
    Il dumahim si lanciò all'attacco ma venne investito da un proiettile di fuoco che lo incenerì. Xado assorbì l'anima, "Forse è un vecchio abitante trasformato e lasciato indietro." pensò.
    Si guardò attorno, magari faceva parte di qualche gruppo ma non sentì nulla.
    Decise di dirigersi a Sud verso il grande lago.
    Una piccola ma fiorente città si affacciava alle sue rive, o almeno cosi ricordava e in cuor suo sperava che le cose non fossero mutate. Appena giunse in vista della città notò subito una palizzata in legno che la accerchiava. e un cancello dove due guardie ispezionavano chi voleva entrare.
    Un problema da poco per lui, si smaterializzo nel regno spettrale ed entro tranquillo attraverso le porte della città. Attivò il suo sigillo per scrutare nel regno materiale e mentre passeggiava nelle vie. Sembrava non tirasse una bella aria, i visi della gente erano cupi, molte case sembravano disabitate e sembrava che di bazar ne fosse rimasto solo uno.
    Si diresse su una via isolata e riprese materia. Decise di nascondersi e aspettare il tramonto.

    "Questa terra è stata maledetta" disse un avventore
    "Lo è sempre stata! Da quando quei maledetti esseri hanno fatto la loro comparsa e guarda in che stato siamo ora" disse un altro
    Xado era nascosto sotto la finestra dell'unica taverna aperta e ascoltava, ormai era sera inoltrata e molti erano tornati a casa o consumavano l'ultima birra.
    "io non la penso cosi! Loro ci hanno sempre protetto anche se ormai penso che siano tutti morti" disse l'oste sconfortato
    "Sveglia Oste, sono loro che mesi fa hanno scatenato tutte queste bestie contro di noi. Se non fosse stato per l'esercito Saraphan ora saremmo sotto un metro di terra o peggio saremmo bestie come loro!" disse un altro
    "Ben detto amico. Un brindisi ai nostri coraggiosi ragazzi che ci proteggono!"
    "Protezione cara direi, visto l'enorme tributo che ci chiedono, almeno i mietitori non chiedevano nulla in cambio" disse stizzito l'oste
    Xado ebbe un sussulto, allora qualcuno che crede ancora in noi c'è! penso confortato
    "Davvero? e dove sono ora? Te lo dico io le loro teste sono a tappezzare i muri del nostro nuovo re! Ho sempre detto che quelli erano diavoli" disse il primo avventore e tracanno un boaccale di birra
    "Ci aspettano tempi sempre più bui, povera la nostra città!" disse amareggiato l'oste
    "Sei disinformato amico, ho sentito un amico che è nell'esercito, dicono che a breve manderanno aiuti e risorse per ristrutturare la città e garantiranno la nostra protezione. " disse un altro
    "Certo magari poi lasceranno anche un loro luogotenente e noi saremmo i loro schiavi" disse un altro
    "Mpf sempre meglio che rimanere senza protezione! Fuori da queste mura ho sentito che imperversano gruppi di vampiri pronti a succhiarti ogni singola goccia di sangue e se decidessero di attaccarci nuovamente? Almeno avremmo i Saraphan a proteggerci" disse un altro avventore.

    Xado aveva sentito abbastanza. Gli umani erano in momento di incertezza, cercano solo qualcuno che li faccia sentire al sicuro. L'Alleanza li aveva protetti ma dopo la sconfitta subita si stavano ancora leccando le ferite.
    William aveva approfittato del momento per scatenare orde di vampiri corrotti contro gli umani che non hanno avuto altra chance che quella di affidarsi all'unico esercito disponibile... il suo.
    Mentre usciva dalla città si pentiva di aver passato cosi tanto tempo in cattedrale, la leatà degli umani era cosi volubile e dettata dal momento che provo una fitta di rabbia verso di loro. "William è stato più scaltro" disse una voce nella sua testa.
    "Smettila, so quello che stai cercando di fare"
    "O avanti lascia il controllo a me e sistemo la faccenda"
    "Non se ne parla minimamente. Lorderesti le mie mani di sangue innocente! Odax ricordati ti ho lasciato uscire in un momento di frustazione e rabbia ma è per mia concessione che non ti ho rinchiuso nel limbo della mia mente" disse Xado
    "Ti servo non è vero? Perchè sai che quando arriverà il momento io posso fare quello che tu non puoi."

    Si diresse sulle montagne ad Est. Conosceva un intricata serie di grotte dove magari potevano aver preso rifugio gli umani superstiti o qualcosa di peggio.
    Fu in vista delle montagne quando sentì un grido in lontananza. Tre uomini con in mano degli archi rudimentali era accerchiati da sei vampiri dumahim.
    Uno degli uomini scocco una freccia ma manco il bersaglio, il vampiro bersaglio si innervosì e si scaglio verso il pover'uomo terrorizzato ma all'improvviso rovinò per terra e la sua schiena stava bruciando.
    "Piatto del giorno: Dumahim alla griglia" disse sprezzante il ragno mietitore e sparò altri cinque proiettili cinetici impregnati fuoco, incenerendo i vampiri.
    "Mmm ancora giovani vampiri"
    "Voi ... non è possibile! Siete ancora in vita allora" disse uno di quei uomini
    "Be tu questa la chiami essere in vita" rispose il mietitore e continuo vedendo l'uomo spiazzato "Sto scherzando traquillo, comunque si, noi siamo ancora qua e siamo tornati"
    vide le facce degli uomini illuminarsi di speranza, ciò rincuoro Xado.
    "Sei qui per aiutarci vero? Giravano voci che la vostra cattedrale fosse stata rasa al suolo! Noi facevamo parte delle piccole comunità agricole della zona, ma dopo quella battaglia tremenda ci siamo radunati e ci siamo rifugiati sulle montagne.
    Purtroppo queste terre ora sono abitate da questi vampiri, e noi non possiamo più tornare alle nostre case. Aiutaci ti prego come vedi non siamo cacciatori ma contadini e stiamo patendo la fame"
    Xado li notò che i loro vestiti erano parecchio consumati, ed erano tutti molto magri e provati. "Quanti siete?" domandò
    "Una trentina tra uomini donne e bambini" disse quello.
    "Sei il loro capo?"
    "No lui è rimasto nelle grotte, ha mandato noi in cerca di cibo"
    "Va bene verrò con voi e farò di più verrò a caccia con voi!"

    I sei uomini rimasero sbigottiti dall'agilità e dalla velocità di Xado, sei conigli e due cervi furono catturati. Gli uomini guardarono impauriti mentre il mietitore succhiava via l'anima da quei poveri animali.
    "Questo metodo è indolore, inutile farli soffrire inutilmente" disse loro.

    Al tramonto arrivarono con le loro prede nelle grotte. Xado vide le persone affacciarsi all'ingresso, sembravano affamate, erano visibilmente sporche con le vesti consumate o lacere.
    Gli si strinse il cuore, "li abbiamo abbandonati" si disse "Tutto questo non sarebbe successo se noi fossimo andati a prenderci al sua testa! ma siamo ancora in tempo, partiamo o..." "Smettila!"

    Un vecchio gli si avvicinò "Sei Xado vero?", il mietitore lo guardò sbalordito "Si sono io, immagino che la mia fama mi preceda" disse e guardo verso le donne che lo guardavano stupefatte
    "Si sei proprio tu, vedi ero un bambino quando ti vidi a Stahlberg Molti bambini all'epoca sparivano ma dopo la tua venuta la cosa si risolse"
    Xado lo guardò "E' passato molto tempo" e sembrò per un attimo di ritornare un giovane mietitore alle prime armi "ero un novizio all'epoca"
    il vecchio lo guardò "Mi chiamo Gast e sono capo di questa comunità, ti prego aiutaci a riprenderci le nostre case"
    "Vieni vecchio e anche voi tutti, cuciniamo questa carne e decideremo il da farsi"

    Mentre cenavano Xado raccontò loro quello che era successo, della tremenda battaglia, della morte dei suoi compagni e del sire della cattedrale del Sangue ma soprattutto del ritorno del re William e di come in realtà lui sia un impostore.
    Forse i suoi fratelli non sarebbero stati contenti che lui rivelasse la verità, ma pensava che gli umani avessero diritto di sapere come stavano le cose, di come loro avevano combattuto per l'intera Nosgoth voleva dargli una speranza, non farli sentire abbandonati
    ma fargli sapere che loro continuavano a combattere.

    "Dunque ora siete allo sbando anche voi" disse sconfortato Gast
    "No, ci siamo riorganizzati in questi mesi, mi dispiace che non abbiate potuto contare su di noi"
    "Alcuni di noi sono andati in città, dicevano che vi eravate alleati con vampiri e demoni, e stavate muovendo guerra a Nosgoth per questo l'esercito Saraphan era intervenuto. Noi non ci abbiamo mai creduto.
    ma molti si... Forse avete ancora alleati la dove vi siete recati a far del bene ma credo che il loro numero sia esiguo"
    "Perchè non vi siete trasferiti in città?"
    "Ci abbiamo provato, ma i tempi sono bui, il cibo scarseggia e le città non accettano immigrati."
    "Ci lasciano morire di stenti" disse una donna in lacrime con un bambino in braccio.
    "Domani mattina partiremo presto, non posso ridarvi le vostre case, ma posso portarvi in un villaggio nascosto. E' stato fondato da mio fratello, li convivono le tre razze, umani vampiri e mietitori, in pace. Sarete al sicuro li"
    "Ci accetteranno?" disse speranzoso Gast
    "Sono rimasto in contatto con mio fratello, dopo la battaglia accettano tutti i sopravvissuti a patto che non creino casini. Sarà la vostra seconda occasione"
    Si levarono mormorii di apprezzamento, il mietitore vide molte facce in lacrime, molti gli si avvicinarono ringraziandolo.

    "Pensi che cambi qualcosa? O forse ti piace la parte del Salvatore?" disse nella sua testa Odax
    "Questa gente ha bisogno di speranza, ed io posso dargliela"
    "e dopo averli salvati cosa farai? Non puoi salvarli tutti!" disse Odax e Xado rimase silenzioso.

    La mattina seguente si misero in marcia, Xado sapeva che sarebbero voluto almeno 4 giorni di cammino per raggiungere il villaggio e il viaggio non sarebbe stato per nulla sicuro.
    Il primo giorno trascorse tranquillo, anche se la gente non era al massimo delle forze. La sera si accamparono in una radura e mentre mangiavano sembrava che il buonumore regnasse.
    Xado dal canto suo aveva era nel pieno delle forze, per procurare il cibo per il gruppo aveva cacciato e si era rifocillato con le anime di quei poveri animali. Con l’aiuto di alcuni uomini approntò delle trappole.
    La notte passo tranquilla, troppo tranquilla pensò Xado e rimettendo il gruppo in cammino ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse osservando.
    Dopo altri due giorni di viaggio tranquilli sulla spalla di Xado si appollaiò un ragno.
    “Sei nei guai mio bel ragnetto” disse la piccola vedova nera
    “Aranya che ci fai qui? Dovresti essere nel ragnosterro, la regina ha bisogno di essere protetta”
    “Dopo che ha saputo che sei stato rimandato in missione, si è preoccupata ed ha mandato me e Nabyk ad aiutarti”
    Xado non parve entusiasta della cosa
    “Non ho bisogno di balie” disse brusco
    “Una volta eri molto più divertente e sexy amico mio.” Aranya gli si sposto sul capo “dovrei morsicarti qui ed ora cosi magari ti faccio tornare un po’ di sale in zucca”
    “Smettila di giocare, hai detto che sono nei guai”
    “Sei proprio un vecchio musone. Comunque si, un gruppo di circa cinquanta vampiri si stanno radunando, da quanto ho capito vogliono tendervi una trappola. Certo per te sarebbero una bazzecola ma devi proteggere questi umani”
    Xado rimase silenzioso, Aranya aveva ragione, se fosse stato da solo non avrebbe avuto alcun problema, ma gestire una cinquantina di vampiri mentre si proteggono una trentina di persone era un altro paio di maniche.
    “Ho mandato Nabyk da tuo fratello in cerca di aiuto, ma non so se farà in tempo” disse Aranya.
    “Dobbiamo trovare un posto sicuro dove nasconderci o difenderci. Sono Dumahim?”
    “Peggio, sono Zephonim e come ho detto vi stanno aspettando, si sono nascosti nella foresta al limitare della zona controllata da Xari.”
    “Dunque se mi fermo, quello che potrebbe cadere in trappola è lui. Non ho alternative…”
    “Che intendi?”
    “Sfrutterò lo spectral, andrò nella foresta eliminerò gli Zephonim e poi tornerò qui. Dovrei riuscire ad andare tornare in meno di tre ore”
    “E se venissero attaccati in quel lasso di tempo?”
    “Spero di fare in tempo a tornare, in ogni caso metterò molte più trappole e faro erigere una palizzata di fortuna”
    Xado informò Gast del suo piano e decisero che quel giorno si sarebbero fermati subito ed avrebbero eretto una mura di pali appuntiti per proteggersi, Xado fece qualche trappola qua e là e appena fu tutto pronto partì.
    Un essere in lontananza osservava intensamente la scena del mietitore che spariva e rise.
    Il mietitore corse più veloce che poteva verso la zona che le aveva segnalato la vedova nera.
    Giunse in meno di un ora e attivo il sigillo Shadir, Comincio ad osservare il paesaggio, La tetra foresta era ricolma di ragnatele e sui rami stavano appollaiati decine e decine di giovani Zephonim.
    “Curioso come fanno dei giovani Zephonim ad essere tutti radunati qui?” disse nella sua testa Odax
    “Non c’ è traccia di nessun Vampiro adulto, un capo a meno che… una trappola” Xado trasali alla rivelazione, doveva tornare ma prima doveva comunque occuparsi di quei Zephonim.
    Si materializzò e con un grido di rabbia scaglio il glifo della terra. Gli zephonim presi alla sprovvista cadettero a terra e li furono investiti dalla potenza di un altro glifo: quello dell’acqua.
    Sopravvissero in pochi che cercarono riparo nell’oscurità della foresta ma delle frecce incendiarie li colsero per prime.
    “Xado” era un voce familiare
    “Xari! Non abbiamo tempo, questa era un trappola, volevano che lasciassi il gruppo” mise le mani per terra ed evoco Aranya “Conducili al campo base io andro avanti passando per lo spectral.”
    Xado corse come se l’intera esistenza di Nosgoth dipendesse da questo.
    “Non faremo mai in tempo. Basta Xado! Giriamoci ed estirpiamo il problema alla radice. Uccidiamo William!”
    “E abbandonare degli indifesi? Mai! Posso provare tutto l’odio di questo mondo verso me stesso e verso gli Hylden ma non posso … e non voglio trasformarmi in loro”
    Quando arrivò vide che il campobase stava andando a fuoco, Sentiva delle urla di donne e i pianti dei bambini ma sembrava che ci fossero ancora uomini a combattere.
    Si scagliò come una furia verso i vampiri, utilizzo i suoi artigli affilati per lacerare e strappare arti e teste.
    Gli uomini avevano formato un cerchio e dentro stavano donne e bambini, scaglio un glifo dell’acqua che spense gli incendio e tramortì i vampiri. Riusci ad avvicinarsi al cerchio
    “Sei tornato finalmente” era uno dei cacciatori che aveva incontrato
    “Situazione?” disse Xado in tono marziale
    “Come vedi la palizzata ha ceduto e …”
    “E siete comunque morti” disse una voce, era un enorme Zephonim
    “Mietitore… pensavo che vi foste rintanati in buco lontano dal mondo, dopo che il nostro signore vi ha preso a calci in culo”
    Xado rimase zitto
    “Qualsiasi cosa ti sia messo in testa di fare, te e i tuoi amichetti non servirà! Ormai Nosgoth è no…” un proiettile impregnato di fuoco lo colpi in faccia incenerendolo
    “Parole troppo infuocate rischiano di bruciarti la lingua e…. tutto il resto” disse sprezzante Xado.
    Gli zephonim arretrarono, sembravano confusi, poi vennero tempestati di frecce, alcuni riuscirono a fuggire.
    “Sembra che oggi io non riesca ad arrivare puntuale, fratello”
    “L’importante è partecipare” disse Xado sorridendo.
    Fortunatamente non ci furono molte vittime tra gli umani e una volta sotterrato i defunti la carovana riprese il viaggio questa volta scortati anche da Xari ed il suo seguito.
    Xado decise di non proseguire oltre, sapeva che suo fratello li avrebbe protetti. Salutò i suoi compagni di viaggio
    “Nosgoth sta attraversando l’ora più buia, ma se ho imparato una cosa è che esiste sempre un piccola fiammella di speranza. Che siate voi mietitori o i nostri figli io sono sicuro che un giorno anche questa nostra bella terra potrà essere in pace.” disse Gast salutando Xado


    Il mietitore entrò nel giardino dei pilastri e vide suo fratello che lo attendeva davanti il pilastro della mente.
    “Sei tornato finalmente, cosa pensano gli umani di noi?”
    Xado poso’ una mano sul pilastro “Una flebile fiamma di speranza, pronta a divampare!”
    Sul suo braccio balenò la luce azzurrina della mietitrice, Xado era tornato a combattere!
     
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    UN NUOVO ORDINE SARAFAN - PARTE 2


    ATTO IV Speranza contro Destino.


    Col braccio fasciato Cain sbuffò nervosamente, intento a consumare voracemente il parco pasto a base di bollito di carne che gli era stato preparato dalla sua vecchia serva Agnes.
    Dopo che i suoi uomini l’avevano ricondotto al sicuro delle mura cittadine, i Chierici l’avevano curato come meglio potevano, anche sé, con la penuria di materie prime, le pozioni medicinali scarseggiavano, quindi non avevano potuto far miracoli.
    La ferita alla gamba era ancora dolorante, ma se non altro la magia bianca dei cerusici, unita a qualche filo di sutura, l’aveva fatta quasi del tutto rimarginare.
    Ciò non di meno, per almeno una settimana non avrebbe dovuto far strapazzi, né partecipare ad altre ronde suicide. I Fabbri non erano stati per niente contenti di quanto avvenuto.
    Le armi glifiche andavano perfezionate. Erano dei prototipi e non erano ancora abbastanza potenti, altrimenti il capitano non avrebbe avuto tanti grattacapo perdendo così tanti uomini.
    Un’altra cosa che dava loro ai nervi era il fatto che lui, a dispetto degli altri della ronda di cui a loro importava bene poco, fosse sopravvissuto.
    Sapevano bene che egli non approvava il loro agire e la loro tirannia. Dubitava che il salvacondotto di William fosse autentico. In verità, iniziava a dubitare anche della loro natura di sarafan. Il loro modo di fare e di pensare era diverso da quello che avevano i superiori a cui lui era abituato.
    Non erano disciplinati, né marziali. Gli davano più l’idea di serpenti a sonagli, viscidi e infidi.
    Inoltre, avevano qualcosa di quasi… alieno, come se fossero estranei al mondo.
    Come se non bastasse, quando si trovava vicino a loro aveva la netta sensazione che essi emettessero una qualche sorta di energia o di fluido negativo. Molti diventavano nervosi e angosciati in loro presenza.
    Gli infanti fuggivano terrorizzati, i neonati scoppiavano a piangere.
    Alcuni, dopo aver parlato con loro, pareva che fossero tormentati da strani incubi, fenomeni di paralisi notturna e stati ipnagogici che li facevano risvegliare atterriti.
    E poi, c’erano i Rahabim. Dannate bestiacce. Non vedeva l’ora di riprender le ronde e di rimettersi il prima possibile, per vendicare il sangue che avevano versato quella notte. Il suo, ma anche quello dei suoi compagni e amici, molti dei quali conosceva da una vita e avevano preso a benvolere quasi come un padre.
    Erano stati bravi compagni d’arme, virtuosi e rispettosi degli ordini. Non meritavano quella morte.
    E poi c’era il druido.
    Ah, i mietitori, che esseri bizzarri. Ancora non sapeva se poteva fidarsi o no di loro.
    Le loro intenzioni sembravano altruistiche, ma i loro modi di fare erano sempre poco piacevoli.
    Quando ne appariva qualcuno, da un lato aiutavano… dall’altro c’era sempre un prezzo da pagare, o una richiesta che gli era difficile ottemperare.
    Ricordava ancora bene la sottigliezza con cui un po’ di mesi fa aveva aiutato Rekius, quando era venuto a domandare aiuto militare per combattere il suo stesso ordine, che folle come non mai dopo il ritorno dell’antico re di Stalberg, aveva avuto la sfrontatezza di attaccare i Pilastri.
    La moneta che cadeva di taglio…
    Da quel che gli aveva detto ll druido, l’Alleanza aveva avuto una vittoria di Pirro in quella guerra.
    E se William era davvero posseduto da un Demone…
    Qualcuno bussò alla porta.
    “Avanti.” Disse lui, stanco e nervoso.
    .L’anziana serva entrò timidamente.
    “Mi dispiace disturbarvi capitano, ma c’è… ecco…” lei ebbe un brivido.
    “Lord Havoker?”
    “Sì.”
    Cain grugnì.
    “Va bene, Fatelo entrate.”
    La serva aprì la porta e una figura vestita di un lungo saio nero e di un cappuccio appuntito, con indosso una veste dal colletto triangolare, varcò la soglia con passo altero e cadenzato.
    “Piacere di vedervi ancora vivo capitano”, disse con una voce cupa e asptra, quasi sibilante.
    “Il piacere è… tutto mio.” Rispose Cain, a malincuore.
    “Agnes, lasciateci soli.”
    La donna non se lo fece ripetere due volte. Se ne andò e chiuse la porta. Non voleva aver nulla a che fare con il capo dei fabbri dei glifi. Le faceva accapponare la pelle al solo vederlo, e non capiva nemmeno perché.
    Havoker prese una sedia e vi si accomodò sopra, senza nemmeno chiedere permesso.
    “Allora, Cain, come vi sentite?” domandò, senza preamboli.
    “Un po’ meglio, ma mi hanno ordinato riposo.”
    Havoker sogghignò.
    “Vi rimetterete presto, non temete. E potrete vendicare i vostri uomini. I Rahabim vanno debellati.”
    “Lo so. Non intendo arrendermi a riguardo.”
    “Bene, bene.”
    Cain finì di inghiottire l’ultimo pezzo di formaggio e mise da parte il vassoio.
    “Sapete, i vostri uomini mi hanno detto come vi siete difeso. Avete combattuto davvero con valore, stanotte. Sono un po’ seccato dal fatto che abbiate perso la spada glifica che vi ho consegnato, ma sono cose che capitano. Tuttavia, per un po’ dovrete accontentarvi delle armi benedette convenzionali. Ci vuole… tempo… e denaro… per forgiarne un’altra, capite?”
    “Naturalmente.”
    Havoker si girò a guardarlo dritto negli occhi.
    Aveva un naso adunco, una folta barba nera e un volto ossuto, scavato, smorto e pallido.
    I suoi due gelidi occhi azzurri tradivano una grande astuzia e intelligenza, unita ad una profonda spietatezza e crudeltà.
    Forse, era quel terribile sguardo che incuteva tanta paura e soggezione, o erano gli strani riflessi verdi delle sue iridi?
    Cain non lo sapeva con esattezza, ma si affrettò a distogliere lo sguardo.
    Havoker sorrise, bieco.
    “Non si preoccupi, capitano” disse, dando una piccola pacca al pomello del letto “Non subirà alcuna punizione per la perdita dell’arma, e i vostri uomini verranno premiati per il coraggio dimostrato stanotte.”
    “Quindi avete accordato loro un giorno di licenza?”
    “Oh sì, se lo sono meritato. I Rahabim ci impiegheranno un po’ a riorganizzarsi dopo aver perso il loro leader, quindi credo che nelle prossime notti sospenderanno i loro attacchi. Resteremo comunque tutti all’erta, ma distendere un po’ i nostri nervi servirà a migliorare il rendimento generale. Chiaramente, però, questo non significa che i lavori alle fortificazioni subiranno ritardi, o che gli operai godranno dei medesimi privilegi. Non si sa mai cosa potrebbe giungere da fuori. Comprendete?”
    “Sì, stavolta comprendo. E vi… vi ringrazio, lord havoker.” Rispose il sarafan, con fatica.
    Quanto odiava dover esser in debito di qualcosa a quel tizio.
    “Ce la fate a camminare?”
    “Con la stampella credo di sì.”
    “Bene, così non dovremo usare la portantina. Sapete, fra poco verrà giustiziato quel giovane, Isaac.”
    “Già, è questione di mezz’ora ormai.” Rispose Cain, adombrandosi ancora di più.
    Havoker si alzò e si recò alla finestra, guardando il panorama fuori… non che ci fosse molto da vedere, lì alla guarnigione al centro della città.
    “è quasi mezzogiorno, capitano.”
    “Lo so. Lo intuisco dalla luce del sole.
    “Allora penso che intuiate anche il fatto che desidero ardentemente la vostra presenza all’esecuzione che avverrà fra poco. Sappiate, che se non verrete, mi riterrò offeso.”
    “Non è mia intenzione offenderla, signore.” Rispose Cain a voce bassa, iniziando a tremolare dal nervoso.
    “Bene. bene. A fra poco.”
    Havoker uscì dalla stanza, silenzioso, spettrale e spavaldo com’era entrato.
    Cain rimase a rimuginare per due minuti buoni.
    Poi digrignò i denti e colpì con forza il cuscino.
    “Maledizione!”
    chiamò subito la serva e si fece portare la stampella.
    Sperava solo che il druido facesse quanto promesso, perché lui aveva fatto la sua parte.




    “È quasi ora.” Disse il secondino, entrando nel carcere sotterraneo della guarnigione.
    Isaac si alzò di malavoglia dal pagliericcio e si sciacquò la faccia nella poca acqua rimasta nel secchio che aveva a disposizione per le abluzioni.
    “Vuoi mangiare qualcosa?” gli domandò il sarafan, beffardo.
    Non era uno dei soldati di Cain. Era uno degli uomini di Havoker.
    “No, grazie. Non ho fame.”
    Che senso aveva mangiare, se stava per morire?
    “Ehi, come vuoi. Io volevo solo essere gentile.”
    “Perché non la facciamo finita subito con questa pagliacciata?”
    Il sarafan ridacchiò
    “Non hai paura di morire?”

    il ragazzo ripensò al suo passato.
    Il suo primo ricordo andò al mietitore che l’aveva salvato dall’incendio quando era bambino, durante l’attacco dei rahabim di Driel Kan, e a pochi mesi prima, quando l’aveva rincontrato.
    L’aveva ripagato del debito che aveva contratto con lui da bambino.
    Assieme ad alcuni uomini di Cain, pienamente padroni delle loro azioni, lui e i Difensori si erano scesi in campo, unendosi alla battaglia dell’Alleanza contro le armate di William consumatasi ai piedi dei Pilastri.
    Era stato uno scontro terribile, ma in qualche modo, erano riusciti tutti a tornare a Natcholm e a portare a casa la pellaccia, seppure pesti e doloranti.
    Purtroppo, non era andata molto bene. i Sarafan erano stati sconfitti, l’Equilibrio si era corrotto ancora di più.
    Il sole si era spento, la terra si era ammalata, i Corrotti avevano ripreso a sciamare come nei racconti degli antenati..
    Non sapeva con certezza che cose fosse avvenuto ai Pilastri, perché alcuni suoi compagni erano stati feriti seriamente, ed erano dovuti tornar subito a Natcholm a ricevere le dovute cure.
    La cosa gli bruciava profondamente.
    Forse, se fossero rimasti, avrebbero potuto aiutare i Mietitori in qualche modo per impedire tutto quello.
    Ma no, che andava a pensare.
    Con tutta la buona volontà, loro di vita ne avevano una sola. E lì, c’erano in gioco forze molto più potenti e terribili della mortalità umana.
    Isaac scosse la testa. Se fossero rimasti in quei frangenti, sarebbero stati solo di impiccio.
    Ciò non dimeno, decise che i suoi uomini dovevano continuar ad aiutare in ogni modo possibile.
    Ed eccolo quindi, che, perdendo le staffe, aveva dato contro a lord Havoker e ai suoi compagni sulla pubblica piazza, davanti a tutti.
    Havoker aveva tenuto un discorso pubblico in cui l’Alleanza veniva demonizzata e incolpata di tutti i guai degli ultimi mesi. Ciò veniva usato come pretesto per imporre la sua autorità sulla città e per far accettare alla popolazione le drastiche misure che venivano rese pubbliche quel giorno, a detta sua, necessarie per sopravvivere.
    Quel funesto giorno di un mesetto prima, venne decretato il razionamento dei viveri, il coprifuoco, la legge marziale e, la costruzione della cinta muraria protettiva, con turni di lavoro massacranti e vessazioni nei confronti degli operai più adatte ad esser rivolte ai carcerati dell’isola-prigione di Meridian da cui provenivano i mercenari noti come uomini-che-annegano, più che a degli uomini liberi.
    Egli si era opposto pubblicamente a tutto questo, prendendo le difese dei suoi concittadini e dell’Alleanza.
    Era finita male. Havoker lo tacciò subito di tradimento e ordinò il suo arresto.
    Cain dapprima aveva esitato, ma poi aveva compreso che era meglio ottemperare, e diede gli ordini ai suoi uomini.
    Quel giorno, grazie a quegli istanti di esitazione, Isaac era riuscito, in qualche modo, a scampare al parapiglia.
    Da allora, lui e i Difensori avevano vissuto nelle fogne, nascondendosi come ratti.
    Era stata una esistenza ben grama e miserevole.
    All’inizio, era arrabbiato con Cain, e pensava di esser stato tradito da lui, ma poi le spie gli avevano riferiroto di come il capitano era caduto in disgrazia per aver contestato anche lui i metodi dei loro nuovi padroni.
    Comprendendo che il sarafan era in buona fede, Isaac si era rammaricato molto.
    Allora, aveva decise di aiutarlo in qualche modo.
    Così, erano iniziati gli atti di sabotaggio.
    La rete fognaria che si estendeva sotto la città era complessa e, conoscendola bene, era stato possibile usarla per introdursi pressoché ovunque.
    Lui e i suoi compagni avevano scoperto molti passaggi segreti, fra cui uno che portava dritto alla guarnigione dei sarafan, sotto la courtyard vicina al suo ingresso, dove avvenivano gli addestramenti e le esecuzioni pubbliche.
    Altri passaggi, invece si snodavano sotto le case. E così, dalle cantine delle taverne veniva puntualmente preso un po’ di cibo, che poi veniva spartito con i bisognosi e i più indigenti
    Le armerie venivano saccheggiate, come anche la tesoreria.
    Il denaro veniva reso a coloro a cui Havoker l’aveva estorto con tasse e dazi assurdi, per finanziare chissà quale diavoleria che l’ordine sarafan stava facendo a Meridian.
    Ovviamente, i beneficiari si guardarono bene da ostentare quelle monete, e per evitare guai stavolta le nascosero nei posti più impensabili.
    Dopo aver subito il saccheggio della tesoreria, Havoker aveva deciso di passare alle maniere forti.
    Così, se all’esterno della città i cancelli e le mura impedivano le intrusioni degli esseri oscuri, al suo interno le misure di sicurezza vennero notevolmente inasprite.
    Ovunque vennero disposte rune di rilevazione glifiche sensibili al suono e alla luce.
    Venivano attivate dai fabbri dei glifi al tramonto, col coprifuoco.
    Se qualcuno transitava nei paraggi, quelle di luce brillavano con lampi improvvisi, accecando i malcapitati, quelle di suono vibravano assordandoli.
    In entrambi i casi, le guardie accorrevano presto e punivano i trasgressori.
    Era stato proprio a causa di uno di quei dannati allarmi, di cui i Difensori ancora non sapeva niente, che vennero scoperti.
    Era avvenuto quella dannata sera che avevano finito l’acqua potabile a loro disposizione. Non potevano certo bere quella delle fogne, così cercarono di riempire le loro otri attingendo a quella conservata
    nelle cisterne e nei silos dell’acqua.
    Fu solo grazie all’abilità di Shiba con la mazza e alla magia di Kanna che erano riusciti a scappare.
    Tutti, tranne lui, che per permettere agli altri di fuggire, si era attardato ad affrontare i crociati viola.
    Ed era stato così, che gli uomini di Cain e di Havoker l’avevano preso.
    Il maestro dei glifi gli aveva ‘generosamente’ offerto due possibilità: poteva scegliere: o la Prigione Eterna… o la morte.
    Isaac optò per la seconda opzione, assai meno spaventosa della prima.
    Anche perché, dopo aver conosciuto il mietitore Rekius, aveva imparato ad accettare la morte.
    In fondo, era solo l’altra faccia della medaglia di quella meraviglia effimera chiamata vita.

    Isaac interruppe il flusso dei suoi pensieri e guardò l’elmo bardato che lo osservava.
    “No. Forza, andiamo.”
    Il sarafan lo scortò fuori dalla cella.
    Fece cenno ad altri tre suoi compagni di accompagnarlo e così, lui in avanguardia, uno dietro e due ai lati, scortarono il prigioniero fino alla corte del bastione, e al patibolo che lo attendeva.
    Dopo tanto tempo passato nell’oscurità Isaac faticò un po’ a mettere a fuoco la scena.
    Appena i suoi occhi si adattarono, guardò il chiarore ovattato del disco solare, seminascosto dalla caligine che ormai ricopriva incessantemente il cielo, notte e giorno.
    Un brivido gelido gli corse lungo la schiena.
    “Saluta il sole per l’ultima volta, ragazzo.” Gli disse borioso il soldato che l’aveva canzonato prima, trascinandolo fino al patibolo per mezzo della catena che lo collegava ai ceppi metallici che cingevano i suoi polsi.
    Havoker lo aspettava in cima alla forca, affianco al boia, guardandolo con un ghigno crudele.
    “Ah, eccolo qua, il baldo difensore di Nosgoth, che osò sfidare l’autorità del nostro buon re risorto.”
    Isaac scattò per avventarsi contro di lui, ma fu subito tirato a terra dalle catene.
    I sarafan gli puntarono contro le lance.
    “Vuoi accelerare la tua dipartita ragazzo?” disse Havoker, stizzito.
    “Forza, alla forca.” Ingiunse.
    Impiccagione? Era dunque quello il suo destino? Penzolare da una forca come un volgare brigante?
    Salendo le scale di legno del palco verso il cappio che lo aspettava e che penzolava dal palo, Isaac si guardò attorno in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa che potesse dargli una piccola speranza di uscire da quella situazione assurda.
    Guardò in direzione del capitano Cain, seduto in disparte ai piedi della torre.
    Il capitano era senza armatura, con il braccio fasciato e la gamba fasciate, si sorreggeva con una stampella.
    Lo osservava impassibile, senza tradire alcuna emozione.
    Isaac sostenne il suo sguardo per un po’, poi il capitano lo distolse e scosse la testa.
    Non sapeva come mai fosse ridotto in quel modo, ma comprese, che non avrebbe avuto aiuto alcuno da lui,. In verità, si stupì della sua stessa presenza.
    Non gli ci volle molto a capire che, nonostante la sua infermità, Havoker l’aveva costretto ad assistere, per infliggergli una stoccata psicologica, e piegarlo ancora di più di quanto non avesse già fatto.
    La cosa, mandò Isaac su tutte le furie.
    Diede un altro strattone, e stavolta i guerrieri gli assestarono una botta sulla schiena che lo mandò quasi riverso a terra.
    “Forza, in piedi!”
    Il boia andò da lui, lo tirò su malamente e fece passare il cappio attorno al suo collo, assicurandosi che il nodo scorsoio non fosse allentato.
    Isaac guardò giù, in direzione della piccola folla che era stata costretta, quasi contro la sua volontà, a venire lì a godersi lo spettacolo.
    Erano rappresentanti delle famiglie che vivevano nei vari quartieri della cittadina, dai poveri contadini e pescatori fino ai mercanti e aristocratici.
    I primi erano tristi: sapevano bene che lui era innocente e si dispiacevano che il giovane passasse tanti guai a causa del fatto che avesse preso le difese delle loro famiglie.
    Gli altri invece, erano quasi soddisfatti. Probabilmente, volevano ingraziarsi i nuovi padroni della città per riattivare i traffici e il commercio. In questo, i Difensori di Nosgoth erano di intralcio.
    Mozzare la testa della loro banda avrebbe rimosso dalla scena i paladini della plebe, e questo avrebbe giovato ai loro affari.
    Del resto, la gente moriva continuamente no? Uno in più non faceva differenza.
    Havoker si avvicinò al ragazzo e gli diede un buffetto sarcastico sulla guancia.
    “Sarò clemente con te. Prima di iniziare ti concedo un ultimo desiderio.”
    Come tutta risposta, Isaac gli sputò in faccia.
    “Vorrei tanto che tu e il tuo stramaledetto ordine veniste inghiottiti dalla terra!”.
    Havoker lo schiaffeggiò.
    “Cominciamo.” Disse.
    Si allontano e salì sul podio, dove iniziò il solito pomposo discorso di accuse, condanne, promesse e miraggi.
    “Signori e signori qua presenti, grazie di essere venuti.”
    Rivolse un breve inchino del capo ai nobili, che ricambiarono a loro volta
    “Oggi faremo giustizia!
    La cara, vecchia giustizia che troppe poche volte si fa vedere nella nostra amata terra insudiciata dlala Corruzione.
    Oggi, infatti, consegneremo in mano agli dei e all’Uno, l’anima di un giovane ribelle. Oh, suvvia, non fate quella faccia…”
    Si rivolse ai plebei lì presenti, le cui donne facevano fatica a trattenere le lacrime.
    “Capisco che per voi sia un periodo difficile, popolo. Ma dovete capire che la mia linea d’azione, per quanto severa, non fa altro che esaudire la volontà del nostro beneamato William. È un periodo oscuro, e questo richiede azioni e decisioni altrettanto oscure. Ma mi dovete credere, se dico, che tutto questo non sarà vano.”
    Quasi come se la natura di Nosgoth volesse rispondere a quelle parole vuote ed ipocrite, una nube oscurò maggiormente il sole, e di colpo la luce del giorno si affievolì.
    La nebbia si fece un po’ più densa, scendendo di quota fin quasi a lambiare la piazza.
    “Un giorno, i nostri figli ci ringrazieranno di tutto questo.
    Quando le armi glifiche create da me e dal mio ordine saranno portate a termine grazie ai vostri sacrifici, e quando i vostri figli usciranno dall’accademia di Steichenchroe al termine dall’addestramento a cui ora si stanno sottoponendo, inizierà una nuova era.
    I clan corrotti dell’impero di Kain diverranno solo un ricordo, come anche l’Alleanza, il cui agire sconsiderato ha causato la corruzione dei Pilastri e l’attuale situazione in cui versa oggi Nosgoth.
    Quando epureremo le loro cattedrali, noi umani potremo finalmente rivendicare il potere delle Sacre Colonne del Mondo. Verranno scelti nuovi Guardiani e finalmente, l’oscurità terminerà una volta per tutte!”
    “E falla finita con queste idiozie!” gli strillò isaac dalla forca.
    Il boia gli assestò un altro ceffone, tale da fargli sputare sangue.
    Havoker si rivolse a lui furibondo.
    “Come vuoi. Boia. Al mio tre!”
    Il boia non se lo fece ripetere
    I sarafan calarono le lance all’altezza del petto di Isaac, circondandolo da quattro parti, per impedirgli ogni altro movimento inconsulto.
    Il boia andò alla leva, e la afferrò con la mano, pronto ad aprire la botola e a far cadere Isaac nelle mani della morte.
    “Uno…”
    silenzio totale.
    “Due…”



    “Ventus scissor.” Sussurrai poco lontano.
    in quel momento… avvenne qualcosa… la nebbia divenne più densa, tanto da lambire il palco.
    Solo che stavolta non proveniva dal cielo, ma da sotto il patibolo.
    Presi com’erano tutti dal frangente, nessuno ci badò più di tanto a quella strana foschia… e così, nessuno vice la forbice di nebbia e aria, che aleggiava sinuosamente nei drappi delle brume, fino a giungere alle spalle del ragazzo, per poi salire, salire e salire, fino alla corda..
    “Tre!
    Successe tutto in un attimo.
    il boia aprì la botola.
    Isaac cadde di sotto, la corda stava per tendersi… e si spezzò, tranciata dalla forbice, che esplose in un piccolo refolo di vento.
    Isaac cadde sotto la botola, fra lo sguardo incredulo dei nobili, e meravigliato della popolazione.
    Al suo posto, balzai fuori io, brandente la mia fedele lama lucente.
    “Tu… il… druido?”” disse Havoker.
    “Già, io. Felice di conoscerti, cane dei glifi.” Lo salutai, con un cenno della spada..
    La mia mano corse subito al boia esterrefatto, lo afferrai per il cappuccio alla base del collo e lo scaraventai con violenza contro il muro retrostante. Il negriero incappucciato batté sonoramente la testa e non ebbe più modo di dare noie ad alcuno.
    Di fronte all’intrusione e all’aggressione i sarafan corsero subito verso di me con le lance in resta.
    “Vampiro!”
    “Spettro!”
    “Demone!”
    “Bastardo fetente!”
    “Cosa? Passi per il resto, ma mia madre era una santa donna, brutto cafone.”
    Risentito, scagliai un glifo di forza che li fece volare giù dal palco assieme ad Havoker,
    Sorridendo, Cain guardò in mia direzione con sollievo e approvazione, ma si affrettò a dissimulare la cosa prima di esser scorto.
    Lo notai con la coda dell’occhio e dalla sua espressione compresi che aveva fatto ciò che egli aveva chiesto.
    Per salvare le apparenze, feci in modo di calamitare completamente l’attenzione dei presenti su me stesso.
    “Signori e signore della giuria… Non so quanti di voi mi conoscano o abbiano sentito parlare di me. Ma la mia presenza non è mossa da ostilità o fame delle vostre anime.
    Sono venuto dai Pilastri fino a qui per impedire che oggi venga commessa un’ingiustizia.
    Mi duole molto il fatto che in questi ultimi mesi l’Alleanza non sia potuta accorrere in soccorso della vostra tribolazione, ma quello che è giunto al mio orecchio riguardo a quello che sta succedendo qua mi ha profondamente disgustato e mi ha convinto ad entrare in azione.”
    Mentre Havoker e i suoi scagnozzi si rialzavano goffamente, guardai verso il fabbro dei glifi e aggrottai
    le sopracciglia.
    I nobili e gli esponenti della plebe osservarono lo svolgersi di quegli eventi con crescente nervosismo.
    I primi erano impietriti dalla paura, ma i secondi erano sollevati e soddisfatti, perché finalmente i torti da loro subiti negli ultimi mesi venivano redenti.
    “Sbaglio, o stavate per commettere un omicidio? Spiegami quale colpa ha avuto quel ragazzo nei tuoi confronti, a parte quella di contestare la tua crudeltà, Sarafan.”
    “Grrr… non devo rispondere a te delle mie azioni, dannato essere.”
    In quel momento arrivarono sul luogo altri 3 sarafan, uniti agli altri fabbri dei glifi presenti a Natcholm.
    Da lontano, videro che Cain, apparentemente incurante di tutto, si stava grattando il naso.
    Non era ne’ negligenza del capitano, né circostanza fortuita: era il segnale, il momento in cui comunicava alla popolazione di compiere la sua parte..
    Ore prima, infatti, quando il capitano era appena stato ricondotto alla sua casa dai chierici dopo le loro cure, egli aveva incaricato Agnes di portare ai rappresentati del popolo che quel giorno sarebbero stati presenti all’esecuzione un messaggio molto enigmatico.
    “Se oggi ci saranno problemi, applaudite quando mi gratterò il naso.”
    Nessuno aveva capito molto il senso di quella frase, ma, a differenza di Havoker e dei sarafan che si era portato dietro, Cain e i suoi uomini erano persone e benvolute da gran parte della popolazione, soprattutto meno abbiente.
    Così, gli esponenti della plebe e dei ceti più poveri si alzarono dalle loro sedie ed eruppero in una fioccante applauso.
    “Lunga vita all’Alleanza!”
    “Lunga vita al capitano Cain, il vero paladino di questa città!”
    “Viva i Difensori di Nosgoth.”
    “Abbasso i soprusi!”
    “Cosa? Brutti traditori, come vi permettete?! Havoker è venuto ad aiutarci contro i Corrotti! Cain è un’idiota!”
    tuonò un baronetto. Gli altri ricchi e mercanti gli fecero eco.
    “Silenzio stolti, voi seguite i fabbri dei glifi solo per tornaconto economico! Havoker ha privato del cibo e dell’acqua noi e le nostre famiglie e ci ha costretto a vessazioni e lavori forzati, ma a voi ha dato solo agevolazioni! Siete dei venduti!” strillò il fabbro.
    “Come osi, maniscalco?!?!”
    il baronetto tirò al fabbro un pugno, che lo prese in piena faccia.
    Peccato che, per il fabbro, grande e grosso com’era e abituato a battere il metallo, quella fosse solo una carezza. Invece, il nobile sentì molto distintamente la trambata che gli diede poco di rimando e che, fra mille grida di sgomento, lo mandò lungo disteso addosso ai suoi compagni dalla puzza sotto il naso,
    Ne uscì subito un’aspra diatriba.
    I poveri gridavano a gran voce quanto avevano taciuto fino a quel momento: volevano il reintegro del capitano Cain alle sue funzioni e per l’allontanamento di Havoker dalla città.
    Da canto loro, i benestanti li additarono come traditori.
    I poveri dissero che erano loro che stavano tradendo Natcholm per la loro stessa avidità
    Volarono quindi le offese e ad esse seguirono altri pugni, ceffoni e spintoni.
    Di fronte quella cagnara, i fabbri dei glifi e i sarafan accorsi non poterono raggiungere il patibolo dove infuriava la lotta, in quanto dovettero darsi da fare per sedare la lite e per mandare via la gente
    Ridacchiai.
    “Gran bello spettacolo non credi? Una scazzottata liberatoria è di gran lunga meglio di una esecuzione!” dissi ad Havoker, schernendolo.
    Furibondo, il capo dei fabbri dei glifi reagì caricando dalle mani dei proiettili di magia sacra che scagliò nella mia direzione.
    Me l’aspettavo. Usai la mietitrice di luce per bloccare e deviare la prima salva,e ne scartai altri con agili balzi che mi portarono giù dal palco.
    Le mie traiettorie sembravano evasive, ma in realtà avevano lo scopo di avvicinarmi gradualmente a lui per dargli la lezione che meritava.
    Comprendendo le mie intenzioni, Havoker si rivolse a guerrieri presenti
    ““Forza, imbecilli, datemi una manoo! Capitano! Ordina ai tuoi uomini di…”
    Quali uomini? Non c’era nessun uomo di Cain dentro alla guarnigione. Havoker li aveva mandati tutti in licenza, lasciandola parzialmente sguarnita.
    Vi erano solo lui, un boia, i suoi scagnozzi e gli altri fabbri della sua congrega.
    Si rese conto solo in quel momento che Cain l’aveva giocato, e che, in qualche modo, si era messo d’accordo col druido.
    Si voltò verso il capitano, pronto ad accusarlo di tradimento ma…Cain se ne era appena andato,
    lasciando la corte e richiudendo la porta dietro di lui.
    E per, la prima volta in tanti mesi, sorrideva, perché finalmente la moneta stava cadendo nuovamente di taglio.
    Come qualche mese prima, anche quel giorno, il libero arbitrio avrebbe deciso. Ma stavolta, non si trattava di quello dei suoi uomini, ma di quello dello stesso popolo… Con un piccolo aiuto.

    ATTO V Vecchie conoscenze

    Avevo ormai raggiunto Havoker
    “E adesso, preparati a…” qualcosa di tagliente mi punse ad una spalla, ferendomi e facendomi digrignare.
    “Fermo dove sei, demonio!”
    Mi voltai e vidi che i quattro sarafan di scorta al patibolo si erano rialzati ed erano giunti alle mie spalle.
    Cominciarono una manovra di accerchiamento per trafiggermi con le lance.
    Uno di loro portò un colpo al mio fianco.
    Scartando di lato, mi scansai appena in tempo e la lancia si conficcò a vuoto, lacerando solo il suo mantello.
    “Questa me la paghi, carogna.”
    Afferrai l’asta e vi infusi una potente scarica elettrica.
    Coperto dall’armatura, il sarafan sussultò e cadde a terra stordito, lasciando l’arma.
    Brandii l’asta con la mano sinistra e la usai per parare gli attacchi degli altri Sarafan, mentre invece con la mano destra portavo gli attacchi della mietitrice di luce.
    I tre si allontanarono, spaventati da quella lama terribile e dalla mia furia.
    Quelli non erano gli uomini di Cain, ma erano gli scagnozzi di Havoker.
    Non avrei dovuto aver pietà verso di loro, e, in effetti, in altre circostanze, li avrei uccisi senza farmi molto scrupolo, ma lì era diverso: ,non volevo commettere un omicidio davanti a dei civili: là i veri criminali erano solo i fabbri dei Glifi. Quei soldati erano solo dei burattini senza la minima consapevolezza del male che facevano, e non volevo dare una brutta immagine dell’Alleanza. .
    Assai meno scrupoloso di me, Havoker gesticolava da lontano e sussurrava parole e nenie blasfeme.
    Un’aura di luce violacea avvolse i sarafan, aumentando la loro forza e furia negli attacchi.
    Dannazione, avrei dovuto liberarmi di quei tre in fretta
    Cpsì, cambiai tattica per soprenderli: ersi la mietitrice di luce a mo’ di scudo e bloccai i colpi delle loro lance con la spada lucente, notevolmente più agile e flessuosa di quelle rigide armi.
    Poi, roteai vorticosamente l’asta che tenevo nell’altra mano ei sferzai i miei contendenti di una serie di rapidi colpi.
    Accusandoli, i tre sarafan decisero di allontanarsi, e tenere maggiore distanza.
    Uno cercò di portare un attacco alle mie spalle ma me ne accorsi in tempo.
    Mi voltai di scatto e gli trapassai la gamba con la punta della lancia, facendolo accasciare a terra in un fiotto di sangue.
    I due rimasti allora lasciarono perdere ogni cautela e mi si avventarono contro come una furia, roteai l’asta con una torsione del polso e del busto e conficcai la sua seconda punta alla base dell’elmo del più vicino.
    Facendo leva, glieli feci saltar via. Il colpo successivo lo inflissi col piatto dell’arma sulla sua testa, assestandogli una botta che gli fece perdere i sensi.
    Il terzo sarafan riuscì a raggiungermi e ferirmi, trafiggendomi il braccio che reggeva l’arma.
    Gridai dal dolore e fui costretto a lasciar cadere l’asta a terra.
    Risposi con un fendente della mietitrice di luce che lo ferì tranciandogli la lorica.
    Approfittai del suo gemito e gli assestai una poderosa testata nel ventre ormai scoperto. Feci svanire un attimo la lama fantasma, lo afferrai per la tunica e lo tirai a me.
    Lo afferrai per un braccio e glielo torsi fino a sentire i suoi legamenti cedere.
    Il guerriero cadde a terra urlando, tenendosi l’addome ferito di striscio e il braccio leso in preda a spasmi di dolore. Lo mandai nel mondo dei sogni con una pedata.
    Terminato l’incantesimo di potenziamento, mentre ero occupato in quella contesa Havoker indietreggiò, costeggiando il muro alla ricerca disperata di una via di fuga, ma era troppo lontano dalle porte.
    “Fermo, dove credi di andare!” dissi, ormai senza avversari, camminando verso di lui.
    “C-che intenzioni hai?” chiese, e per la prima volta vidi la paura nei suoi occhi.
    “Hai ucciso degli innocenti e hai portato la disperazione a questa gente, già vessata dalle tenebre incalzanti e dall’attacco dei Corrotti. Dammi un buon motivo per risparmiarti, sarafan…”
    Havoker stava per rispondermi, quando all’improvviso venne colto da una serie di tremiti e spasmi che lo piegarono in due, lo osservai sorpreso.
    Il fabbro dei glifi tirò su la testa e mi osservò… e nei suoi occhi vidi ardere una luce malata, verdastra, che conoscevo fin troppo bene. il suo volto era distorto in un bieco ghigno e la sua voce usciva storpiata e cacofonica.
    “Tuuu… piccolo druido… Non hai proprio capito vero? Secondo te… chi sono, veramente, io?”
    “…”
    “Sai, una volta Havoker era un semplice chierico, ma fece l’errore di interessarsi un po’ troppo agli studi di magia nera di Nevar e ai suoi esperimenti, e questo l’ha avvicinato molto alla demonologia… a noi…”
    l’Hylden usò il corpo posseduto del fabbro per muovere un passo in mia direzione.
    “Non è stato difficile adescarlo e controllarlo sempre più. Da allora la sua volontà è stata sottomessa alla mia. Mi ubbidisce anche quando pensa di essere lucido. Conserva i ricordi delle mie azioni, e crede di essere stato lui ad averle compiute. Al contempo, gli do potere.”
    Delle fiammelle verdastre iniziarono ad ardere nelle mani dello stregone
    “E sai bene che gli esseri umani sono particolarmente sedotti dalla brama di potere, vero?”
    Compresi con cosa avevo a che fare.
    “E così, Hash’Ak’Gik non è il solo hylden ad essere tornato… Che ne è ora dell’uomo in cui alberghi, dannato?”
    “Oh, la sua anima ha appena abbandonato il suo corpo. È il prezzo da pagare per una occupazione così perentoria e imperativa della psiche umana da parte della mia specie. Normalmente non l’avrei fatto, ma ci tenevo a parlarti di persona, Asgarath.”
    “Come fai a sapere il mio nome?”
    “Noi hylden sappiamo molte cose. Sai, è stato davvero divertente porre fine alla tua vita mortale e a quella della tua famiglia, millenni fa. Se foste rimasti in circolazione, sareste potuti essere una vera seccatura per i nostri piani. I demoni al nostro servizio hanno lavorato bene…”
    Lo guardai con furia crescente, trattenendo a stento la rabbia.”
    “Da quanto, voi hylden, adescate e manipolate l’agire dei sarafan per provocare tutto questo?”
    “Oh, da un bel po’ di tempo! È davvero meraviglioso poter finalmente rivedere Nosgoth dopo tanti eoni!” ribattè, con la sua orrida voce gracchiante e stereofonica.
    “In quanti avete fatto ritorno?”
    L’hylden rise.
    “Abbastanza da dare corpo alle vostre peggiori paure. Un solo Pilastro, non è sufficiente a tenerci fuori.
    I più potenti di noi hanno già varcato la soglia. I laboratori della nostra città, oltre il mare, sono stati rimessi in funzione. Presto, avremo di nuovo corpi fisici… E allora…”
    “Basta così, ho capito.” Mi avventai sul corpo impossessato ansioso di porre fine a quella farsa, ma il mio avversario mi sorprese scagliandomi contro una cortina di fiamme verdastre.
    Fu solo grazie alla mia prontezza di riflessi nel levare la spada di luce in mia difesa che riuscii a deviarne abbastanza da non esser colpito direttamente.
    Tuttavia, i guizzi che mi raggiunsero si insinuarono nel braccio ferito, e mi bruciarono le carni come non mai, intaccando anche la mia essenza spirituale.
    Urlai. Sentivo il fetido veleno della corruzione di quella magia farsi strada nella mia carne, avvelenando la mia anima.
    Furibondo, ersi una barriera di fuoco azzurro in mia difesa e la usai come scudo per sfidare le fiamme del nemico. Gli trapassai il petto con un affondo e la mietitrice lo trapassò da parte a parte,
    sfilai la lama dal corpo corrotto dell’umano ospite e nell’attimo successivo, gli staccai di netto la testa.
    Il corpo di Havoker ormai senza vita si afflosciò e dal suo collo fuoriuscì l’anima dell’hylden.
    Un’anima diafana, verde malata dalle fattezze inconfondibili.
    Anche se affamato e bisognoso di nutrimento per contrastare le ferite e il veleno, me ne guardia bene dal divorarla.
    Non sapevo se consumare un’anima così vile e corrotta potesse esser deleterio per me.
    Non era stato molto piacevole quello che era successo a Raziel ad Abernus, quando aveva assorbito l’anima impossessata di Turel. .
    La lasciai quindi scivolare nel regno spettrale.
    Che se la mangiassero gli sluagh!
    Digrignando i denti in preda al dolore per il veleno spirituale, feci per andarsene dalla corte, ma venni colpito con un’onda d’urto glifica che mi mandò a sbattere contro la parete.
    “Muori, Mietitore! Muori!” tuonavano i servi di Havoker.
    Durante il duello si erano avvicinati.
    Infatti, il piazzale era ormai vuoto e la gente aveva smesso di pestarsi, in quanto i sarafan e i fabbri li avevano dispersi con violenza. costringendoli ad una folle fuga verso le loro case.
    Alcuni di loro, nobili e qualche contadino, giacevano gravemente feriti a terra, chi calpestato, chi colpito dagli aguzzini.
    Avendo avuto la peggio il loro compagno che albergava nel corpo di Havoker, gli hylden decisero di prender il controllo dei suoi accoliti.
    I fabbri quindi si avventarono verso di me con rabbia, saccagnandomi di altre fiamme verdastre.
    Se fossi stato ancora un cavaliere, sarei scivolato di sicuro nel regno spettrale.
    Come Paladino per fortuna, aveva una maggiore lucidità e resistenza.
    Così riuscii a bloccarle appena in tempo, con una barriera di fuoco azzurro che ersi a mia difesa.
    Per un po’ quel duello andò avanti. e le due magie si scontrarono fra di loro, testa a testa, in un’esplosione di scintille colorate e cangianti nella quale ognuna cercava di prevalere sull’altra.
    Gli hylden che dominavano quei zeloti erano meno potenti di Havoker; tuttavia mi resi conto
    che non sarei mai riuscito a combatterli tutti e tre lì, stretto all’angolo.
    Come il veleno, anche la magia che usavo per proteggermi stava consumando le mie forze.
    La mia stanchezza aumentava sempre più, e così il mio potere iniziò a venire meno.
    “ fabbri ghignarono preparandosi a sopraffarlo, mentre altri soldati giungevano a dar loro manforte, stavolta armati di balestre glifiche.
    “Ma…Maledetti… Se pensate di intrappolarmi e di catturarmi come avete fatto con quel povero ragazzo…”
    levai in una mossa disperata la mietitrice in aria, roteandola furiosamente. La lama da lucente divenne infuocata e scaricai l’energia delle anime consumate in precedenza nella battaglia contro i Rahabim, in un’ondata di fuoco che travolse i fabbri dei glifi.
    “…Avete sbagliato di grosso, carogne.”
    Gli uomini posseduti dagli hylden urlarono in preda al dolore più atroce,e sospesero il loro attacco.
    I sarafan li guardarono spaventati, arretrando di fronte a tanta furia distruttiva.
    Mi rialzai a fatica e approfittai di quel momento. Emersi dalle fiamme correndo il più rapido che potei, avvolto ancora nel fumo.
    La spada fiammeggiante mulinò tre volte, tre colpi precisi, che ferirono a morte i corpi che impossessavano gli hylden a morte. Li sorpassai e li lasciai al loro trapasso.
    Scagliai un getto di fiamme azzurre contro i sarafan, non fece molto contro di loro, ma li bloccò abbastanza da impedirgli di far fuoco con le balestre glifiche.
    Raggiunsi finalmente la botola e mi tuffai di sotto, poi continuai la mia fuga arrancante nelle fogne.



    ATTO VI – fuga esplosiva.


    Quando Isaac era sceso dabbasso, trovò i suoi compagni ad aspettarlo all’imboccatura della botola.
    “Isaac!” Kanna lo abbracciò con forza.
    “Kanna… Ahi, piano!”
    La ragazza lo lasciò e lo guardò preoccupata.
    “Sei ferito?”
    “Mai quanto nel mio orgoglio.” Ironizzò lui.
    “Ti hanno torturato?” domandò Shiba.
    “No. Il capitano ha fatto in modo che non venissi torturato, ma il mio soggiorno in cella non è stato comunque piacevole. Quell’Havoker è odioso e mette davvero i brividi. Ma… ho visto bene? Sbaglio o…”
    “Sì, sembra che il tuo amico Rekius abbia mandato un suo fratello a tirarci fuori dai guai.” Disse Shiba.
    Isaac rimase a bocca aperta, e abbozzò un sorriso divertito.
    “Ti portiamo al covo, ce la fai a camminare?” chiese Kanna.
    “Sì, tranquilli, sono solo un po’ debole. Fatemi strada.”
    “Allora muoviamoci.”
    “Aspettate, che ne sarà del mietitore?” domandò Isaac, preoccupato, voltandosi a guardare verso il tombino divelto, .
    Potevano udire i primi rumori del combattimento, uniti seguiti dalle parole del mio discorso pronunciato in contrapposizione al proselitismo di Havoker.
    “Non preoccuparti. Asgarath ci raggiungerà a breve. Ma dobbiamo allontanarci.” rispose Kanna.
    “Va bene, torniamo al covo.”
    “Peccato dovergli lasciare tutto il divertimento.” Commentò Shiba.
    “Avremo un’altra occasione, Shiba, non ora” gli rispose Kanna.
    L’uomo era quasi tentati dal restare a godersi lo spettacolo, o da venire a darmi manforte, ma io avevo dato ordini ben precisi.
    I sarafan e i fabbri dei glifi erano avversari troppo forti e numerosi per loro.
    Me ne sarei preso cura io. Loro dovevano solo pensare a mettersi in salvo e a prendersi cura di Isaac.

    Quel piano aveva richiesto un bel po’ di preparativi, e non potevo permettere che niente lo mandasse a monte.
    Quando era venuto a sapere da loro che la rete di tunnel sotto la città si estendeva fin sotto alla guarnigione, e che un tombino si trovava proprio sotto il patibolo della sua piazza centrale, aveva maturato subito la mia idea. L’avevo esposta a Kanna e lei la approvò.
    Mi avevano quindi condotto al loro covo nelle fogne: una grande camera sotterranea ottagonale scavata nella pietra, da cui si dipartivano varie stanze laterali, oltre a quattro gallerie che i Difensori avevano provveduto a chiudere con porte e saracinesche che si potevano aprire solo dall’interno.
    Il loro uomini furono sorpresi e spaventati nel vedermi e le loro mani era corsi subito alle armi sacre ma lei e Shiba li assicurarono che ero un amico fidato, venuto ad aiutarli.
    La loro raccomandazione, un mio breve discorso carico di speranza e coraggio, e l’esibizione della mietitrice di luce, erano bastati a fugare ogni dubbio in tal senso.
    Nelle ore successive avevamo lavorato assieme nel laboratorio alchemico che la donna aveva allestito alla bell’e meglio.
    “Salnitro, zolfo… cenere, vecchia legna arsa, reagenti, perfetto. Ce ne è d’avanzo.”
    Avevamo confezionato degli stoppini fumogeni, un potente acido in grado di sciogliere i metalli, e alcune bombe rudimentali.
    Lei e Shiba poi erano venuti con me, gli altri loro compagni erano rimasti indietro a piazzare e controllare gli esplosivi lungo il tunnel fognario che si estendeva fin sotto la guarnigione, raggiungemmo il tombino sotto il patibolo.
    Giunti sotto il chiostro interno della fortezza, Kanna si era fatta avanti. Aveva indossato dei guanti e aveva passato sulle grate lo straccio intriso dell’acido.
    Lo sfrigolio che aveva prodotto la sostanza mefitica ci aveva fetto capire che stava già iniziando ad intaccare il metallo.
    Lei quindi si era scansata, facendo spazio a me e a Shiba.
    Avevamo lavorato in fretta e furia con le lime, segando le grate fino a poter rimuovere agevolmente il tombino.
    A quel punto, io salii di sopra.
    Nascosto sotto il patibolo mi ero fatto quatto quatto e avevo piazzato gli stoppini fumogeni sotto il palco.
    Da lì in poi, tutto sarebbe dipeso da me.
    Poi ci fu la battaglia.
    Sistemati Havoker e i fabbri che minacciavano la città, ero scappato di sotto e avevo corso per ricongiungermi a Shiba, Kanna e ai loro uomini.

    Il braccio trafitto doleva molto,:il veleno continuava a consumare le mie forze e la mia velocità ne era rallentata. Avrei avuto davvero bisogno di scivolare nel regno degli spettri per sfamarmi e recuperare le forze, ma non potevo farlo in quel frangente.
    Il piano sarebbe sfumato e avrei messo i ragazzi in pericolo.
    Così continuai la corsa.
    Dietro di me, arcieri e balestrieri sarafan devoti ai fabbri, indossanti armature dalle rune rivelatorie mi inseguivano, ansiosi di farmela pagare per il mio scherzetto di prima.
    Normalmente, li avrei seminati, ma in quelle feci fatica a tenerli lontani.
    Strinsi i denti per il dolore crescente e accelerai il passo il più possibile, fino a raggiungere Shiba e gli uomini rimasti ad aspettare il mio ritorno come concordato.
    “Ci stanno inseguendo?”
    “Sì….” Dissi ansimante.”Andate avanti, voi… Non indugiate, seguite il piano!”
    “E tu? Sei ferito!”
    “Non è niente. Andate, vi dico, forza!”
    Mi voltai per fronteggiare gli inseguitori, con la mietitrice di fuoco ardente nella mano destra, pronta a difenderci nel caso le cose andassero diversamente da quanto avevo preventivato.
    A malincuore i Difensori mi lasciarono lì da solo.
    Attesi che si allontanassero abbastanza e che i sarafan fossero a portata di tiro.
    Perché, nella foga di darci la caccia, i crociati viola non videro gli strani pentoloni sigillati pieni di materiale esplosivo di cui era stata dislocata la galleria.
    Quando vi furono in mezzo e iniziarono ad inciamparci, fu troppo tardi.
    Scagliai dalla mano gli ultimi stralci di energia glifica rimasta in me sotto forma di un debole pirogramma caricato in quei frangenti, che andò a colpire le cariche, detonandole in un grossa esplosione che travolse i soldati e che fece crollare il tunnel, sigillando il passaggio.

    Il boato che ne seguì fu davvero assordante e si propagò per tutto il centro della città, scuotendo le fondamenta stesse della guarnigione dei sarafan.
    Cain fu sorpreso nell’udirlo, ma assentì, comprendendo che era un’altra delle trovate del druido.
    Sperava soltanto che le perdite fossero state contenute.
    Anche se traviati, gli uomini di Havoker erano pur sempre Sarafan come lui.
    D’altro canto, forse quel sacrifico era necessario.
    Non si poteva vincere su tutto e doveva riconoscerlo. Se non altro, ora la situazione era di nuovo nelle sue mani.
    Con Havoker e i suoi accoliti morti, non poteva che esser reintegrato…
    Almeno fino a quando da Meridian non fossero arrivati altri guai.
    Fino ad allora, avrebbe agito più saggiamente di prima, e più sottilmente.
    Avrebbe riorganizzato la città, avrebbe posto rimedio alle ingiustizie commesse da Havoker e avrebbe infuso nuovamente la speranza e la determinazione fra la sua gente.
    Avrebbe trovato il modo di respingere i Rahabim e di rendere Natcholm un posto nuovamente sicuro e accogliente, per quanto potesse esserlo in quel mondo nuovamente corrotto.
    Promise a se stesso che da quel giorno avrebbe dato il massimo di sé alla sua gente e a Nosgoth.
    I suoi superiori ci avrebbero pensato due volte prima di deporlo nuovamente dal suo incarico.
    Lui non lo sapeva, ma era stata una fortuna che né lui, né gli altri abitanti di Natcholm fossero stati presenti ad assistere alla manifestazione degli hylden.
    Perché, altrimenti, una volta venuto a saperlo, i fabbri dei glifi di Meridian avrebbero sicuramente messo a tacere la cosa facendo sparire tutti i testimoni oculari… definitivamente.

    ATTO VII Ritorno a casa


    Era finita. L’inseguimento era cessato.
    I miei avversari erano morti, il passaggio era ostruito dalle macerie e dal metallo divelto dei tubi sfrangiati.
    Divorai le anime dei sarafan caduti prima che scivolassero nel regno spettrale, ed esse finalmente mi curarono dall’avvelenamento e rigenerarono il mio braccio.
    Ero ancora un po’ frastornato, ma mi sarei ripreso in fretta.
    Non dovevo più temere niente, almeno per il momento.
    Con la morte dei suoi superiori, Cain avrebbe ripreso a dare ordini per un bel pezzo.
    Quella rete fognaria era antica di secoli e ormai si era persa la memoria della sua esatta planimetria.
    Solo i Difensori di Nosgoth avevano imparato ad apprenderne tutti i segreti a causa del loro insediamento forzato in quegli oscuri recessi.
    Ma i sarafan non la conoscevano come loro.
    C’erano sicuramente altri accessi a quei tunnel, ma ci avrebbero impiegato un bel po’ per trovarli e per setacciare le fogne alla ricerca della truppa scomparsa e dei Difensori.
    Ero confortato da quelle idee, ma ero anche molto preoccupato. Dovevo subito tornare da Bleed e riferirgli quanto avevo scoperto.
    Tuttavia, rimasi a Natcholm ancora un poco.
    C’era ancora una cosa che dovevo fare.

    Non appena varcai la soglia della camera segreta che si trovava al centro delle fogne, nella quale i Difensori avevano il loro covo, le sentinelle chiusero rapidamente tutti i passaggi esterni dello snodo.
    Una grande cancellata di ferro consunto dal tempo sprangò la strada alle mie spalle, mentre falsi muri bloccarono quelli delle altre diramazioni.
    Avanzai cautamente e trovai i Difensori al centro della grande sala.
    Il loro chierico stava medicando alla bell’e meglio le ferite di Isaac e lui mangiava di gusto il pane e il formaggio che gli erano stati dati per rifocillarlo.
    “Eccomi, sono tornato.”
    Vedendomi arrivare, I Difensori interruppero le loro occupazioni e mi accolsero con sorrisi e un piccolo applauso.
    “Calma, calma. Ho solo fatto il mio dovere.” Guardai Isaac, che aveva finito da poco di essere medicato dal loro vecchio chierico.
    Appena mi vide, mise da parte il cibo e si alzò, porgendomi la mano.
    “Asgarath.. giusto?”
    “Sì, Isaac, piacere mio” gliela strinsi.
    “Come stai, ragazzo?”
    “Molto meglio, grazie a te.” Disse, un po’ imbarazzato.
    “Comincio ad essere un po’ contrariato da questa situazione.”
    Lo guardai senza capire.
    “Beh, Rekius mi salvò da un incendio quando ero piccolo, e dovettero passare decenni prima che potessi ripagarlo. Quanto ci vorrà prima che potrò ripagarti per quello che hai fatto oggi per me e per tutta la città?”
    Scoppiai a ridere, per la prima volta mesi di angosce.
    “Non ti preoccupare, ragazzo. Non mi devi niente.”
    “Insisto.”
    “Ho detto di no.”
    “Lo vedremo.” Mi disse, con un tono di sfida.
    Ridemmo.
    “Che ne sarà di voi ora?”
    “Non possiamo tornare alle nostre case” disse Kanna.
    “Anche se Cain è dalla nostra parte, prima o poi verranno altri sarafan, altri fabbri dei glifi. Nosgoth non è ancora sicura.”
    “Non lo sarà, finché William sarà in circolazione.” Risposi con amarezza.
    Mi guardai attorno e osservai una perdita da una tubazione e una polla d’acqua fetida che si raccoglieva sotto lo sgocciolio.
    “Però, non potete restare qua in queste condizioni pietose. Finirete per ammalarvi.”
    “Non resteremo qua. Non abbandoneremo la nostra gente al suo destino, ma non possiamo nemmeno rischiare di essere presi. Andremo nell’altro rifugio.” Rispose Isaac
    “La caverna della luna, vero?”
    “Sì. Si trova a sudest da qui, lungo il costone roccioso del lago.
    Ha un ingresso chiuso da una pesante porta di pietra magica, che si apre solo se esposta alla luce della luna piena.” Spiegò il capo dei Difensori di Nosgoth.
    “In verità c’è un altro accesso, nascosto dai cespugli sulla rupe sovrastante, ma soltanto noi sappiamo localizzarlo. L’ho mascherato con una magia di occultamento.” Aggiunse Kanna.
    “Da lì potremo continuare la nostra crociata contro i sarafan e i corrotti indisturbati.” terminò Shiba.
    “Mi sembra una saggia mossa.”
    “Appena mi sarò ripreso abbastanza in forze, lasceremo Natcholm e ci rifugeremo lì. Quando i Sarafan scopriranno questo luogo, non troveranno più nessuno di noi.” Disse Isaac.
    “Ottimo.” Commentai.
    Riflettei per un po’.
    “Sentite… Odio doverlo chiedere ma… vorrei che qualcuno di voi venisse con me.”
    Isaac mi guardò perplesso.
    “Perché?”
    “Devo tornare ai Pilastri e informare i miei fratelli e sorelle di quanto sta succedendo qua e di come sta mutando l’ordine sarafan… e anche di alcune cose che ho scoperto sul pericolo che ora aleggia su tutta la terra.” dissi, cupo in viso.
    “Il fatto è che l’Alleanza ha più che mai bisogno di alleati, mai come in quest’ora oscura. Quindi mi chiedevo se… sareste disposti a collaborare con noi in futuro.”
    Isaac ci rifletté un po’ su.
    “Sarà pericoloso.”
    “Sì.”
    “Potrebbe essere la fine per tutti noi, e al contrario di te e dei tuoi simili, noi non possiamo risorgere quando e come vogliamo.”
    “Lo so.”
    Isaac rise.
    Guardò i presenti e gli domandò.
    “Che ne dite? Diamo alle sentinelle immortali di questa terra un’altra possibilità di redimerla?”
    La maggior parte dei Difensori rispose affermativamente.
    Le uniche obiezioni furono legate al fatto di voler conservare comunque l’indipendenza del loro ordine.
    “Tranquilli, non vi sto chiedendo di essere mercenari, né di essere alla nostra sudditanza.”
    “Allora affare fatto.”
    Strinsi nuovamente la mano di Isaac.
    “Nomino Shiba mio portavoce presso di voi.” Disse il ragazzo, indicando l’uomo armato di mazza chiodata che mi aveva assalito durante il mio primo incontro con i Difensori.
    “Verrò con te fino ai Pilastri, Asgarath.”
    “è un viaggio breve, ma comunque insidioso. Le terre non sono più sicure come prima.”
    “Lo so, ma prima partiamo, prima torniamo.”
    Annuii.
    E così era deciso.
    A quel punto, Kanna, Shiba e Isaac terminarono il pranzo, poi andarono a dormire assieme ai uomini che quel giorno ci avevano aiutato.
    Gli altri diedero loro il cambio, montando la guardia e iniziando a far i preparativi per il viaggio che li avrebbe condotti fino alla caverna a sud.
    Io mi sedetti da un lato e mi accovacciai su un pagliericcio, assorto nei miei foschi pensieri.
    Alla fine, mi assopii anche io.
    Quando Kanna mi svegliò scuotendomi la spalla, era ormai tramonto.
    Tutto era pronto per il viaggio.
    Così, lasciamo quel posto lugubre e umido e ci incamminammo.
    Passammo buona parte della notte a brancicare in labirintici tunnel fognari meridionali.
    Scoprii una grande stanza circolare alla fine di uno di essi, dove vi era un passaggio segreto, che faceva scivolare via una parte del pavimento, esponendo una scala di roccia.
    Quell tunnel si avventurava in profondità e percorreva le viscere della terra sotto il lago, poi risaliva, e alla fine sfociava all’interno della grande grotta.
    Per tutto il viaggio feci da compagnia, e scorta di quei giovani valorosi, facendogli luce con la mia lama e proteggendoli dagli slimer e dalle ombre, che in mia presenza, non ebbero l’ardire di far loro del male.

    Quando raggiungemmo la loro nuova base, i Difensori si ricongiunsero alle sentinelle rimaste ì a vigilare alla caverna della luna.
    Furono molto spaventate e sorprese nel vedermi. Stavano quasi per impugnare le armi contro di me, ma la presenza di Isaac li lasciò a bocca aperta.
    Lui e Kanna spiegarono loro la situazione.
    Gli uomini furono esterrefatti e vivamente sollevati. Pensavano che non avrebbero mai più rivisto il loro capo.
    A quel punto, mi fermai per il resto della notte in loro compagnia.
    Quella sera gli animi erano più lieti. ci fu molto da discutere, e mi raccontarono parecchie cose su come era cambiate gli ultimi mesi e su come si stava riorganizzando l’ordine sarafan nelle varie città.
    A mezzanotte, si coricarono tutti, e io rimasi a far la guardia all’uscita segreta della grotta, osservando il cielo fosco e coperto da brume, con un misto di amarezza, nostalgia, sdegno, tristezza, ma anche speranza.

    All’alba, di buon ora, io e Shiba salutammo tutti e partimmo.
    Fu un viaggio impervio, ma abbastanza tranquillo. Prendemmo sentieri accidentati, su campi aperti dove potevamo aver ampia visuale dei pericoli, lontano dai boschi, divenuti ormai infidi, e dalle strade, dove rischiavamo di incontrare briganti e altra gentaglia.
    Verso mezzogiorno eravamo in vista delle prime contrafforti della cattedrale.
    “Siamo quasi arrivati.”
    “Bene.”
    “Ti spaventa l’idea di cacciarti in un covo di spettri?” gli domandai, preoccupato.
    Lui ridacchiò.
    “Se temessi voi o la morte, non avrei fatto il cacciatore di demoni, Asgarath.”
    “Ammiro il tuo corag…” in quel momento si levarono delle grida orribili nell’aria.
    Ci guardammo per un attimo perplessi, poi decidemmo di comune accordo di indagare.
    Raggiungemmo una macchia d’alberi poco distante, e quel che si parò alla nostra vista, ci fece rabbrividire.
    Un windigo stava divorando i corpi straziati di due persone appena uccise, un uomo e una donna, riversi lì in una pozza di sangue.
    “Dannazione, siamo arrivati troppo tardi!” dissi stizzito a bassa voce.
    La creatura sembrò udirmi, benché fossimo nascosti dietro un sasso, ma continuò a mangiare, famelica.
    Shiba mi fece cenno di star zitto. Annuii, biasimandomi per la mia sciocchezza.
    Lui mi indicò qualcosa in mezzo alla vegetazione.
    Una figura umana piccola, tremante, terrorizzata e seminascosta dietro un albero.
    Un bambino di pochi anni, forse sei o sette.
    In quel momento, il Windigo alzò la testa e annusò l’aria. Ci acquattammo nell’erba fradicia, confondendoci al muschio.
    La creatura sporca di sangue e fango si allontanò dai cadaveri e mosse la testa dondolante a destra e a manca, indecisa.
    Poi, vide il bambino.
    Ringhiò furiosa e partì verso il piccolo.
    “No!” gridai.
    Balzai fuori dal nascondiglio prima che Shiba potesse dire o far qualcosa e mi avventai contro di essa scagliandole addosso una raffica di fiamme azzurre che la fece digrignare dalla rabbia e dal dolore.
    Ustionata e furente, la creatura si concentrò completamente su di me.
    Continuai a colpirla col fuoco, e fra il suo potere mistico e la sua debolezza a tale elemento ne fu gravemente scottata.
    Sembrava accasciarsi e aver la peggio, ma mi sorprese con un improvviso balzo con cui si avventò su di me, vibrandomi una poderosa zampata che mi fece tombolare poco lontano.
    Vidi Shiba correre furioso verso di essa, con la mazza chiodata in mano.
    “Shiba no, aspetta! Aspett…” non feci in tempo a parlare che il Windigo gli ringhio contro furioso.
    Balzò nella sua direzione e cercò di agguantarlo con le sue braccia lunghe e deformi.
    Shiba lo scansò chinando la testa di scatto e reagì colpendogli un arto con una furia tale da spezzargli le ossa dell’avambraccio.
    Il Windigo strillò di dolore, con una furia tale che l’uomo arretrò, sorpreso da tanta resistenza.
    La creatura stava per balzare addosso a Shiba ma il fuoco azzurro la colpì di nuovo.
    Si voltò nella mia direzione e cercò di colpirmi ma stavolta ero preparato.
    Scansai il colpo del braccio sano e lo tranciai di netto con la mietitrice d’anime.
    Approfittando delle sue grida, Shiba balzò sulla schiena della bestia e le fracassò amichevolmente le vertebre del collo con la mazza.
    Il Wendigo cadde a terra con un sonoro tonfo, stecchito sul colpo.
    La sua anima uscì dal corpo e la consumai.
    “Vedi,…” disse l’uomo, ansimante. “Non sono poi così terribili… Ogni creatura ha il suo punto debole. Basta trovarlo…”
    Scossi la testa.
    “Va’ dal bambino e tranquillizzalo, ti raggiungo fra poco.” Gli dissi.
    Mi diressi verso i suoi genitori, ma erano in condizioni orribili. Non potei fare nulla per loro.
    Tornai mesto da Shiba e dal bambino, che, in braccio a lui, piangeva copiosamente.



    Atto VIII – a Whisper of Hope

    “Calmati. Ehi, stai calmo… sei al sicuro, ora.” Gli dissi, accarezzandolo.
    Lui mi guardò sconcertato dal mio aspetto grottesco, e la sorpresa fu tale che lo fece uscire dal panico.
    Aveva gli occhi verdi e i capelli castani scuri.
    Tese verso la mia direzione una mano tremante, toccandomi.
    “Ma sei… vero?” domandò.
    “Vero come lo sei tu.” Ribattei, prendendogliela affettuosamente.
    “Come ti chiami, piccolo?”
    “Eric.”
    “Io sono Asgarath.”
    Gli porsi l’altra mano e lo sorpresi con un guizzo di fiamme azzurre.
    “Ehi, ma che cos’è?”
    “è una magia. Toccala, non brucia, vedi?”
    Il bambino avvicinò le dita alla fiamma e fu meravigliato dal non sentire calore alcuno.
    Si azzardò al sfiorare la fiamma e ritrasse subito le dita.
    “Sembra… freddo, ma non è cattivo.”
    “Eric, ti va di venire con me e con lo zio Shiba?”
    Il bambino ci guardò perplesso.
    “Dove?”
    “In un posto dove sarai al sicuro.”
    “Va bene…” disse timido, tenendosi stretto a Shiba.
    L’uomo non disse una sola parola, tanto era sorpreso dalla situazione paradossale e dal mio gesto.
    “Ma… sei sicuro di quel che fai?” mi sussurrò.
    Guardai il bambino a lungo, poi mi guardai attorno, in quel mondo grigio, smorto e decadente.
    “Mai stato più sicuro. Andiamo.”

    Raggiungemmo la cattedrale senza altri guai, senza parlare. Col bambino stretto fra le braccia di Shiba che aveva ripreso a piangere, di paura e dolore per la perdita dei genitori… ma anche di un sollievo che non riusciva a spiegare. Forse quello di essere vivo? O di non esser rimasto solo?
    Lo lasciammo sfogare. Ne aveva tutto il diritto.
    “È strano, che un Windigo si sia spinto fin quaggiù dalle gelide lande dell’Erebus, dove di solito vivono.” Pensai a voce alta.
    “Dimmi cosa non è strano da qualche mese a questa parte.” Mi domandò Shiba.
    Varcammo le soglie della cattedrale.
    Bleed arrivò quasi subito.
    “Asgarath.”
    “Ciao, fratellone.”
    Il paladino fur a dir poco sconvolto nel vedermi in compagnia di un umano e di un bambino.
    “Shiba, questo è Bleed. Bleed, ti presento Shiba, un vecchio amico di Rekius.”
    “Rekius è ancora assente, Asgarath.”
    Inarcai le sopracciglia.
    “Spero che torni presto. Vorrà dire che lo aspetteremo.” Risposi flemmatico.
    Ma in realtà ero molto preoccupato. Erano mesi ormai che era sparito nel nulla, distrutto dalla perdita del Senzacuore.
    “… Non c’è?” domandò Shiba, perplesso.
    “E’ una lunga e triste storia, amico. Una storia luttuosa.”
    Condussi Eric e Shiba al cospetto dei Pilastri.
    Shiba fu davvero rattristato nel vederli in quello stato.
    Erano tutti corrotti e neri, tutti tranne quello dell’Equilibrio, che era ancora in piedi, seppur con qualche scalfittura.
    Eric alla vista di quelle colonne sacre smise completamente di piangere. Rapito dalla meraviglia.
    “Cosa è successo?” domandò Shiba.
    “William.” Dissi, senza aggiungere altro.
    Lui annuì, e comprese più di quanto non avesse capito fino a quel momento. Chiaramente, l’assenza di Rekius doveva essere collegata a quella vicenda. Sperò che il gelido paladino stesse bene e che tornasse presto.
    Bleed scosse la testa con le braccia conserte.
    “Asgarath, devo parlarti un momento. Seguimi.”
    Lasciammo Shiba a contemplare i pilastri e raggiunsì Bleed in un angolo lontano del chiostro, dove lui non poteva sentirmi. .
    “Ma che cavolo ti è saltato in testa? Ti avevo detto di non fidarti di nessuno e tu porti qua…”
    “Ho fatto esattamente quello che mi hai chiesto, irruento fratello, e anche di più. Ho tutte le informazioni che volevamo sui sarafan… e qualcuna anche sugli Hylden. Inoltre, ho trovato degli alleati.”
    Dissi, indicando Shiba.
    “E fidati, che di questi tempi, ne abbiamo bisogno come non mai.”
    Bleed mi guardò sconvolto.
    “E… quel bambino?” disse, adocchiando Eric che contemplava i Pilastri.
    In quel momento fece capolino anche Emia.
    “E questo? Oh, che carino, ma sei un amore!” corse subito da Eric e lo prese in braccio.
    “Che ti è successo…” disse la donna, osservando la sua faccia stravolta dal pianto.
    “è una lunga storia, Emia.” Le risposi.
    “Asgarath… che cosa hai intenzione di fare? Non puoi mica tenerlo qua!”
    “Certo che posso e che possiamo, Bleed. Tu non hai forse Emia?” Gli dissi, serio.
    “Ma… Questo… questo non è un posto per tenere un bambino! Lo capisci? Non è al sicuro qua!” farfugliò il Paladino, perdendo la sua nota impassibilità.
    Guardai Bleed dritto negli occhi.
    “Ha appena perso i genitori. Ora, dimmi un-solo-posto-di-Nosgoth che sia sicuro per un bambino.”
    Lui non rispose.
    “Ecco. Ora, lui e Shiba sono stanchi e affamati. Che ne diresti se io, te, ed Emia facessimo loro gli onori di casa? Appena tornerà Rekius, forse, dovrebbero partecipare anche gli esponenti della Cattedrale del Sangue, c’è molto, molto di cui discutere…”

    FINE.
     
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    CITAZIONE (Glifo dell'Acqua @ 7/12/2019, 18:06) 
    Missione per Tiziel

    ~ Presagi del cambiamento~


    Mentre ancora alcuni Ghoul provenienti dalla Cattedrale del Sangue stavano ultimamdo le ultime rifiniture nella grande sala centrale dei Pilastri, Bleed chiamò a sé Tiziel dandogli udienza nel suo luogo preferito di tutta Nosgoth, nonostante oramai l'unico Pilastro ancora candido fosse quello dell'Equilibrio mentre i rimanenti 8 erano oscurati dalla corruzione.

    Fratello Mietitore, come ben saprai dopo la durissima battaglia di alcuni mesi fa le nostre forze si sono estremamente ridotte. Nonostante uno di noi valga ben più di un esercito umano, difronte agli sconvolgimenti recenti perfino la nostra forza vacilla. E come se tutto questo non bastasse ora anche l'esistenza stessa inizia a crollarci addosso ... letteralmente.

    ..... devi sapere che abbiamo avuto sentore di avvenimenti veramente preoccupanti che stanno accadendo da alcune settimane in un luogo molto lontano da qui. Verso sud-est, lì dove le colline della verde Nosgoth lasciano il passo alle pianure quasi sabbiose di Provance e poi continuando ancora più ad est verso l'enorme catena montuosa che ci separa dal territorio dell'Alchimista. Lì, proprio ai piedi della catena montuosa, quasi come fosse al confine tra noi e qualche altra presenza, sembrerebbe che il Piano Materiale stia subendo le interferenze di quello Spirituale.

    Non sappiamo perché questo accada, se sia a causa dell'instabilità dei Pilastri o di forze che cercano di spingere dal Piano Prigione ... magari entrambe o forse qualcosa a noi completamente sconosciuto ... ma quello che ci urge sapere è se il fenomeno è grave, quanto, e trovare il modo di studiarlo. Quindi, Mietitore, recati in quei luoghi sperduti e riportaci qualche cosa, un oggetto o un campione di qualsiasi genere, che abbia subito le influenze di questo sconvolgimento.

    Ma fa attenzione, non sappiamo come questo scompenso planare possa interferire con la nostra natura di spiriti incarnati.


    LDR 3

    Dettaglio della mappa per essere precisi:
    Missione-Tiziel

    CAPITOLO I

    Roccia e polvere spazzata dal vento, una fredda nottata ove neanche i lupi uscivano ad ululare. Forse perché spaventati, forse perché divorati da bestie ben più abiette.
    La vegetazione un tempo rigogliosa era marcita fino a divenire terra arida, poche foglie rimanevano al suolo prima di essere calpestate e sbriciolate dalla crudeltà di un pianeta ad un passo dal collasso.
    I vampiri divenuti sempre più simili a bestie selvagge banchettavano su quei tumuli, conficcando lordi artigli ricoperti di cartilagine nella pelle di incauti viaggiatori, strappando via i primi tessuti per affogare le zanne nella povera carne.
    Erano in due, avevano aggredito un esiguo gruppo, qualche uomo ed una donna gravida che ancora rimaneva attaccata alla vita nonostante una mano le fosse stata strappata via e sanguinasse copiosamente sia dall’arto reciso ... che dalle cosce.
    Forse per puro sadismo o per la lussuria che un tempo aveva caratterizzato parte dell’impero caduto di Kain, non aveva ancora smesso di respirare.
    Un grido, così forte da surclassare i fremiti di zanne e schiocchi di lingua riecheggiò, veniva dalla donna. Nulla che fosse connesso al terrore provato mentre assisteva inerme allo spettacolo dei suoi compagni di viaggio smembrati da quei mostri la cui razza un tempo era delle più illustri.
    Qualcosa di primordiale, venuto dal profondo del suo essere, qualcosa che da dentro di lei spingeva, fremendo per uscire.
    Diede fondo alle ultime forze, un pianto si accostò alle sue grida, il lamento di un nuovo nato appena venuto al mondo.
    La madre ebbe un solo momento, un solo fugace istante per vedere ed amare il frutto del suo grembo. Sprofondò poi nel sonno a cui tutte le anime sono destinate.
    Smettendo per un istante di affogare il viso nelle budella di quegli uomini ridotti ormai a carcasse irriconoscibili, il naso gli si posò sul neofita.
    Le sue grida erano assordanti, fastidiose, ma il suo sangue profumava di gioventù, di purezza incontaminata. Il più grosso dei due raccolse il pargolo, il midollo era ancora attaccato alla madre. Stava per affogare l’indice artigliato nella sua gola, ma, lo stomaco gli esplose. Schizzi di sangue ed interiora vennero sparpagliate al suolo, ignaro di cosa l’avesse portato sul baratro. Pensò ad un tradimento del suo compagno, ma lui era lì, intontito da quella scena surreale.
    La non-vita lo abbandonò, strappata via da qualcosa d’immondo almeno quanto lo era lui, un’entità che avrebbe preso anche il suo compagno, se non si fosse affrettato a fuggire, ma invece rimase rapito da quella visione.
    Sembrava galleggiare nell’aria, una figura dai lineamenti dolci ed esotici circondata da un’aura verdognola, marcia come l’anima di quelle creature, lunghi capelli biancastri ondeggiavano nella notte in movimenti ipnotici. Non ebbe il tempo di guardare il volto di lei che subito gli occhi gli vennero strappati via da quella donna spettrale. Gli afferrò la testa, premendo i pollici sulle orbite fino a schiacciarle.
    Il vampiro non capì cosa accade dopo, sapeva solo che il torace gli veniva strappato da una moltitudine di mani furiose che recisero la carne fino ad arrivare al cuore.
    Un canto venne intonato ad accompagnare la fine di quei corrotti, così dolce da calmare l’animo del nascituro, rimasto in lacrime fino all’inizio di quella dolce canzone.
    Quell’apparizione, quello spettro... Lo raccolse dal suolo, zuppo del sangue di sua madre e dei suoi assassini, portandolo con delicatezza al suo petto mentre proseguiva il suo canto.
    Che fosse un benevolo fantasma vendicatore o una strega venuta dalla gola dell’inferno per divorarlo lei stessa non importava. Era quieto fra le sue braccia, e così com’era venuta, scomparve portandolo con se.

    CAPITOLO II

    Le nuvole erano griglie, simile alla polvere eruttata dalla terra di Turel, anche l’alba sembrava morta in quella zona. Pochi raggi di luce riuscivano a trafiggere quello spesso strato di nubi per posarsi sulla gelida pietra che formava la catena montuosa ad est del Canyon.
    Qualche barlume di luce si posò sulla strada, incendiando i resti di vampiri da me lasciati sul percorso. Non avevo fatto un lavoro accurato, poiché le grida di alcuni di loro spezzarono la quiete di quella mattinata.
    Alberi morti e cornacchie intente a banchettare sui rimasugli che mi ero lasciato alle spalle venivano illuminati dalla luce diurna.
    A poche centinaia di metri dalle montagne riuscivo già a scrutare i numerosi cunicoli che correvano dalla superficie fino alle profondità del suolo. Setacciare l’intera zona avrebbe richiesto dei mesi, non potevo permettermi un simile dispendio di tempo. Fortunatamente dovevo solo riportare un oggetto.

    Il comportamento dei vampiri corrotti residenti in quella zona, il cui lezzo di cadavere affumicato ancora persisteva, si sarebbe potuto definire insolito. A poche ore dall’alba ancora bazzicavano fuori dalle grotte, un umido e rassicurante rifugio per un vampiro. Forse perché spinti dalla fame o scacciati dal terrore per le loro ripugnanti vite, magari la mia lama era un rassicurante epilogo per le loro anime paragonato a ciò che stava accadendo.

    Indagando al margine, non lontano da un percorso che conduceva ad un fiume a nord, il quale scorreva da est fino ad infossarsi nell’esofago della montagna per proseguire ancora nei portici del sottosuolo, mi ritrovai dinanzi ad uno scenario troppo singolare anche per Nosgoth.
    Cadaveri fatti a pezzi e mezzi spolpati, tuttavia non completamente dissanguati. Nelle loro vene il sangue era rinsecchito a grandi dosi. Alcune tracce lasciavano presupporre che fossero stati massacrati da dei vampiri, ma gli unici che lasciavano avanzi erano gli zephonim, poiché quei vili serpenti preferivano conservare le prede nella tela, prolungandone l’agonia per giorni.
    Quelli che avevo ammazzato lungo il tragitto erano dumahim. Secondo gli annali di Nosgoth ed alcuni vecchi tomi sopravvissuti allo scorrere dei secoli, dalla caduta del loro condottiero, impalato sul suo stesso trono, erano divenuti per metà nomadi. Sparpagliati aggredivano come bestie selvagge qualsiasi cosa potesse permettergli d’ingrassare e trascinarsi ancora per gli anni a venire.
    Alcuni dovevano aver trovato rifugio nelle guglie di pietra, lontani dall’acciaio Sarafan.
    I bastioni di Meridian erano molto più a sud, sebbene l’ordine controllasse una considerevole parte di territorio la loro influenza non era abbastanza estesa da coprire anche quella zona.
    La morte di cui puzzava quel posto non poteva essere stata causata solo da vampiri o semplici uomini armati . Le lame erano state sfoderate ma la superficie era azzurrina ed immacolata, se non per la terra trasportata da venti ghiacciati.
    C’era una considerevole macchia di sangue che sporcava il suolo, da un punto singolo si espandeva in maniera circolare lasciando però pulito il centro del perimetro segnato, come se qualcuno avesse ingoiato uno dei dispositivi delle Alchimiste e gli fosse saltato lo stomaco. Uno scenario simile avrebbe dovuto lasciare tracce come frammenti di carne bruciata, forse mancante perché ridotta a cenere dal sole diurno in caso di una vittima vampiresca.
    Fra i bagagli non vi era nessun oggetto capace di causare una simile deflagrazione, solo provviste per il viaggio.

    A pochi passi cadaveri di puledri ancora bardati, legati ad una carrozza semi-distrutta. I segni sul collo lasciavano presagire che quelle morti fossero causate proprio da vampiri affamati.
    Il cranio di uno dei due cavalli sembrava essere stato sfondato da un mazza , arma con cui alcuni dumahim erano soliti ornare le proprie braccia. Le cervella del ronzino erano saltate di fuori, centinaia di formiche correvano fra l’interno e l’esterno della testa staccando piccoli frammenti di materia celebrare.

    La natura dell’assalto mi era chiara, ciò che non comprendevo era quale genere di vampiro lasciasse
    sangue fresco a marcire sotto il nero tocco della putrefazione. La forte mancanza di flora rendeva quelle salme ben visibili.

    La morte del verde permetteva di scandagliare con più chiarezza le zone all’estremo est, dove la montagna torreggiava irremovibile. Unico rifugio per vampiri o qualsiasi altra cosa gemesse nell’ombra.

    CAPITOLO III

    Apro gli occhi, è buio, umido. Sento le ossa scricchiolare, il torace mi pesa e gli arti sono percossi da un formicolio. Mi alzo.
    Qualcosa di un gelo appena percepibile mi tartassa la mano destra. Una lama, conficcata nel palmo.
    La rimuovo, non provo dolore.
    Pochi secondi, i miei occhi si adattano alla pesante oscurità che attanaglia questo luogo.
    Le pareti sono rocciose e dissimili, una grotta. Vedo un oggetto luccicare nell’ombra, come un faro posto a chiamarmi.
    Mi avvicino, ne sfioro la superficie, congelata. Avanzo con la mano, la mente stimolata dal tatto suggerisce legno, un’asta. Una lama d’acciaio posta a testa di un giavellotto in legname. Che sia una lancia o un’alabarda?
    L’afferro, la uso per tastare il terreno avanzando finché non vedo una flebile luce. Continuo, il bagliore lattescente diviene più intenso, intravedo l’uscita.
    Difronte a me le salme di una vegetazione forse un tempo rigogliosa, ma che ora mostra solo l’ombra, un pallido ricordo di ciò che era.
    Sento lo scorrere di un fiume, non sono assetato ma mi ci avvicino ugualmente. L’acqua, il suo colore è strano. Verdastro, qualcuno sembra avervi vomitato carne marcia dentro.
    Istintivamente poggio la mano destra per lavarla, rabbrividisco. La mia mano... È come se la pelle mi fosse stata strappata via. Il palmo è sfondato, intravedo l’osso.
    Il riflesso del mio viso è indistinto in queste acque. Indosso, un.. Elmo?
    Sento delle grida rompere il silenzio, corro, sempre più forte verso la fonte.
    Anche se il suo pelo si confonde con la notte non fatico a distinguere i suoi occhi scarlatti animati da furia assassina, un uomo-lupo, un licantropo. Scorgo qualcosa fra le sue zanne, stretto come un tesoro prezioso, un braccio.
    Vedo altro, qualcuno, non un mostro ma una persona. Terrorizzato dalla furia di quell’animale, sta accucciato ai piedi di un piccolo tronco.
    Impugno l’arma e carico la schiena della bestia, improvviso ed inaspettato, non mi vede arrivare. Come quasi fosse un’estensione del mio corpo, sento la lama penetrare la sua carne. Il lupo grida, si volta. Intravedo le tonalità di rosso che esplodono nei suoi occhi. Sta lanciando un’artigliata, punta al mio petto.
    Estraggo la lama e mi abbasso, goffo, troppo. Tento un secondo affondo, ma lui balza oltre sbilanciandomi.
    Mi ritrovo a terra, quel mostro è a pochi passi da me. Abbastanza da minacciarmi, ma non sufficienti a staccarmi la testa ficcandosela fra le mascelle.
    Guardo la mia alabarda, abbastanza vicina per essere raccolta ed impugnata, ma posso sopravvivere abbastanza da usarla?
    Vedo le sue pupille ruotare verso l’arma, ruggisce, ha intuito le mie intenzioni.
    Lentamente, mi metto sulle ginocchia. Scatto, lui mi è addosso.
    I suoi denti sono vicini alla mia testa, tengo il suo muso bloccato con le mani. La sua forza mascellare è immensa, riesco a trattenerlo appena.
    Calcio il suo stomaco ma incassa il colpo, continuo senza sosta.
    Improvvisamente urla, porta le braccia alla schiena. Ho un’occasione. Sguscio via dalla sua morsa, raccolgo l’arma e gli e la conficco in una zampa. Ora vedo con chiarezza la ragione del suo malessere, un dardo conficcato nella schiena, scoccato dal medesimo uomo che prima era inerme ai suoi piedi.
    Se n’è accorto. Rimuovo la punta dell’alabarda da quella zampa pelosa per tentare una seconda offensiva, la elude ponendo la sua attenzione a quell’uomo, sta ancora ricaricando.
    Lancio un fendente laterale, spero di colpirlo. Schizza del sangue, è un taglio esile, non mi considera.
    Lo afferra, capisco le sue intenzioni, vuole staccargli la testa dal corpo con un morso, un unico morso.
    Forse un aiuto divino, quella è una seconda balestra? E’ carica, devo essere veloce.
    Il colpo sfreccia, e... Si! L’ho preso proprio sulla nuca.
    Il corpo sussulta lentamente e poi... Cade.
    Mi avvicino all’uomo, lo vedo sorridere. Non so perché, ma ora sembra che una maschera di terrore si stia dipingendo sul suo viso. Mi volto pensando ad un’altra creatura, ma non c’è niente.
    Lo vedo fuggire, la sua sagoma si fa prima più nitida ed infine scompare nella notte.
    Sono stato forse scortese per farlo fuggire in quel modo ?

    Immerso in una pozza di sangue c’è il cadavere di un uomo dal braccio reciso. Dalle vesti sembra un cacciatore di vampiri, la balestra che ora stringo doveva essere la sua.
    Due cacciatori, forse di pattuglia o di ritorno. Magari eccellenze nel loro campo, tuttavia incapaci di confrontarsi contro un licantropo.
    Portava con se dardi e delle torce, investigando fra i suoi indumenti trovo delle pietre focaie. I corpi dei vampiri dopo essere stati impalati vanno bruciati, per prevenire un loro ritorno alla vita.
    Sarebbe un peccato sprecare l’eredità di quest’uomo.

    CAPITOLO IV

    Un’aria all’apparenza nociva correva per la rete di gallerie, era il primo segnale a suscitare il mio interesse da quando avevo varcato l’entrata. Assieme a quella puzza nauseante che diveniva sempre più intensa, rinvenni alcune insolite macchie verdi che costellavano la roccia tutt’intorno. Un liquido vischioso dal colore marcio, quasi simile a sangue. Evitai di sfiorare quella poltiglia, proseguendo oltre.
    Non avevo incrociato alcun tipo di resistenza, se non intricati corridoi zeppi di ratti e pipistrelli. La mietitrice alimentata dal potere elementale del fuoco, forniva una valida illuminazione nell’oscurità sempre più opprimente. Dov’erano i vampiri? Mi sarei aspettato un tripudio di zanne, artigli e crani da sfracellare sulla pietra.
    Un gemito, appena udibile, forse un orecchio meno acuto non l’avrebbe percepito. Stava risuonando con leggerezza fra le pareti. Dai singhiozzi sempre più frequenti intuii di stare avvicinandomi, magari a qualche figlia della notte che si fingeva dama sperduta per attirare e sgozzare i malcapitati.
    La grotta si snodò nell’ennesimo cunicolo, era spaventosamente ampio, circa tre metri in altezza ed un diametro che non avrei potuto calcolare con certezza. Scorsi che quell’antro era illuminato da una fiacca luce rossastra. Entrai.
    Un suono metallico percosse la pietra, ne fui allarmato inizialmente, ma ciò che vidi rasserenò il mio animo. Uomini e donne, imprigionati alle pareti con catene formate da robusti anelli di ferro conficcati nella pietra. Lasciati lì, forse per giorni o persino settimane, la fame aveva iniziato a trangugiare le loro carni. La pelle lercia mostrava con chiarezza i lineamenti delle ossa, più cadaveri che viventi, gli mancavano le forze anche per piangere il fato riservatogli, dall’epilogo assai triste. Erano più di una decina, alcuni non sembravano reggere lo sforzo, se non erano morti si trascinavo in uno stato misto fra la vita e il sonno, frastornati dalla mancanza di forze.

    Proseguendo, sussultai. Estinsi le fiamme che avvampavano sulla lama, ritraendola poi nel mio braccio, perché non mandasse bagliori allarmanti.
    Disteso sul pavimento c’era una creatura dai tratti mostruosi. Il viso deforme, sulla pelle verdognola correvano file di aculei biancastri che rimandavano il colore rossastro da cui la stanza era rischiarita.
    Riconobbi quella creatura, era un demone della medesima stirpe che oltre due millenni fa venne invocata da Azimuth per piegare la città di Avernus. Credevo che orrori simili fossero stati raschiati da Nosgoth con l’ascesa di Kain,lasciando le ultime rimanenze a marcire sul piano dimensionale che le aveva generate.
    Qualcuno aveva forse cercato di emulare le capacità di quella strega? Se era lì per volontà di un evocatore avrei trovato delle rune di sangue tracciate sul pavimento.

    La pancia si gonfiava di aria che poi veniva svuotata dalle grosse narici, dormiva. Sgozzarlo nel sonno, una comodità non spesso concessami con avversario di quel calibro. Non conoscevo gli esatti limiti della sua forza, e sebbene sarei stato tentato di sperimentarli questioni più urgenti necessitavano della mia attenzione.
    Avanzando, una seconda visione atroce fermò la mia mano, mi nascosti dietro una roccia abbastanza spessa da celare la mia presenza ai suoi occhi.
    Un’altra creatura, massiccia quanto la prima stava seduta in un angolo masticando qualcosa fra le smisurate zanne e sudice zanne. Lo rigettò, scaraventandolo oltre, era un teschio. Dalla forma dei denti intuii si trattasse di un vampiro, i residui di carne ed i gravi segni visibili lasciavano un’unica spiegazione. Erano i ruderi del pranzo.
    Quello addormentato, forse per il rumore, si stava destando. L’enorme corpo si mise su entrambi i piedi, le mani artigliate tastavano il terreno prima che quegli occhi diabolici si spalancassero, rimasi nascosto.
    Vidi la sua ombra avanzare, raggiungendo uno dei prigionieri. Pensavo volesse mangiargli le interiora e proseguire fino a divorare l’intero corpo, le sue intenzioni tuttavia si rivelarono ben più oscene.
    Alzando la sguardo vidi qualcosa di rivoltante anche per gli anni di vicissitudine che mi portavo dietro. L’oppressa era una donna, di bell’aspetto nonostante fosse sciupata dalla sua permanenza in quel luogo. Quel figlio di un diavolo si era calato le braghe e la stava pompando come si fa con le cortigiane dei bassi borghi, consumate fino all’ultima moneta pagata.

    L’altro non prestava attenzione, dagli occhi della donna scendevano lacrime, ma non dava cenno di abbandono. Non doveva essere la prima volta che subiva quel trattamento, oppure aveva già capito cosa l’attendeva il quella grotta ed aveva cercato di temprare la propria mente a sopravvivere.
    Gli arrivai alle spalle e conficcai la mietitrice nel suo collo. Non riuscì ad urlare al mondo il suo dolore, solo singhiozzare, la laringe doveva essere stata colpita.
    Involontariamente dalla bocca rigurgitò un liquido verde e maleodorante, si abbatté come una cascata sul viso della donna prima sfigurandola fra urla di dolore fino a pochi attimi fa represse, ed infine uccidendola, sciogliendole le cervella. Che morte triviale.

    Il secondo mi fu addosso, estrassi la lama dal collo del demone appena in tempo per scansare il suo attacco e ribattere, il colpo andò a vuoto.
    Quello con la gola tagliata premeva con l’artiglio sul collo, cercando di tenere la testa attaccata al corpo, pioveva liquido acido ovunque passava, intuii si trattasse di una qualche arma naturale di quelle creature.
    Mi fu subito addosso vomitandone una pozza intera che per poco non mi ridusse ad uno scheletro. Conoscevo i pericoli dell’affrontare demoni di quella levatura, alcuni esistevano sia sul piano materiale che quello spirituale, avrei dovuto prestare maggiore attenzione.
    Negli stretti cunicoli di quell’antro sarei stato sopraffatto, l’unica soluzione che mi si palesava era una fuga strategica oppure... L’esplosione incendiaria.
    Avrei forse abbattuto i miei avversari, sacrificando però la vita dei prigionieri presenti.
    Durante il tragitto, quando avevo abbattuto i dumahim la spada si era inavvertitamente sfamata con lo spirito di uno dei vampiri. Ciò abbassava il novero necessario.
    Indietreggiando conficcai la lama nell’addome di un prigioniero, e la mietitrice subito consumò la sua vita. Il demone mi fu addosso, mi spostai di fianco facendo roteare la spada verso il suo braccio sinistro. Lo squarcio che si aprì era profondo, ma quell’ammasso di carne e furore non sembrava trasalire.
    Il primo diavolo stava pensando di caricarmi, teneva ancora il palmo stretto sulla gola. Lo anticipai, tirando un fendente verticale che andò a colpire proprio il suo inguine, tranciandolo a metà.
    Sapevo che l’altro bastardo dalle zanne ancora macchiate di carne vampiresca stava per farmi zampillare addosso il suo acido.
    Istintivamente richiamai la lama, e scagliai dal palmo una saetta verso di lui, ma non lo fermai. Un rigetto di liquido verde prese il mio braccio sinistro e parte dell’addome. Bruciava come carbone ardente posato direttamente sulla mia pelle.
    Mosso da un impeto caricai una folgore di forza devastante che appena si abbatte sul suo viso cinto da corna, lo costrinse a retrocedere portando le mani alla testa. L’occasione perfetta.
    Evocando nuovamente la lama tirai un colpo dall’alto verso il basso al capo del demone che mi stava alle spalle, ancora preso a contemplare la sciagura del suo inguine mozzato.
    Non fu sufficiente a spappolargli il cranio, ma con un secondo colpo, tirato con una forza pressoché maggiore tagliai a metà la sua testa, lasciando che fiumi di sangue verdastro scorressero per la grotta.

    Saziata da quello spirito, diressi la mietitrice all’ultimo demone rimasto in piedi, conficcando la lama pregna di fiamme nel suo torace. Inizialmente non sembrò accusare il colpo, ma poi quando liberai il potere elementale delle fiamme un inferno rovente carbonizzò le sue carni.

    Calciai via quella creatura, il suo corpo annerito dall’effetto ustionante delle fiamme cadde alzando polvere e cenere. Era ancora integro così come le carcasse dei suoi prigionieri, le loro sofferenze erano terminate, almeno in parte...
    Alcuni, incatenati ad una decina metri, ancora si aggrappavano alla vita. Erano scampati alla mietitrice, pensai di poterli graziare. Non ero certo però di voler intraprendere questa decisione.
    Il pericolo di cui ero stato allertato era di natura spirituale, quei demoni invece fatti di carne e ossa, non potevano essere la causa del malessere ultraterreno che affliggeva quella zona.
    Mi abbandonai al richiamo del mondo spettrale, sprofondando fra le sue colorazioni pallide e lucenti.

    CAPITOLO V

    Sono passate già molte notti da quando mi sono ridestato, cerco di prendere sonno ma non vi riesco. Non patisco la fame, la sete, capisco di essere diventato qualcosa che appartiene ai peggiori incubi degli uomini, ma la mia morale non vacilla.
    Quelli che porto sui miei indumenti sono gli stendardi del sacro ordine Sarafan, anche con un corpo macchiato da un’influenza simile all’immonda feccia che ho promesso di sradicare il mio scopo persiste.
    Se sarà necessario anche nella morte ed oltre proteggerò gli innocenti della mia amata terra. Quest’arma che porto con me è vecchia, ha subito le usure del tempo, ma ciò non la rende meno letale contro i mostri che abitano queste pianure di morte.

    Qualche luna fa, durante un giro di pattuglia udii delle grida, ed allora corsi per giungere in soccorso, ma uno spettacolo surreale mi si parò dinanzi agli occhi.
    Una donna, forse una strega massacrò i vampiri artefici di quella disgrazia. Dalle mani scagliava magie che non avevo mai visto, forse nemmeno i maghi del sacro ordine possedevano tali capacità.
    L’avevo vista scagliare un proiettile vermiglio contro il vampiro, le sue carni stavano contorcendosi in preda a degli spasmi fatali finché non è esploso in una pioggia di carne morta, ridotto a poltiglia impossibile da riconoscere. All’altro invece, aveva strappato il cuore dal petto con le sole mani.
    Mi allarmai quando la vidi raccogliere un pargolo da terra, ero pronto a scattare per difendere quell’anima da poco venuta al mondo. Lei però non gli torse un capello, lo strinse come una madre benevola.
    Che fosse come me? Un’anima umana intrappolata da una maledizione?
    Non alzai alcun dito contro di lei, lasciando che cullasse il pargolo, quietando le sue urla.

    Il ricordo dell’esecuzione più recente tuttavia risale a qualche ora prima dell’alba.
    Le zone che spesso pattuglio sono teatro di piccoli scontri fra licantropi e vampiri appartenenti all’effige di Dumah, determinati a non spartire con i loro avversari le poche persone che abitano quest’antro di Nosgoth, pesantemente barricate nelle loro abitazioni.
    Li ho osservati da lontano, i loro raccolti sembrano essere stati distrutti da un cataclisma di qualche genere, di notte sono spesso vittima dei Dumahim, i quali sembrano spingersi da est. Se il loro numero era esiguo all’inizio, ora andava moltiplicandosi, poiché spesso quei macellai lasciavano le povere genti a terra, satolli sotto la morsa della morte, per gettarsi nelle loro mischie. La stessa cosa valeva per gli uomini-lupo.
    Non so quanti fossero all’inizio, ma quel ciclo ripetendosi innumerevoli volte come per i vampiri, aveva rinforzato le schiere dei lupi.
    I pochi uomini rimasti, sebbene siano un gruppo considerevole, si sono barricati capendo di non potersi confrontare con quelle mostruosità , anche io faticavo ad abbatterle.

    Un altro individuo però sembra avere fatto la sua comparsa, bardato solo di un mantello, da come agisce potrebbe essere l’incarnazione della morte stessa.
    I dumahim lo avevano adescato su uno dei sentieri che conduceva al fianco della montagna per poi slegarsi verso Meridian. Per un attimo ho temuto che quel viaggiatore malcapitato, forse ignaro di ciò che sta accadendo qui, avrebbe potuto perdere la vita. Ciò che vidi in seguito da uomo avrebbe potuto gelarmi il sangue nelle vene.
    Brandiva una lama di luce azzurra, con cui mutilava con maestria ed eleganza ogni vampiro che avesse l’ardore di affrontarlo. Se la loro testa non volava via li lasciava lì, privati dei propri arti, inermi difronte al sole che sarebbe sorto in poco tempo.
    I suoi occhi brillavano di una luce ultraterrena, che si diversificava dalla malvagità di cui erano iniettate le pupille dei mostri di cui prendeva la vita.
    Lo seguii da lontano, accucciato fra tronchi caduti. Lo vidi dirigersi alla montagna, scomparendo nelle gallerie in cui non osavo avanzare.

    Che anche quella creatura non fosse diversa da me o dalla donna che avevo intravisto poche sere prima?
    Il solo pensare a lei suscita in me memorie confuse. Vedo una donna dagli splendidi capelli mori simili a quercia decorata da foglie rossastre in una giornata d’autunno. E poi grida, ancora, più forte... E scompare in una nebbia rossa.
    Sento qualcosa, come un sentimento d’affetto. Vorrei averla vicino, stringerla a me, la vedo nei miei pensieri e mi pare quasi di poterla toccare. Mi accorgo che non è qui, provo un immenso vuoto interiore.

    Proseguo, non c’è tempo per rimpiangere un passato dimenticato, devo aiutare chi ha bisogno di me. La luce del sole è alta, tuttavia alcuni sopravvissuti a queste notti di terrore potrebbero necessitare di un mio ausilio per arrivare al giorno successivo.

    CAPITOLO VI

    Riuscii a fuggire da quella congerie di gallerie labirintiche, trovando la via per l’esterno nella parte alta della montagna.
    Il sole non picchiava sulla terra, delle nubi nere come cenere ancora l’oscuravano, favorendo i figli
    della notte. Era tempo di ottenere le risposte che cercavo attraverso metodi più rudi.
    La pietra era gelida, mi trovavo ad oltre un centinaio di metri d’altezza. Un passo sbagliato e mi sarei spaccato il cranio sulla parete della montagna.
    Nel mondo spettrale non mi sarei dovuto curare di simili pericoli, i portali per tornare al piano materiale tuttavia scarseggiavano nonostante la zona ampia. I trafori da cui ero appena uscito con i loro tratti omogenei confondevano chi si avventurava in quei cunicoli.
    Un’alternativa veloce era lanciarsi nel vuoto, non avevo da temere il suolo più di quanto inquietasse i corvi mangiatori di carcasse.

    La facciata destra della montagna, oscurata da un enorme macigno sembrava celare qualche segreto. Sebbene lo spazio era esile, decisi di tentare l’attraversata. Piegai la schiena contro la roccia, le punte dei piedi erano appena oltre la sporgenza. Pochi piccoli passi, prima di riuscire a scrutare il lato nascosto della parete. Sembrava quasi essere stato levigato per il mio passaggio, magari soggetto a qualche precipitazione in passato. La roccia in quel punto non era robusta come sul resto della montagna, proseguiva per metri verso il terreno.
    Impugnando la lama fantasma mi lanciai verso di essa, conficcando la spada nella parete per proseguire scivolando verso il suolo. Alle mie spalle una fitta nube di polvere e piccole pietre lasciava un momentaneo e fugace segno del mio passaggio.

    Incamminandomi ebbi modo di avvedere il manto di devastazione che si era levato nei giorni precedenti. Abitazioni ridotte a tumuli, cumuli di legno e pietra. Raccolti devastati, le ultime rimanenze ingoiate da laide cornacchie mai satolle.
    Scavando senza neanche troppa meticolosità rinvenivo ossa spezzate e frammenti di carne già mezzi mangiati dagli insetti, al mio allontanarmi venivano becchettati da quei neri rapaci che incupivano il paesaggio morente.
    Le capanne di chi lavorava il ferro e l’acciaio erano state copiosamente svuotate. Alcuni decisero di barricarsi, troppo incerti sulla loro sopravvivenza per lasciare la propria casa, altri dovevano aver tentato la fuga . M’interrogai su quanti superstiti fossero riusciti, se i vampiri avevano preso l’abitudine di aggredire i passanti sui vari sentieri allora in pochi o forse nessuno.

    Lo sguardo venne attirato da una sagoma che risaltava anche nel grigiore di quel panorama, tanto era nero il pelo che lo caratterizzava. Stava sdraiato sulle quattro zampe cinte da zoccoli, con le corna rivolte verso di me. Un caprone, dal pelo scuro come la pece.
    Avvicinandomi notai come sostava vicino ad una baracca ancora integra, ma ciò che trovai all’interno mi sorprese ancora di più.
    Un pargolo, avvolto in delle lenzuola logore e sporche, i piccoli occhi sigillati dal sonno e la testa rannicchiata su un cuscino di paglia.
    Nessuno che vegliasse su di lui, eppure l’oscurità incombeva anche nelle ore pomeridiane, che i suoi genitori fossero morti?
    Non ebbi modo di muore un altro passo, che subito quella cosa maledetta cercò di strapparmi la testa. Da quale schifosa pozza d’oscurità forse emersa lo sapeva solo il diavolo, i capelli ondeggiavano in aria in modo innaturale, coprendole parzialmente il viso.
    Appena lo scoprì, raggelai. La bocca si spalancava in modo disumano, la pelle allungata risaltava lineamenti deperiti. Gli occhi erano vuoti ed il viso deformato.
    Le braccia scarnificate scendevano fino a terra, come se le ossa all’interno fossero state spezzate.
    Si frappose fra me ed il neonato con artigli cupi artigli che si confondevano nelle tenebre circostanti.

    Un semplice spettro adirato, voleva forse far minacciare qualcuno del mio rango?
    Allungai il braccio, facendogli esplodere in viso un proiettili di forza cinetica. L’onda d’urto la travolse, nuocendo anche all’ambiente circostante. Il suo prezioso pargolo sarebbe volato via se ella non si premurata di proteggerlo, cingendolo al suo petto.

    Non gradivo sollazzarmi infliggendo sofferenza a quella donna già sventurata di suo, avrei posto fine a quella patetica disputa, infliggendole il penoso colpo di grazia. Nella speranza che la sua anima avrebbe trovato conforto nella prossima vita.

    Una saetta di energia verdastra irruppe, fermando la mia mano. Proprio quella strega maledetta l’aveva lanciata, danneggiando il petto e la spalla destra.
    Qualcosa di agghiacciante stava avvenendo, il mio corpo sembrava decomporsi. Larve e vermi scavavano nelle mie stessa carne, divorandola fino a farla marcire.
    La vidi poi impugnare un globo, di un rosso intenso che brillava furiosamente, capii che era mortale.
    Spalancai il braccio, caricando un sfera telecinetica, lei si fermò. Sapeva che la collisione con il mio proiettili di energia avrebbe fatto esplodere il suo globo prima di raggiungermi, coinvolgendo probabilmente anche se stessa ed piccolo a cui tanto teneva.

    “Perché combattete?”
    Si frappose nello scontro, voleva finire ammazzato?
    Inizialmente nell’osservare le sue vestigia pensai ad un paladino Sarafan dalle idee troppo altruistiche, magari che aveva frainteso ciò che stava avvenendo. Ma poi, alzando lo sguardo, capii che quella cosa come per l’essere che mi stava difronte non apparteneva più al mondo dei vivi.
    Era un non-morto, un redivivo di basso rango. Un cadavere rianimato che dovrebbe camminare senza meta finché non gli venga imposta, eppure parlava e ragionava, differenziandosi dai redivivi dementi che avevo affrontato in passato.

    Brandiva un’alabarda e sembrava capace di utilizzarla, ma abbassò istintivamente l’arma appena quel fantasma di donna gli si avvicinò. Sembrava quasi lo conoscesse.
    Gli mise una mano sul petto mentre continuava a stringere il neonato, il suo spirito sembrava essersi placato.
    Un sospiro di vento, un solo ululato di brezza che sembrò trasportarla via. Non c’era più, ne lei o il pargolo.
    Rimaneva però il non-morto, favorito dalla sorte con il dono della parola. Magari avrebbe potuto dare una spiegazione a ciò che stava accadendo.

    CAPITOLO VII

    Era sparita, mi aveva lasciato con solo una carezza ed era scomparsa del nulla. Ma quel gesto nella sua semplicità è sufficiente, ora ricordo. Nella mia mente si strati di memorie perdute tornano a galla, so cos’è accaduto, ma non c’è tempo. Ora c’è altro di cui curarsi.
    La creatura è qui, con un braccio mezzo-distrutto, ma viva. Stava combattendo colei che avevo visto abbattere quei vampiri per la salvezza di un neonato innocente. Perché? Entrambi sembravano provare rancore per i vampiri, tuttavia perché combattersi invece di coalizzarsi?
    Devo scoprire se si tratta di una disputa sensata o di semplice aggressività verso il prossimo.
    “Qual’è la motivazione della vostro... Litigio?” Gli domando, cercando di superare l’inquietudine che quella creatura mi causa.
    “La tua spasimante credeva volessi nuocere a quell’infante che tiene con se. Vada al diavolo, considerato che grazie a te non l’ho potuta mandare con le mie stesse mani.”
    Sono sorpreso, ha risposto senza cercare di prendere la mia vita o intonare minacce.
    “Lei è molto affezionata a quel piccolo, pur di nutrirlo ha rubato quella capra da latte, costringendo i proprietari originali alla fuga. Stavano per essere sbranati dai Dumahim, ma avevano me a vegliare su di loro. Così come ho vegliato su tutti coloro che hanno deciso di lasciare questo luogo, finché ho potuto.
    Al tuo arrivo avrai notato di certo l’abbondanza di vampiri, ne hai sterminati parecchi, sebbene le loro fila siano ancora colme.”
    “Quei bastardi possono anche prolificare come ratti, finché sono cani sciolti capaci solo di sbraitare e mordere, privi di motivazioni, non rappresentano una minaccia.”
    E’ sicuro delle sue capacità. C’è risolutezza nei suoi occhi, nonostante sia malridotto è conscio di cosa dovrà affrontare qui e come combatterlo. Non è uno di quei buffoni che s’incontrano nel campo d’addestramento, forse dovrei cercare di portarlo dalla mia parte. Potrebbe rappresentare un valido aiuto.
    “ Sei qui per porre fine alla piaga in questa zona?” Chiedo
    “ No, quello di tagliare la gola a qualche vampiro è solamente una conseguenza secondaria. I miei scopi sono più astrusi da perseguire.”
    Risponde, facendo nascere nuove domande nella mia mente.
    “Presumo tu non voglia condividere tali informazioni”
    “Potrei decidere di farlo, ricevendo in cambio qualcosa che magari possa agevolarmi le fatiche.”
    Ho ben capito cosa chiede, vuole una guida.
    “Parla dunque, cosa desideri sapere?”
    “Le persone non si alzano dalla tomba senza una causa, solitamente una stregoneria di qualche tipo...”
    Capivo cosa intendeva.
    “Pare che io invece ne sia capace, mi sono destato dalle profondità di una grotta lontano da qui. Non c’era nessuno ad accogliermi, sapevo solo di dovere perseguire lo scopo che avevo avuto in vita. La protezione dell’umanità attraverso la fine ultima di ogni vampiro o altra creatura del demonio avessi incontrato.”
    “Allora perché non stai cercando di conficcarmi quell’alabarda in gola?”
    “ Appena ti ho visto uccidere quei dumahim sul sentiero di andata, ho creduto fossi come me. Un nobile guerriero intrappolato in un... Cadavere.
    Come anche quella donna, lei pure ha mostrato fini altruistici salvando il pargolo che tiene con se dai vampiri...
    Io credo di conoscerla , non ne sono sicuro... Questo luogo è folle, non fossi certo di essere a Nosgoth crederei sia un girone dell’inferno. I vampiri non sono gli unici mostri che si celano fra queste radure, uomini-lupo e creature anche peggiori le abitano...”
    Sto parlando troppo, devo riprendere in mano il discorso. Non gli permetterò di andarsene senza lasciare nulla dopo aver ricevuto così tanto.
    “Ora tocca a te, parlami delle motivazioni che ti spingono.”
    Aguzzo l’orecchio, aspettando. Lui prende parola.
    “Come ti ho detto gli spettri non risorgono senza un motivo, c’è una incongruenza in questa zona. Un disguido fra il mondo dei vivi e quello dei morti, devo carpirne la causa. Per farlo ho bisogno di un campione, un oggetto che abbia subito queste influenze spirituali.
    Potrei anche invitare te a venire a seguirmi, ma presumo non accetteresti di lasciare i tuoi protetti. Inoltre, non credo saresti il tuo corpo da redivivo reggerebbe come cavia. La corazza ti ha ben protetto finora, oltre non potrebbe”

    Non capisco se quella nelle sue parole sia ironia o semplice crudeltà, la sua voce è così cupa, rauca...
    Ma magari aiutandolo potrei...
    “A nord di qui, vicino ad una grande quercia che continua a resistere alle intemperie con fermezza, c’è un passaggio dove non oso mai avventurarmi. Porta nel sottosuolo, in una zona collegata alla montagna tramite una rete di gallerie.
    Lì potresti trovare ciò che cerchi, ti accompagnerò se lo vorrai”
    “E’ come faccio a sapere che non mi sai tenendo un agguato?”
    “Con quella spalla malridotta se avessi voluto prendere la tua vita, avrei tentato da molto. Sei libero di non fidarti, ne hai tutti i motivi. Ma non c’è nequizia nelle mie azioni.”
    “Non è della mia salute fisica che mi preoccupo. Vedi, quando si contratta con l’oltretomba bisogna curarsi di altro, qualcosa di molto più prezioso.”
    Sono confuso dalle sue affermazioni, cosa c’è di più prezioso della vita?
    “Non sono uno stregone” Gli rispondo, forse intuendo il motivo dei suoi dubbi.
    “Vedo”
    Rimaniamo in silenzio, come se non ci sia più nulla di dire. Si volta, guardando il punto che gli avevo indicato.
    “Ti concederò fede, paladino. Attendi il mio ritorno, poi mi mostrerai questo luogo.”
    Il suo corpo diviene trasparente, quasi non fosse più integro ed infine scompare, come uno spettro.

    Mentre aspetto non posso fare meno di pensare a quella donna, io l’ho già vista, la conosco.
    Che sia... Potrebbe, ma lei è fuggita. Io gli ho permesso di scappare, che le sia accaduto qualcosa ?

    CAPITOLO VIII

    Nonostante fosse un mucchio di ossa e carne quel sarafan si muoveva rapidamente, coprimmo la distanza che ci separava dal tumulo in breve. Come detto da lui una enorme quercia corrosa segnava il punto d’arrivo. Conosceva con accuratezza il terreno dove camminava, quasi come se vi avesse vissuto per decenni.
    Un cumulo di massi disposti in maniera ordinata formava una sorta di porta d’ingresso che indirizzava ad alcuni gradini che sprofondavano nel terreno.
    Un che di minaccioso balenò nell’oscurità, la prontezza del Sarafan mi sorprese. Mentre io attendevo il manifestarsi del pericolo lui si tuffò caricando con l’alabarda, percepii un grido strozzato provenire a pochi passi da noi, aveva colpito qualcosa.
    Le zanne erano ricolme di sangue e la pelliccia sporca di polvere e terra sembrava emanare un tanfo ripugnante. Un licantropo, pendeva dalla sua arma infilzato dalla bocca, la lama spuntava fuori dall’altro lato del suo capo.
    Pochi secondi e quel corpo ormai deceduto venne soggetto ad una mutazione. Le enormi zampe e gli artigli irsuti si ritrassero, prendendo uno stampo più umano. Il muso da prima allungo cominciò a rimpicciolirsi, fino a prendere una forma tondeggiante. Con la morte era venuta la rottura della maledizione.
    “Magari stava masticando un pezzo di carne in solitudine, è comune che si isolino dal proprio branco, rimanendo nascosti in cunicoli e strettoie per non condividere il rancio.”
    La sua non era semplice avventatezza, sapeva cosa lo attendeva.
    “Prima di raggiungere il luogo di cui ti ho parlato potresti incontrarne altri, assieme a nuovi pericoli che io stesso ho preferito ignorare poiché non conoscevo la natura di simile creature e come fronteggiarle. Le ho viste solo di sfuggita, non sono andato oltre.
    Tu sembri essere più familiare a questo genere di mostruosità ultraterrene, non credo ti serva una balia.. ”

    Lo lasciai all’ingresso, proseguendo nel sotterraneo con la lama di fuoco in pugno. Il primo varco che oltrepassai alla fine della scalinata, era largo, magari pensato per creature ben più imponenti. Nell’oscurità calpestai qualcosa che nel cozzare contro una pietra emanò un suono metallico, avvicinando la fiamma della spada i suoi contorni mi furono rivelati, una vecchia torcia.
    Il legno dell’impugnatura era quasi marcito del tutto, forse però rimaneva ancora del liquido. Avvicinai la lama, nacque una piccola fiamma che prese ad accendersi fino a raggiare ed illuminare intensamente i contorni della grotta.
    Strinsi la torcia nella mano sinistra mentre avanzavo, spostandomi verso uno stretto corridoio che man mano si faceva più largo per poi tornare a stringersi. Notai che alcuni massi erano disposti in forma irregolare, tipica di frane sotterranee. Dovevano essere caduti dal tetto di pietra per intasare in quel modo il passaggio.
    Vidi una luce azzurrina provenire dal fondo, ero vicino.
    Mi ritrovai dal diametro non percettibile nel buio, nonostante quei piccoli fuochi fatui illuminassero la superficie. Vagavano nella stanza come creature viventi, mosse da chissà quali istinti.
    Sul fondo della camera intravedevo un altro varco, questa volta con alcune incisioni che brillavano sotto le fiamme azzurre. M’incamminai.
    Passai vicino ad una delle creature, la quale sembrò allarmarsi, mi colpii. Avvertii un leggere bruciore ed istintivamente scagliai un fendente, trafiggendola. La fiamma di cui era composta divenne rossastra e poi si estinse , lasciando nulla come monito del passaggio di quella creatura.
    Altre fiamme cominciarono a scagliarsi contro di me, cadendo sotto i laceranti fendenti spirituali della mia arma.
    Il bagliore di quella grotta si fece meno intenso, finché non sparì del tutto, assieme ai suoi abitanti.

    Solo nel momento della mia vittoria, libero dal fervore della battaglia capii a quale genia appartenevano quei fuochi fatui, una razza che alcuni avrebbero ritenuta estinta da Nosgoth.
    Piccole creature di basso rango, nessun reprobo pericolo di chissà quale gravità, persino una spada di ferro sarebbe bastata.
    Proseguii verso l’ultimo varco.

    Una luce abbaglianti mi accecò, sapevo che quel colore verdastro non aveva nulla di naturale. In pochi secondi gli occhi si adattarono alla forte luminosità, ciò che trovai mi sorprese.
    Non un oggetto o un vivente che spiegasse gli spettri risorti o i demoni che intaccavano la valle un tempo rigorosa, ma qualcosa di oscuro, proveniente da un passato quasi scomparso.
    Era una forgia dei fabbri spirituali, esseri che barattavano sangue con oggetti capaci di piegare anche i più prodi fra gli uomini,
    La pavimentazione metallica rifletteva il colore verdastro dominante in quel luogo, oltre, vi era una enorme statua di un demone cornuto dalle quattro braccia che torreggiava nella stanza. I suoi occhi si accesero ed una voce agghiacciante rimbombò.
    “Condividi il tuo sangue con me e questi artefatti saranno tuoi, immagina quale potere potresti trarne.”
    Sapevo a cosa si riferiva, incise sulle lastre di metallo di erano segni che rivelavano quali oggetti trattava quel demone. Mi avvicinai, ed egli parlò nuovamente.
    “ Sei dunque giunto alla forgia spirituale... Condividerò dei segreti in cambio del sangue di morto che desidero”
    “Tieni per te i tuoi incantesimi, altro mi spinge nel tuo santuario.”
    Gli risposi, permettendogli poi di replicare.
    “Cosa dunque?”
    “Al di là della tua gogna coloro che dovrebbero essere carne per vermi tornano a calpestare di nuovo il suolo di questo mondo, senza che nessuno li abbia mandati a chiamare.”
    “Capisco. Se di ciò mi accusi, non sono il responsabile di questi eventi, ne ignoro la causa dal momento in cui si sono verificati. Comprendo solo che forze non appartenenti a questo piano di esistenza si stanno muovendo sulla scacchiera, sebbene non sia estraneo a simili energie.
    Molti degli esseri che di sicuro avrai visto giungendo qui vi hanno sempre abitato. Nascosti nell’ombra per preservare la propria vita, altri, si sono svegliati da un lungo sonno.
    I loro un tempo imprigionati nella pietra da stregonerie dimenticate si sono ridestati, per camminare nuovamente sulla terra di Nosgoth.
    Questo è ciò che so al riguardo.”
    “Stregoneria... Un male che avvelena questo mondo anche da troppo tempo. Dimmi... A sud, a parecchie leghe da qui vi è un consorzio di villaggi che in passato è stato vittima di sortilegi che richiamavano demoni fatti tenebra e ombra, creature appartenenti al piano spirituale.
    Il sacerdote che ne faceva uso, purtroppo non risiede più in questo mondo. Un fantomatico apprendista potrebbe avere eredito i suoi di segreti per colpire anche questa zona...”
    Sentii un suono quasi simili ad un mugolio, stavo provocando la sua pazienza.
    “Lo avrei saputo, i miei occhi non si limitano a queste fessure di pietra e roccia...
    Sei qui solo per intrattenermi con la tua dialettica, vampiro del limbo?”
    Per un attimo così breve da sembrare impercettibile rimasi intontito, quel demonio proveniente da chissà quale girone dell’inferno aveva compreso la mia natura.
    E’ vero che bisogna prestare attenzione a trattare con i fabbri spirituali, tuttavia...
    “Reclamo un oggetto, che abbia subito, anche se parzialmente l’influsso trascendentale predominante in queste terre.”
    Gli occhi della statua presero a brillare ancora più intensamente, avevo suscitato il suo interesse.
    “Non posseggo nulla del genere. Tamen, posso concederti qualcosa di ancora più portentoso.
    Un oggetto si, ma carico delle energie che guidano le anime dal limbo, spezzando la prigione di pietra che aveva ghermito i loro corpi. La medesima forza che impedisce ai defunti di riposare.
    Può essere tuo, ma ci sarà un prezzo... Io tratto sangue di morto, ma quello di uno spettro come te si dissolve nell’etere appena versato, non ha valore. Tamen, potrei fare un’eccezione e trattare altro, un favore...”
    Spesso ho dovuto scendere a patti con creature come quella, non sarebbe stato nulla di diverso dall’ordinario. Se solo, lui non avesse preteso una misura inaspettata.
    “I vampiri risucchiano il fluido vitale dalle proprie vittime finché queste non ne muoiono, e se sopravvivono allora sono i licantropi a farli a pezzi per ingrassarsi con le loro carni.
    Ma mostri più pericolosi tiranneggiano su entrambi...
    Grandi mutamenti sono avvenuti in questo mondo da quando, per salvare l’amato e garantire un futuro al proprio pargolo, una donna versò il suo sangue sul mio altare perché i miei doni le fossero d’ausilio.
    Per troppo tempo il mio santuario ha patito la sete, riporta l’ordine in queste terre. Commetti un genocidio se necessario, fallo ed io ti garantirò l’oggetto promesso.

    Non hai motivo di dubitare su questo accordo, la donna di cui ti ho parlato... Anche se sembrata fino all’osso dalle mia catene per pagare il tributo, nella morte le è stato concesso ciò che aveva chiesto.
    Poiché spesso è proprio nella morte che coloro abbastanza pavidi da trattare con me trovano i loro doni.
    Sangue di morto è quello che gli chiedo... Non ci sono doppi fini o inganni nelle mie parole, solo stolti troppo codardi per ammettere la propria avventatezza.”

    Mi fermai a riflettere, la donna di cui parlava... Avevo intuito chi fosse. La natura di quelle stregonerie da lei esercitate finalmente trovava una spiegazione, così come la causa di quei massacri da me visti sul sentiero a qualche lega dai margini della montagna.

    “Per quanto sia un accordo agevolante da certi punti di vista, non sono il tuo facchino. Perdere forse intere giornate a correre in giro per sgozzare fino all’ultimo degli animali che infestano il tuo sciupato cortile non mi si addice.”

    Un silenzio tombale conquistò la stanza, in passato avrei quasi pensato che il demone avesse lasciato la stanza, ma avevo una consapevolezza. Quell’essere aveva fiutato l’occasione di placare la sete patita dal suo santuario, non l’avrebbe ignorata.
    Riprese parola, con la medesima voce gutturale. Le pareti rimbombano travolte dalle sue parole.
    “Non farlo dunque, massacra le schieri di entrambi, poi porgi lo sguardo ai demoni seduti sulla sommità della montagna.
    Io posso far si che scendano a valle, poi spetterà a te prendere la testa del tiranno rosso che governa sugli altri.
    Dovresti essere capace di farlo, la lama legata al tuo braccio destro anche se in una forma grezza è capace di sfondare il cranio a molti.”

    “Abbiamo un accordo dunque... Tamen, c’è un ultima domanda a cui devi rispondere. Perché definisci la mia mietitrice una lama dalla forma grezza?”

    “Perché è quella la sua essenza attuale.
    Ho sentito storie su di voi, spettri posti a difesa dell’equilibrio, armati di lame fantasma volte ad emulare la leggendaria mietitrice d’anime brandita dal vostro progenitore, Raziel. Primo fra tutti voi.
    Non comprendo però perché ogni lama sia all’apparenza uguale all’altra, perché nessuno di voi abbia mai provato a renderla qualcosa di più di ciò che è.
    Forse per un qualche antico limite che vi è stato imposto? Io sono un costruttore, come tale rifiuto che m’impongano delle limitazioni e guarda quali meraviglie riesco a forgiare. Oggetti che possono smembrare, mutilare, avvelenare il corpo fino alla decomposizione assoluta.
    Vedo del potenziale in quella spada attaccata al tuo braccio, la domanda che ora mi attanaglia la mente è, riuscirai a sfruttarlo o prediligerai essere una pallida imitazione di una leggenda scomparsa?”

    CAPITOLO IX

    Non dovrei essere qui, ma la mia curiosità era troppo forte per ignorare quest’occasione. Forse sarebbe stato meglio rimanere fuori, lontano da queste verità che mi sono appena venute all’orecchio.
    Sbatto a terra, seduto, le mani contro l’elmo.
    Possibile, è tutta colpa mia? Avrei dovuto proteggere il prossimo non macchiarmi di una simile colpa.
    Sento come se il mondo mi stesse per crollare addosso, una strana sensazione m’invade... Non riesco a togliermi dalla testa queste immagini che vi sono formate, continuano a perseguitarmi anche se cerco d’ignorarle. Vorrei piangere, gridare al mondo questa tristezza, ma non scende una sola lacrime dai miei occhi.
    E’ come se un serpente diabolico si stesse dimenando nelle mie viscere, strappandomi la carne dall’interno.


    Vedo la sua ombra avanzare, è tornato da quel luogo immondo dove la mia amata aveva trovato la sua condanna.
    “Hai origliato segreti di tuo interesse?” Non dovrei rispondere a questa domanda, non ne ho bisogno...
    “Vorrei non avere udito nulla, ma sfortunatamente ho carpito proprio la parte di cui sarebbe stato meglio rimanessi all’oscuro...
    La donna, permettimi di porre fine alla sua miseria. Non sono pratico di fantasmi, ma troverò un modo...”
    Tace, forse pensieroso. Noto che stringe qualcosa nel braccio, è avvolto nelle bende sembra quasi...
    “ Se vuoi dare sollievo alla sua anima ti servirà...”
    Sono sconvolto, quello che mi dona...Quello che stringo fra le braccia sono i resti di un bambino... che sia? No...
    “Accettato il patto è stata smembrata sull’altare per reclamare i doni del fabbro spirituale, era con lei quando è accaduto. Senza nessuno ad occuparsene, senza nessuno a placare il suo pianto è morto, non so se di fame o di sete...
    Hai fino alla prossima notte, dopodiché questa terra piomberà nel caos più assoluto.”
    E’ tutta colpa mia, sento il peso del peccato stringermi la pancia.
    Volevo pensare che mio figlio e la mia amata fossero in salvo per darmi sollievo, invece sono morti entrambi ed io sono il solo responsabile.
    “Sappi che uno spettro di quella risma può essere scacciato non solo con esorcismi ed incantamenti, ma anche con una semplice arma di ferro. Stampa queste parole a fuoco nella tua mente.”
    Non riesco a sopportare quel pensiero, lei a cui ho dato tanto, ho cui avrei voluto non accadesse mai nulla di male, ridotta in pezzi.
    Sta andando via, lasciandomi solo con le mie colpe.
    “Aspetta!” Ritrovo un barlume di forza.
    “Posso almeno sapere il tuo nome? Ora ho uno scopo preciso, che spero possa lavare la mia coscienza ed il mio onore. In parte, a te va del merito...
    Vorrei sapere il tuo nome, almeno se non dovessi farcela entro la fine del mio viaggio ricorderò chi mi ha aiutato durante il cammino”
    Attende un attimo, poi si pronuncia.
    “Abdiel...è il mio nome.
    E’ stato a lungo perduto, quasi dimenticato. Sostituito con solo una vaga reminiscenza, ma è ritornato, magari nella tua bocca troverà nuovo lustro.”


    Mi torna alla mente quella notte, era buio e pioveva. Siamo stati attaccati, non da vampiri, ma da uomini, se potessi li chiamerei in altro modo. Così depravati da risultare peggiori dei mostri da me affrontati finora.
    I miei compagni di viaggio sgozzati, la mia amata che fugge nella notte con il nostro piccolo fra le braccia.
    Penso, penso a mille altri modi in cui sarebbe potuta andare, ma è tutto inutile. Non posso cambiare il passato, posso solo imparare.
    La mia debolezza ha condannato lei, voglio sperare che nostro figlio abbia trovato conforto almeno oltre il velo della morte. Ma lei... Devo salvarla.

    Giro per ore e ore, vagando nella nebbia. Non riesco a trovarla.
    Dove un tempo nascondeva il piccolo da lei adottato non c’era più nessuno, l’avrà portato in un luogo più sicuro.
    Setaccio ogni zona, ogni campo, ogni abitazione in cui mi è possibile arrivare... Niente. All’improvviso mi sento stanco, vorrei riposarmi ma non posso, tuttavia ne sono costretto.
    Entrambi i gruppi di predatori che abitano la valle fanno grandi spostamenti, che abbiano intuito cosa accadrà domani notte?
    Posso solo rimanere nascosto ad interrogarmi, mentre la notte passa e giunge la luce del sole.

    E’ pomeriggio ormai, ho passato al setaccio quasi tutta la valle.
    Devo pensare... magari, il fiume? Lei amava restare seduta ad ammirare lo scorrere imperterrito dell’acqua.

    Arrivo, ma l’oscurità è già calata. Devo sbrigarmi.
    E... L’ho trovata? E’ lei, sta cullando quel bambino che tiene stretto a se. Si accorge che sono qui, mi avvicino. Non sento il cuore battere, eppure svariate emozioni brillano nel mio animo come costellazioni nel cielo notturno.
    “... Mi... Mi dispiace, se solo fossi stato più attento magari...” M’interrompe con un semplice gesto, la sua mano vicino a me, mi sfila l’elmo.
    La sento sul mio viso, il palmo è freddo, ma percepisco anche tutto l’affetto di quel gesto. So a cosa sta pensando, vuole che rimanga con lei. Vuole che cresca il bambino come il figlio da noi perduto, ma io... Non posso.
    “No...” Allontano la sua mano, lei ne è rincuorata. Dunque, le porgo il bambino, nostro figlio.
    Il suo bel viso si riempie di tristezza, l’ha riconosciuto.
    “Lo sai... Non possiamo, noi non apparteniamo più a questo mondo, nostro figlio ha trovato la pace. Dobbiamo anche noi... Il bambino, deve crescere fra i vivi non fra gli spettri.”
    Sento la furia crescere in lei, si allontana e stringe il pargolo. Mi avvicino, la stringo nuovamente come un tempo, un’ultima volta.
    Vorrei fosse andata diversamente, vorrei potesse andare diversamente. Purtroppo so quanto questo desiderio sia futile ora.
    Anche nella morte il suo viso è così... Non posso smettere di amarla, neanche ora. Il suo sorriso di un tempo mi tormenta, e mi tormenterà ancora ed ancora.
    Estraggo la lama di ferro e la pugnalo, ma non smetto di stringerla, di amarla. Il suo corpo sbiadisce, sempre di più, continuo a spingere il coltello. Scompare del tutto, è finita.

    Alzo lo sguardo al cielo, vedo una cometa innalzarsi ed una pioggia luminosa riversarsi sulla terra. Ruggiti e stridii echeggiano, portando al mio orecchio la sofferenza patita da quelle creature.
    Abdiel, stava compiendo il suo operato.
    Non so cosa mi avesse spinto a fidarmi, ad aiutarlo, almeno finora. L’ho capito.
    Avevo dei dubbi quando ho origliato il suo dialogo col demone, pensavo di avere aiutato un diavolo dell’inferno. Invece, colui a cui avevo dato ausilio anche se con il viso di un demonio, era un angelo vendicatore, caduto dai cieli per portare un’onta di redenzione in questa terra.

    Il piccolo comincia ad agitarsi, più che plausibile. Lo cullo, non mi è mai capitato di farlo, neppure con mio figlio. Sarà meglio non mi ci affezioni troppo, devo trovargli una casa degno di lui.
    Chissà se sarà indottrinato oppure per semplice maturità di pensiero, in età adulta odierà le creature simili a me ad Abdiel... Simili alla mia amata che lo ha salvato, una storia che lui non saprà mai.
    Mi rincuora, ma bisogna farlo. Lo lascerò ad una buona famiglia, che possa dargli una vita dignitosa.

    CAPITOLO X

    La notte era giunta, il patto stretto era chiaro, avrei dovuto bagnare quelle lande col il sangue di licantropi e vampiri fino a smorzarne le schiere. Quando anche i demoni risorti dalla pietra sarebbero venuti ad affrontarmi, li avrei annientati uno per uno.
    I preparativi erano giunti al termine, da un lato i pipistrelli ruggivano dall’altro i lupi ululavano, rimaneva solo la carneficina da compiere.
    Dall’altura di una roccia li vedevo lanciarsi gli uni contro gli altri, forti dell’odio reciproco. Non vi era l’intero branco di ogni fazione, ma solo una minuta parte, spinta dalla fame o dalla sete. Doveva bastare.
    La furia attenebrava le loro menti nel mentre si sgozzavano e decapitavano senza fine, a grandi masse si riversavano sulla terra morta. Li vedevo, grandi macchie grigie o nere, si muovevano come spire sulla pelle di un serpente.

    Irruppi, gli artigli furenti carichi di saette. Conficcai l’intera mano nel cranio di un dumahim impegnato ad affrontare un licantropo, avendo la peggio. Diressi poi il mio sguardo al mannaro, tirandogli un calcio al petto che lo fece barcollare prima di trafiggergli il viso.
    Le scariche gli avevano portato via la vista ed il fiuto, mi allontanai, conscio di quanto fosse inerme e fragile in quel momento.
    Proseguii strappando teste, recidendo arti e polverizzando ossa.

    Nel fulcro delle battaglia sapevo di non essere più parte di una schermaglia fra creature affamate, dalle loro fosse si erano erti gli esemplari peggiori delle rispettive razze, forse provocati dalla mia presenza. Grossi uomini-lupo dalle braccia enormi e le zampe lunghe ed irsute, e vampiri rivestiti da una spessa corazza d’acciaio.Pazienza, non erano abbastanza per schiacciarmi.
    Uno ad uno cadevano, le loro budella avrebbero fatto ingrassare bene i corvi stanchi dei resti spolpati fino all’osso da quei cani.

    Ci fu un attimo in cui mi furono addosso, in quel momento, evocai l’antico glifo della pietra. Il terremoto li sorprese, barcollarono e furono pietrificati. Sebbene da sotto quello strato di roccia la carne e l’acciaio fossero ancora integri.
    Colpii i punti vitali di ognuno. Al risveglio, nel momento della rottura dell’incantesimo, erano già morti. In tutta la vallata le battaglie continuavano, si scannavano per i pochi superstiti in quella terra arida.

    Sentii un formicolio percorrere la schiena, i lampi stavano fluendo nella forma che avevo comandato loro. La terra mi mancò sotto in piedi, ed improvviso come il tuono che urla nel cuore della tempesta così io mi elevai fino al cielo, sostenuto dalle mie prodigiose ali tonanti.
    I miei indumenti erano stati lacerati da quella potenza, rimaneva solo il cappuccio a coprirmi il volto. Frammenti di mantello piovevano al suolo.
    Da dove ero, finalmente vidi i demoni della montagna, non diversi da quelli che avevo ammazzato l’altro giorno. Erano sgusciati fuori dalla tana per razionare la carne dei caduti?

    Dal cielo lanciai una serie di saette, le mie prime tre folgori presero la vita di alcuni licantropi e vampiri, i quali tentavano la fuga troppo sfiancati dalla furia della battaglia per proseguire oltre.
    Un altro paio, s’infranse sulla pelle di un demonio dal colorito porpureo.
    Mi lanciai in picchiata, erano un gruppo esiguo ma pericoloso, tuttavia sapevo di poterli fronteggiare grazie al mio nuovo talento.
    Toccai la gelida pietra col piede, in un secondo la gargantuesca ombra di un demonio minacciò di schiacciarmi. In quel frangente, la mietitrice si sciolse dal mio braccio, trafiggendolo al petto mentre era ancora alle mie spalle.
    Roteai rapidamente su me stesso, staccandogli la testa nel mentre la mia rinnovata arma risplendeva livida e cerulea sotto al chiarore della luna.
    Non vi era più una sola lama, bensì ve n’erano due. Una per ogni lato, sia davanti che dietro l’impugnatura. Entrambe s’incurvavano leggermente all’estremità, rimandando alla forma di una mezzaluna come una doppia falce creata per mietere le mie vittime.
    La mietitrice era stata riforgiata dall’agonia ribollente nel mio cuore, rafforzata nel limbo dopo centinaia di anime strappate e trangugiate.
    Non emulava più l’arma di una leggenda caduta, era divenuta un qualcosa di nuovo, più letale e più famelica.

    La feci roteare nella mia mano, abbattendo un demonio dalla pelle verme. La sua testa rotolò ai pendici dell’altura e cadde dal precipizio.
    Ne rimaneva uno dalla pelle porpora ed un altro rosso, immenso come un bastione e dalle quattro braccia.
    Entrambi scagliarono incantesimi, una palla di fuoco ed una saetta, rigurgitata direttamente dalle zanne.
    Le ali mi permisero di guizzare verso l’alto ed evitarle, sebbene sentivo le ossa sempre più deboli.
    Un fendente della doppia-lama irruppe nella guardia dello spara-saette, trafiggendogli le costole. Controbatté all’istante lacerandomi il petto.
    L’altro, il rosso, balzò e cercò di schiacciarmi con un pugno potente come un maglio. Appena toccò il suolo la pietra sotto di esso s’incrinò, mi guardò, avevo evitato di finire col cranio spaccato per merito delle ali.
    Dall’alto mi lanciai contro il gigante rosso, incurvandomi però a pochi metri da lui, sorprendendo il demone viola. La lama si conficcò in profondità nella sua pancia, lo tranciai in due con un solo movimento circolare. Divorai la sua anima rapido come se dovessi fuggire dal demonio, ed in parte era così.
    Due pugni, entrambi dalle sue braccia destre stavano per proiettarmi al suolo. Abbassandomi evitai quello alto, ma il basso ancora incombeva. Arrestai la sua carica con la mietitrice, conficcata nel palmo della mano.
    Sbattei le ali di fulmine proprio sul suo volto, stordendolo per pochi secondi. Un altro battito di ali e mi ritrovai proiettato verso il cielo.
    Come una cometa mi scagliai verso la sua testa, cercò d’indietreggiare e tirò una scarica di sfere infuocate, magari ignaro di come difendersi. M’incurvai verso sinistra evitandole, poi, roteando su me stesso gli portai via ben due mani con un unico travolgente squarcio.
    L’estremità posteriore della lama gli bloccò un piede, caricai poi il viso con quella anteriore trafiggendogli mento, cranio e cervella. La lama spuntò dall’altro lato del capo.

    Straordinario come poche di quelle creature avessero soggiogato quella zona, scacciando i vampiri dalla propria tana. Magari scavando a fondo ne avrei potuto trovare altre, imprigionate nella pietra e riportate a questo mondo? Una domanda che solo nel domani poteva trovare risposta.

    Sentivo la presa delle ali sul mio corpo allentarsi, si stavano indebolendo, presto sarebbero svanite se non avessi deciso di rinvigorirne la forza.
    Rimaneva tuttavia energia per un ultimo viaggio. Come promesso ai piedi dell’altare, alla forgia spirituale, trovai l’oggetto da me desiderato.
    Aveva la forma di un ampolla, brillava di una luce verdastra, caratteristica del mondo spirituale.
    Conteneva lo squilibrio che aveva richiamato le anime dal limbo fino al mondo dei vivi. Tamen non spettava a me indagare su di esso.
    L’afferrai, assicurandola alla cintura.

    Edited by Tiziel l'Eterno - 30/12/2019, 21:40
     
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    CITAZIONE (Rekius @ 21/3/2020, 18:48) 
    Missione per Abdiel!

    VECCHIE CICATRICI



    Abdiel, questo era il suo nuovo nome.
    Soleva appartarsi all'ombra dei Pilastri in quel periodo ricco di tumulti, osservandoli e cercando ristoro da quel compulsivo scavare nel suo passato.
    Il signore della Cattedrale dell'Anima latitava ormai da tempo, persino egli lo aveva notato, che preferiva rimanere defilato rispetto ai raggruppamenti degli altri Mietitori.
    Non poté non domandarsi che fine avesse fatto, poiché da giorni e giorni rimuginava su un vecchio fatto incompiuto durante una missione da egli stesso assegnatagli.
    Avrebbe voluto chiedergli consiglio o meglio, il riluttante nullaosta per poter ottemperare a quel compito da tempo lasciato in sospeso.
    Ma non poteva.
    Oh, beh...meglio così. Non era nella sua natura chiedere il permesso o attendere l'ordine come un cane da guardia.
    Con un'ultima occhiata alle infinite colonne ormai consunte ed annerite si voltò e si diresse nel luogo ancora segnato sulla mappa che stringeva di nuovo, dopo tanto tempo, tra le mani artigliate.

    LDR 3.0



    PROLOGO

    Lundas rimaneva chinato sulla schiena, il gomito poggiato sulla consumata scrivania in legno di ciliegio, assorto da pensieri e preoccupazioni.
    “Lord Lundas” Irruppe Arindan, rompendo il silenzio.
    “Sa che io le sarò sempre fedele... Ma...”
    “Ma...” Intervenne lui “ Lo so, quei miscredenti si stanno spazientendo, tuttavia non sono da biasimare. Gli avevo promesso una vittoria, ed invece non abbiamo riportato alla luce nessuna delle chiavi.”
    “Che siano andate distrutte?”
    “Impossibile.” Lanciò un’occhiata di rimprovero al giovane “Gli amuleti dei sei generali sono legati direttamente alla vita del demone Hybris, l’entità che abbiamo provato a richiamare dalla sua prigionia anni fa... Quel bastardo di Salazar deve averli nascosti bene, probabilmente dove solo lui li avrebbe potuti riscoprire se mai gli fossero serviti per creare nuovi sigilli, o nella più folle delle ipotesi, spezzare quelli con cui ha imprigionato la sua stessa creatura.”
    “Mi sono sempre domandato perché, perché che creare un mostro come quello solo per imprigionarlo?” Domandò il giovane stregone.
    Lundas scosse la testa “Insubordinazione, si aspettava che come un lacchè rispondesse ai suoi ordini.
    Salazar era un folle, voleva usare un demone per arginare i conflitti, un’entità di quella potenza non poteva che sfuggire dalle sue mani”
    “Sa Lord Lundas, certe volte lei ne parla come se lo conoscesse, sebbene sia impossibile. Quell’uomo dovrebbe essere sepolto da qualche secolo ormai.”
    “Mio giovane apprendista, io conosco Salazar, l’ho conosciuto attraverso le storie che mi sono state tramante, lo conosco attraverso la sue azioni, rispetto e stimo la sua figura. Sarà anche stato un pazzo, ma era un pazzo di quelli brillanti... “
    Ci fu una breve pausa prima che Arindan riprese parola.
    “Tornando a noi, abbiamo ricevuto il rapporto dell’ispezione ad est del lago. Non abbiamo trovato nessuna traccia dei sigilli.”
    “Ovviamente” Lundas riprese in mano il discorso “ Per quanto mi rincuora ammetterlo questi sforzi per rintracciare le chiavi a Nosgoth potrebbero risultare tutti vani. Salazar era un paranoico, e le avrà tenute strette a se, anche nella morte.
    L’unico luogo in cui può avere scelto di farsi seppellire è il suo stesso castello... Perduto nelle montagne del Nord, schermato da chissà quale incantesimo. Se solo avessi la mappa per localizzarne la posizione esatta potremmo trovarlo. Avremmo le chiavi, potremmo liberare il demone e salvaguardare Nosgoth dal pericolo imminente.”
    “Tuttavia, il forziere e la mappa ci sono state sottratte, da quello spettro... Almeno secondo quello strambo uomo mezzo matto. Che sia lo stesso introdottosi qui nelle miniere qualche anno fa?”
    “E’ possibile, tuttavia una informazione irrilevante. Conoscere la sua identità non ci aiuterà a ritrovarlo. Questi spettri dei pilastri sono particolarmente lesti, ma se si trattasse di lui potrebbe ripresentarsi qui, nel nostro ritrovo. Fortunatamente finché ho con me la Lancia di Gough l’uccisore di spettri non ho da temere creature del limbo. Quell’arma l’ha già messo in ginocchio una volta, lo farà nuovamente e con lui tutti gli altri. Appena Hybris sarà liberato, abbiamo bisogno di lui per sgominare le entità più potenti”
    “Sta parlando degli Hylden?”
    “Si, ho visto oltre il velo di questo mondo e ciò su cui i miei occhi si sono posati non è roseo, con la recente corruzione dei pilastri i nostri problemi non si ridurranno solo a vampiri e Sarafan poco collaborativi. Hybris tuttavia, una decina di anni fa mi offrì un accordo, e si sa un contratto stipulato con un demone è sempre preciso alla lettera. Devo solo liberarlo e lui distruggerà per noi i nostri nemici, poi potrà andarsene al diavolo assieme agli altri. Lui regnerà sui mondi esterni, io terrò per me Nosgoth, stavolta unificata da un sovrano giusto, non un stramaledetto tiranno con manie di grandezza”
    Rimase un attimo immobile, osservando la luce della candela sempre più flebile.
    “Arindan, i recenti avvenimenti non ci lasciano molto tempo, dobbiamo trovare il castello di Salazar. Se le chiavi non saranno al suo interno, allora vi ritroveremo almeno le informazioni per rintracciarle.
    L’unica strada da percorrere e trovare il mietitore che ci ha sottratto la mappa, se non l’ha usata per cercare il castello allora era interessato solo a sottrarcela per prevenire una nostra azione in merito, o per la sua incapacità di carpirne i segreti”
    Un bagliore sinistro sembrava essersi accesso negli occhi logorati dalla vecchiaia di Lundas.
    “La tua brillante osservazione mi ha dato un’idea, in altre circostante non avrei considerato una supposizione che poteva rivelarsi errata, sprecando preziose risorse. Tuttavia siamo in guerra ed il tempo è come una maledetta serpe che ci stritola fra le sue spire.
    Manda qui il nostro migliore segugio, non m’importa se ha altre mansioni, può reputarle cancellate.
    Sarà rimasta di sicuro una traccia persa nell’etere, un fievole richiamo di quel fantasma maledetto da me affrontato. Dobbiamo trovarlo, se lui ha la mappa gli e la prenderemo. Dovessi aprirgli la pancia e strappargli le interiora direttamente nella sua casa di demoni e mostri”

    CAPITOLO I

    Il paesaggio biancastro si faceva sempre più cosparso di roccia, tirai le redini, il ronzino rallentò gradualmente. Gli zoccoli ancora inchiostrati di sangue affogavano completamente nella neve, macchiandola di un rosso sbiadito, quell’alpestre cavallo dimostrava carattere...
    La mia linfa vitale si sarebbe prosciugata per la permanenza nel regno materiale, per caso qualche sfortunato bandito mi aveva scambiato per un viaggiatore incauto. Aveva provato ad accoltellare il ronzino assieme al suo compagno di sventura, ritrovandosi col cranio spaccato dal duro zoccolo inchiodato di ferro. L’altro... Non sono certo che avesse realizzato di avere perso la testa.
    Con me sul ronzino portavo un carico particolare, oltre alla mappa, piccoli esplosivi simili a quelli usati dalla guardia di ferro. Non ne avrei fatto ausilio di quegli strumenti in caso di scontro, erano al sicuro in una sacca a cui era aggrappata anche una piccozza, necessari per frantumare il ghiaccio più spesso se ce ne fosse stato bisogno.
    I miei poteri superano la deflagrazione di cui erano capaci quegli utensili, sarebbero serviti a risparmiare energie preziose.

    Le passate settimane di lavoro non mi avevo permesso di abbrancare il segreto celato in quella stramaledetta mappa, le ispezioni nella zona designate erano state vane.
    Avevo ipotizzato che qualche cataclisma avesse smosso la terra, seppellendo il luogo che cercavo.
    Scavando nella storia di Nosgoth, fra vecchie favole e superstizioni, capii che avrei dovuto introdurmi nelle porte metalliche di un forte secolare. Ma quale tempesta poteva avere seppellito un interno bastione? Poi capii, e fu proprio la corruzione dei pilastri a darmi l’idea.

    I pilastri erano artefatti intrisi di stregoneria in sinapsi non solo con i portatori ma con Nosgoth stessa.
    Il loro annerimento era il risultato di una reazione agli ultimi eventi, una risposta dei pilastri al mondo.
    Pensai che se la mappa fosse stata un artefatto mistico, creato per rispondere ad un determinato e particolare stimolo intrinseco nella sua natura, come fa un cane che insegue istintivamente un pezzo di carne, avrei avuto una risposta.
    La mia intuizione si rivelò corretta, sebbene a ricevere tale risposta non fui io direttamente, ma il maliardo da me incaricato, persuaso da un lauto compenso.
    A contatto con una determinata essenza la mappa rivelava sull’angolo destro del papiro coordinate precise di latitudine e longitudine. Al fianco di questi dettagli un simbolo, non sapevo se posto come marchio distintivo o indizio di un arcano ancora più intricato.

    Prendere la mappa e chiuderla in un forziere da gettare poi sul fondo di un lago... Il viaggio mi diede modo di pormi interrogativi sul perché di tutte quelle sicure, era semplice paranoia da parte di un uomo che si era spinto troppo oltre nell’arte dell’occulto oppure quel forte custodiva segreti tali da dovere rimanere sepolti assieme a colui che li aveva generati...
    Inizialmente pensai all’antico Bastione di Malek, il quale ancora sopravviveva alle intemperie che picchiavano alle sue porte di ferro e acciaio. Scartata quella scelta restavano poche alternative, prima della mia “illuminazione”.

    Oltre alle coordinate curiosi marchi, forse lettere di una lingua dimenticata erano apparsi. Quattro moniti ad avvertirmi che quella ricerca stava per divenire più intricata di quanto non lo fosse già.

    Mi ero messo in viaggio dopo aver accuratamente pianificato dove sarei giunto.
    Il primo intrigo era capire dove fosse il meridiano fondamentale a cui facevano riferimento quelle coordinate. Senza di adesso, quelle cifre erano uno spreco d’inchiostro. Secoli erano trascorsi, e fra i documenti di secoli fa ho dovuto scavare per la mia risposta.
    Osservando le varie mappe della zona interessata, più precise rispetto a quella ritrovata sul fondo del lago la quale segnava solo il territorio su una cartina dove era rappresentata l’intera Nosgoth, capii verso quale antro di quella sconfinata catena montuosa sarei dovuto partire.

    Negli archivi, intoppai in qualcosa di curioso ed inatteso. Una rappresentazione accurata di una parete della montagna, più artistica che cartografica. L’autore non aveva lasciato firma, se non un simbolo orridamente familiare, un occhio a mezzaluna spalancato avvolto in una fiamma crescente, il medesimo apparsa sulla mappa.
    Risaltava nella rappresentazione una sorta di altare dalla forma ottagonale, simboli indistinguibili esaltati da un rosso acceso sparpagliati sulla sua superficie.

    Prima di partire verificai i dati geografici sulla mappa, un solo grado di errore e mi sarei ritrovato a chilometri lontano dal mio obiettivo. Sembravano corrispondere a quelli della zona inizialmente indicata.
    Per consolidare la mia ricerca avevo portato con me uno strumento simile all’astrolabio di cui facevano uso alcuni navigatori per trovare la latitudine quando le città sparivano alle loro spalle, sopraffate dall’orizzonte e neppure le stelle brillavano in cielo. Somigliante... Ma estremamente più preciso, quasi infallibile. Per la longitudine avrei dovuto affidarmi al sole e alla mia capacità d’intravedere l’ora semplicemente ponendovi uno sguardo. La scarsità di nubi nel cielo avrebbe favorito la ricerca.

    CAPITOLO II

    Il sole era sorto da una mezzora, l’area che avrei dovuto coprire misurava un centinaio di chilometri. Il ronzino, abituato alla fatica ma anche testardo avrebbe potuto sfiancarsi più del necessario. Vampiri nomadi si nascondevano nei fianchi della montagna, spolpando ossa di cadaveri vecchi di mesi.
    Sotto la luce del sole il cavallo sarebbe stato protetto, tuttavia lasciarlo da solo rimaneva un atto d’incoscienza. Legato a un macigno che spuntava dalla terra, coperto dalla neve sempre meno frequente, gli diedi modo di abbeverarsi. Lo lasciai poi ad una sacca di mangime, incamminandomi verso le strettoie.

    Le perturbazioni potevano avere mutato il paesaggio, ma niente, se non una massiccia scossa originata dalla viscere della terra corrotta era capace di falcidiare la fiancata di una montagna.
    Non avevo sprecato tempo nella ricerca di eventuali catastrofi che avessero attraversato quell’anta di Nosgoth, per quanto desuete e pericolanti le rovine intagliate nella salda roccia resistevano per millenni.
    Frammenti di massi sparpagliati al suolo erano ciò che attendevo, ma nulla, solo un monotematico paesaggio che andava a mutare in piccoli ed indistinguibili dettagli. Qualcosa sfigurò in quella visione.
    Una colonna, bianca con piccole macchie scure sparpagliate sulla superficie alta circa mezzo metro.
    Avvicinandomi capii di stare calpestando un qualche tipo di costruzione artificiale, scorticando la neve accumulato sul quel minuto pilastro, i suoi lineamenti vennero rivelati.
    Fatto di pietra scura, la forma era ottagonale, strani simboli quasi fatti dello stesso stampo di quelli apparsi sulla mappa alle sue estremità.
    Otto simboli sulla colonna, quattro sulla mappa, una parola d’ordine?
    Tastai l’antico perno, i simboli sembravano potere sprofondare nella pietra come una lastra a pressione. Riguardai la mappa, fino a quel momento assicurata alla mia cinta. I quattro simboli segnati sul papiro coincidevano con quelli sulla lastra. Schiacciando le minuscole tegole a pressione nel medesimo ordine in cui erano rappresentate avvertii il suono di un meccanismo.
    Il manto di neve sembrò scostarsi rivelando al di sotto una lastra circolare che andava ruotando in senso antiorario, la quale a sua volta rivelò un cunicolo nascosto al di sotto del selciato di ghiaia.
    Non era particolarmente buio, intravedevo chiaramente gradini di gelida pietra riversarsi verso il basso. Entrai.

    La galleria sottostante era stracolma di ghiaccio lucido, rifletteva i raggi solari all’interno del traforo, illuminando la strada. Stavo percorrendo una sorta di scala a chiocciola, avanzando l’oscurità aumentava. Ad un certo punto la luce riflessa del sole, divenuta ormai fievole, lasciò il passo ad una quasi oltremondana, verdastra. Riuscii a sbirciare verso la fonte di quel chiarore.
    Due piedistalli rivolti uno contro l’altro, separati solo da un’arcata in pietra scura,un’antica effige posta al centro dell’arco e del basamento. Lo riconobbi, uno degli antichi portali di Nosgoth, capace di trascendere lo spazio e trasportare chiunque a grandi distanze, a patto che ci fosse un altro varco ad accogliermi.
    Salii sul piedistallo, l’effige circolare sull’arco in risposta prese a lampeggiare, davanti a me in pochi attimi si materializzo un altro luogo, differente da quella sorta di grotta artificiale.
    Un passo, un solo passo verso quello scenario. Non ebbi l’impressione di essere catapultato in un altro luogo, eppure il mondo intorno a me mutò come se fossi appena riemerso dalle tenebre del limbo.
    La stanza in cui mi trovavano non era dissimile dall’altra, tuttavia del vento gelido arriva dall’esterno.
    Il corridoio che mi accingevo a percorrere si snodava direttamente verso l’esterno, riuscivo ad intravedere la fievole luce solare all’estremità, oltre la galleria.
    Nel mentre percorrevo il breve tragitto, mi arresti su un punto, chinandomi verso il solido strato di brina che incrostava le pareti. Mi era parso di vedere... Una mano? No, un artiglio, sepolto nel ghiaccio e preservato alla perfezione. Non ero conscio in quel momento se la creatura a cui apparteneva fosse sepolta con l’arto, pensai ad una battaglia consumatasi in quelle guglie, susseguita da chissà quale tempesta di neve.

    Proseguii, la fine del corridoio, quasi sussultai. Oltre il passaggio svettava una rocca di dimensioni forse equivalenti a quelle dei bastioni più antichi di Nosgoth, era erta con prepotenza oltre una vallata di neve che le faceva da cortile, protetta su tutti i fianchi da est ad ovest. Un’intera catena montuosa cingeva il perimetro attorno al castello, chiudendolo in una impenetrabile difesa.
    Un forte a cui era quasi impossibile accedere, occultato dalle montagne che torreggiavano anche oltre la sua torre più alta, solo ai pendici dell’avvallamento poteva essere visto. Una macchia nera su un foglio bianco.

    CAPITOLO III

    Il nervosismo mi assaliva come una maledetta pulce fa col pelo di un cane, dopo tanto tempo sarebbe finito tutto? Tempo... Il suo scorrere ormai mi lasciava quasi indifferente, seppur conscio del fatto che fossero passati anni non ne sentivo il peso sulla pelle.
    Molti erano venuti da allora, molti erano scomparsi fra le nebbie del fato lasciando solo poche impronte a testimoniare il loro passaggio. Da allora un solo obbiettivo, un solo monito.
    Ancora nella mia mente l’eco delle urla, il dolore sia sulla carne che nell’animo. Una cicatrice impressa da una lancia accanitasi su di me nel tentativo di strapparmi per sempre a questo mondo.

    Mentre mi avvicinavo al castello le orme che mi lasciavo alle spalle venivano spazzate via dal gelido soffio del vento, i lineamenti del bastione si schiarivano. Superai quella che mi sembrò una scultura di ghiaccio, un uomo estremamente alto, smilzo dalle braccia ossute. Teneva nel pugno destro una falce capace di superarmi in altezza.
    Mi fermai, rumore, proprio alle mie spalle. La statua di ghiaccio.
    Scorsi frammenti di brina cadere freneticamente al suolo, come mossi da una qualche frenesia. Da prima piccoli brandelli, poi spessi pezzi di ghiaccio.
    Le lame gemelle alla mano, voltate contro quella creatura, non più un inanimato ornamento, ma una creatura di carne e ossa. Venature rossastre correvano sopra il suo corpo annerito esaltando tessuti mezzi scarnificati, gli occhi vibravano di un intenso giallo ambrato. Un brivido mi percosse la schiena quando quella creatura parlò, con voce stridula e rauca.
    “Il Giudice della montagna domanda...”
    Ero già balzato facendo roteare la lama verso il suo collo, deviò il colpo facendo oscillare la pesante arma che stringeva. Proseguì
    “Le tue intenzioni”
    Quell’agglomerato di carne morta innegabilmente cucita insieme da qualche stregoneria non sembrava mosso da intelligenza propria, ma da azioni meccanicamente programmate. Rimase impassibile all’attacco, freddo come il ghiaccio di quella terra. Giudice della montagna... Un nome appropriato.
    La creatura tuttavia rimaneva un costrutto della morte, frutto di stregoneria occulta, non avevo motivo di fidarmi solo per la possibilità di ammorbidire il compito.
    Mi accanì verso il basso con un fendente per mozzargli le gambe, inaspettatamente il mio colpo andò a vuoto, seppure il tessuto che ricadeva a mò di tunica dalla cinta in poi venne tagliato. Il nulla, ecco cosa lo sosteneva. La creatura era composta da un busto fluttuante che svettava sul terreno. Se quel bastardo si fosse svegliato dal guscio di ghiaccio qualche minuto prima non l’avrei neppure sentito incamminarsi.
    “Rispondi, o il Giudice della montagna dovrà chiederti di abbandonare questo luogo”
    La falce per quanto minacciosa non m’intimoriva, inoltre avevo appena vagliato la forza fisica e le debolezze di quella creatura, sapevo come spargere le sue interiora sulla neve. Decisi tuttavia di richiamare la lama fantasma, ed assecondare la sua domanda.
    “Mi serve la conoscenza per estirpare Hybris da questa terra una volta per sempre” Non meditò più di qualche attimo prima di rispondere.
    “Hybris è imprigionato lontano da questo mondo, incatenato dal sigillo del caos di Lord Salazar”
    Sigillo del caos, già in passato quel nome mi era risuonato nell’orecchio. Stando alle cronache sopravvissute abbastanza da arrivare alle mie mani, era l’arma, lo strumento sviluppato dal creatore del demone per schiacciarlo definitivamente se mai fosse tornato dalla sua prigionia, eppure davanti a me quell’essere, forse più antico di chiunque altro abbia mai incrociato, contraddiceva quelle parole.
    “Sta per tornare in questo mondo, i suoi accoliti ne hanno già spianato il ritorno. Lasciami passare”
    Rimase immobile, meditabondo, come se stesse elaborando una risposta o un’azione.
    Il silenzio venne poi spezzato, non da lui, ma da una lei. Un pugnale per poco mi trafisse il petto, riuscì a deviarlo ponendo la lama in mia difesa.
    “Ora i redivivi di Lord Salazar si svegliano senza che qualcuno li abbia convocati?” Gridò la voce femminile. La donna sorse dal bianco della tundra, coperta da un’armatura d’acciaio brandiva una claymore con entrambe le mani, guardia larga.
    Ancora quel nome, Salazar, doveva appartenere allo stregone.
    “Viene dall’esterno, dice che Hybris sta per tornare in questo mondo, Lady Demorga” Seppur il suo volto era coperto da un elmo ebbi modo d’intuire che forse stava sbiancando per il terrore o la rabbia per quelle parole, una reazione opposta all’indifferenza del Giudice.
    “Vaneggiamenti o menzogne, non può essersi liberato senza le chiavi” Ebbi involontariamente la sua attenzione.
    “ Tu hai delle domande a cui rispondere, adesso!”
    Piantai la lama nella neve, le sue parole erano colme d’impazienza, ma io avevo una certa premura. Troppo tempo avevo trascurato quel senile nemico.
    “Donna, potrai avere le tue risposte quando io avrò le mie”
    “Non ti hanno introdotto al galateo, vero mostro?” Con atteggiamento di sfida rivolgeva a me la sua spada, l’acciaio splendeva riflettendo la tenue luce solare “I desideri di una signora vengono prima, potrai dar fiato a quella lingua biforcuta solo per soddisfare la mia curiosità”
    Si preannunciava una inutile schermaglia non necessaria, mi sarei curato di sotterrare quei due al ritorno.

    L’aria si fece elettrica, carica di scosse che esplosero all’improvviso sulle mie spalle. Erano attoniti, inconsci di cosa era successero, prima di posare nuovamente lo sguardo su di me.
    Sostenuto dalle ali del fulmine sfrecciavo a grande velocità verso il castello, vidi la donna fare una sorta di cenno al costrutto. La falce mi venne scagliata contro, forse animata da una qualche stregoneria o per semplice forza brutta, riuscì a divorare la distanza che la separava da me in pochi secondi senza mai accennare ad abbassarsi di qualche centimetro. Roteava come una sega spinta da leve e ingranaggi. Mi bloccai, l’arresto improvviso fece sussultare la neve alle mie spalle che si alzò di qualche centimetro da terra, la falce a pochi metri da me, il suo acciaio sempre più nitido ai miei occhi. Balzai.
    La falce si conficcò con forza nel terreno, senza riuscire però a sfiorarmi, mi accorsi nel mentre di essermi avvicinato al bastione.
    L’imponente cancello misurava una ventina di metri, sbarrato, non avrei mai potuto spostarlo con la sola forza fisica. Qualche marchingegno doveva muoverlo, non c’era tempo per cercarlo. Le torri.
    Con le ali sulle mie spalle introdurmi attraverso le torri del castello non rappresentava alcuna fatica. Spiccai il volo, innalzandomi per centinaia di metri, la torre ovest era la più vicina.
    Un solo minuto pertugio prima della sua sommità abbastanza grande da permettermi l’ingresso. Entrai, le ali si dissolsero alle mie spalle come tramutate in polvere.

    CAPITOLO IV

    L’interno della torre era scuro, nessuna candela, nessuna fonde di luce esterna. Oscurità senza fine.
    Ero in una piccola stanza circolare, pochi oggetti caratteristici , molta polvere.
    Di sicuro avevano visto a quale torre avevo puntato nella mia scalata, sarebbero venuti a cercarmi.
    Tirai la circolare maniglia in ferro della porta difronte a me, scale che correvano circolarmente in basso a sinistra o portavano all’apice verso destra.
    M’inoltrai verso il basso, la lama di fuoco in pugno. Raggiunto il pian terreno calpestai qualcosa di morbido e vellutato, un tappeto? Il logorio del tempo non l’aveva risparmiato, come pure il resto del bastione.
    “Non è questo il momento d’interrogarsi sull’antico lustro di questo luogo” Pensai, mentre altro si faceva strada nella mia mente.
    “Quella donna aveva cianciato di una chiave, no... Delle chiavi. Possibile. Quando per la prima volta incrociai Hybris mi avvertì che sarebbe tornato dal sangue dei suoi discepoli, ma quelle catene... Enormi, abbastanza da tenerlo immobile in quella dimensione. Che quelle catene non potessero venire spezzate dal sangue di demone?
    Le chiavi, se non sono state distrutte per un qualche secondo fine potrebbero trovarsi fra queste mura. Forse dovrei farlo... Tuttavia sorge un secondo quesito, perché imprigionare il demone e lasciare le chiavi integre? Ammesso che lo siano.
    Al diavolo. La stregoneria è una disprezzabile accozzaglia di regole e formule, potrei causare un cataclisma che per riflesso riporterebbe quel demonio in questo mondo con un’azione avventata su quegli oggetti. Devo trovarli e metterli al sicuro, ai pilastri sotto il vigile sguardo delle sentinelle di pietra non potranno essere toccate“
    Pensavo, avanzando fra vasti corridoi e vecchi ornamenti, ogni tanto risaltava nella rossastra luce delle fiamme l’effige dell’occhio a mezzaluna che era anche inciso sulla mappa. L’effige di Salzar, capii.

    Un suono, come di giunture metalliche intente a spostare un monumentale cancello, irruppe. Stavano per raggiungermi.
    Non mi avrebbero ceduto le chiavi, per cui conveniva trovarle da me, sebbene l’immensità del bastione fosse posta a mio svantaggio.
    Persa nell’etere, percepii una traccia, una sorta voce. Distorta forse dalla lontananza, l’avvertì più come un sussurro. Magari un’esca dei miei inseguitori?

    Il debole mormorio mi portò verso percorsi secondari, dal pian terreno discesi verso le catacombe, poi salii nuovamente verso l’alto. Tastai la mappa, ancora assicurata alla cinta. Per un attimo credetti di averla perduta fra le neve. Non fui sorpreso di ciò che vidi, il papiro sembrava in qualche modo reagire alle mura del castello. Il sussurro che stava guidandomi fra quelle mura a me estranee era solo una reazione del forte al portatore della mappa, io.

    Giunsi ad una sala grande, ignaro di quale ala del castello stessi occupando. Una scala saliva di qualche metro verso una porta dagli strani ornamenti. La varcai.
    Un’altra sala, più vistosa rispetto alle altre attraversate, tomi posti ordinatamente su alcune librerie ed una porta sul fondo. Non poteva condurre ad una balconata.
    Capii di trovarmi in un’anticamera, la successiva era la stanza vera e propria.
    Mietitrice in pugno, tirai la maniglia.

    CAPITOLO V

    Seppur rischiarita dalle fiamme sarebbe stata visibile anche senza, una teca vitrea abbastanza grande da contenere un colosso. Ritratto al suo interno, avvolto in un sonno centenario, un demone dalle pelle nere e spesse corna da ariete.
    Le zanne affilate risaltavano su un volto più simile a quello di uno scheletro che di una creatura di carne. Gli occhi sigillati grandi quasi come un pugno.
    Lo vidi indistintamente, ma non avevo motivo di dubitare. Al collo portava uno di quei maledetti amuleti, i medesimi che mutavano la carne di un uomo fino a renderlo un demone.
    Avvicinandomi ,la fessura dell’occhio sinistro, si aprì. L’iride rosso cremisi mi fissava, il corpo ancora intontito dal torpore accennava a pochi movimenti.
    I palmi ed il muso premuti contro il vetro, la sua attenzione era rivolta alla mia cinta. La mappa.

    La stanza era stretta, troppo. Ingaggiare una lotta con un titano di quelle dimensioni dalle capacità sconosciute sarebbe stato avventato, un errore già commesso in passato. Mi voltai verso l’ingresso dalla stanza, passi metallici echeggiavano verso di me.
    “La stanza di Lord Salazar è stata violata” Gridò un’iraconda voce femminile. Quella donna mi aveva raggiunto, con lei anche il Giudice.
    Si materializzò alle mie spalle, la falce stretta in quelle sue smunte mani, la scansai appena. Fui colpito da una sorta d’impulso, simile alle onde cinetiche dei turelim, rotali per le scale ritrovandomi a terra.
    Ancora la falce di morte fu sopra di me, ed ancora il suo colpo fu vano. Avevo gli occhi puntati sulla lama ricurva, conficcata nel pavimento, il mio viso riflesso nel metallo. La donna alle mie spalle tentava una carica, al diavolo.

    Il mondo mutò, i colori vividi lasciaro spazio al verde pallido del mondo spirituale. Decisi di ritirarmi nel limbo non per paura o codardia, ma semplice buonsenso. L’ubicazione delle “chiavi” mi era sconosciuta, a me, ma non ai miei inseguitori. Avrei dovuto ammorbidirli in qualche modo, oppure sottrargli con l’inganno quelle preziose informazioni.
    La diplomazia è così noiosa, mai nulla di semplice.

    “La mappa!” Dannazione, quell’oggetto non era capace di viaggiare con me nel limbo. Rimasto nel mondo della materia, non era più alla mia portata, poco importava. Mi era chiara la posizione del castello, anche abbandonandolo sarei potuto ritornare, ammesso di trovare il portale integro.

    Nel mondo spirituale fui percosso da una strana sensazione di pericolo, anime nomadi e cacciatori tipici del limbo mancavano in quella zona.

    Irruppe, proprio davanti a me, una manifestazione che non credevo possibile. Il corpo visibile solo per metà assalito da una nebbia mistica che ne delineava i lineamenti mostruosi da me visti solo pochi attimi fa. Salazar.
    S’incurvo, nel pugno sinistro sembrava stringere qualcosa ma io intravedevo solo un palmo vuoto.
    “Se puoi perdonare la brutalità dei miei sottoposti, parliamo”
    La sua voce risuonava come un eco, pareva quasi provenire da un altro mondo.
    “Se ti sei preso la briga di recuperare questa mappa dev’essere importante. Abbassa l’arma, noi faremo lo stesso”
    Invece indietreggiai di qualche ponderato passo, il pugno sinistro carico di forza cinetica,
    “Ho capito, il fervore dello scontro ancora brucia. C’è una sala di ritrovo nell’ala est, lascerò qui la mappa perché possa guidarti. Sappi che ho già mandato via i miei sottoposti...
    Parli la mia lingua o sto solo sprecando fiato?”

    “I secoli non hanno alterato Nosgoth nella dialettica... Salazar. Possiamo anche discutere qui”
    “Secoli... Pensavo mi sarei ridestato molto prima...”
    Mi sta bene, la mia subordinata, Lady Demorga ha già accennato alle tue motivazioni. Hybris”
    “Il bastardo che tu hai creato, vogliono richiamarlo dalla prigionia. Mi serve l’oggetto che hai sviluppato per ucciderlo, il sigillo del caos”
    Scosse la testa, qualcosa non andava.
    “Ti darò una grande delusione, non ho mai creato nessuna arma miracolosa per ucciderlo. E’ probabile che come spesso accade i racconti siano stati distorti, il sigillo del caos è solo l’incantesimo con cui l’ho imprigionato, ed è impossibile spezzarlo senza le chiavi da me custodite”
    Un mistero era risolto, rimaneva da sancire il resto.
    “Un ebete di nome Lundas ha riportato alla vita gli amuleti del demone, il suo intero ordine ne fa uso.
    Non girerò ulteriormente intorno a questo dramma. Se distruggere le chiavi non porterà al ritorno del demone, fallo all’istante. Libera Nosgoth da questo fardello, e me da una preoccupazione.
    Dopo, ucciderò Lundas e metterò a ferro e fuoco il suo ordine”
    Non sembrava stare ascoltando, avevo notato un mutamento nel suo sguardo, proprio quando pronunciai il nome di quel mago. Dal confuso ammasso di nebbia in cui si era manifestato intuivo che sbatteva nervosamente la coda scheletrica sul pavimento.
    “Le chiavi non sono altro che amuleti elementali a se stanti, appartenevano ai sei antichi generali di Hybris da me sconfitti. Indissolubilmente legati alla vita del demone, non possono essere distrutti finché lui vive. Se fosse stato possibile l’avrei fatto tempo fa.”
    “Allora dammi le chiavi così che possa rinchiuderle dove non saranno mai più ritrovate”
    “Non sono uno stolto, non cederò le chiavi al primo che le chiede. Anche se tu fossi un buona fede, bisogna avere prudenza con questo genere di artefatti”
    “Hai preso un’imprecisa mappa per questo luogo e l’hai rinchiusa in un forziere, che poi hai gettato sul fondo di un lago. Le coordinate per il tuo castello sono apparse solo quando stimolate dalla stregoneria, e l’ho potuto scoprire solo grazie ad una vecchia illustrazione che per qualche miracolo è riuscita a salvarsi.In più hai messo a guardia un ammasso di carne agghindato come fosse l’araldo della morte ed una pazza. La tua più che prudenza è paranoia”
    Rimase in silenzio per qualche secondo, non perché colto da ira improvvisa che tentava di reprimere, ma per puro atteggiamento meditativo.
    “Ammetto di avere applicato misure drastiche, i segreti contenuti in questo maniero sono molteplici ed era necessario difenderli...
    Le tue parole mi hanno incuriosito, una delle nostre illustrazioni e sopravvissuta così tanto. Vorrei vedere in quale stato si trova, l’avrai portata certamente qui con te”
    “Hai forse voglia che ti tagli le corde vocali per farti smettere di blaterale? Ho una certa premura”
    “Vorrei verificare questa tua premura, prima di sapere se posso fidarmi in te. Senza fiducia reciproca non arriveremo da nessuna parte. Farò finta che tu sia un buon ambasciatore dalle nobili intenzioni.
    Prima che possa verificare l’attuale situazione di Nosgoth ci vorrà del tempo, per tanto ti chiedo un pegno di buona fede, mostrandomi quel ritratto”
    “Solo se tu in pegno di buona fede non mi farai crollare la porta sulla testa”
    “Ovviamente”

    CAPITOLO VI

    Il sangue caldo impiastrava la neve , le budella tirate fuori di forza dalla pancia lanciate contro una roccia vicina ed il muso del ronzino digrignato in una smorfia di terrore. Doveva essere stata una fine rapida e dolorosa.
    “Mi dispiace per il tuo cavallo” Ammise Salazar
    Non risposi, cominciando a frugare fra i bagagli ancora assicurati alla sua schiena.
    Nel mentre pensai ad un raggio di sole portatore di sfortuna, che avesse proiettato l’ombra di qualche macigno verso il cavallo, un vampiro affamato approfittandone era strisciato fuori dalla tenebre per sgozzarlo. Scartai immediatamente l’ipotesi, il ronzino non era stato dissanguato ed i tagli sulla pancia non appartenevano a mani bifide. Altro l’aveva ucciso.
    Il ritratto che Salazar voleva era ancora lì, intatto e senza nemmeno una goccia di sangue, gli e lo porsi.
    Senza avidità o impazienza lo raccolse nelle sue enormi mani nere, sfilando con minuzia. I suoi rossastri fissavano il papiro, forse sopraffatti da antichi ricordi o vecchie amarezze.
    “Sono soddisfatto... Ma ora, vorrei porti io, un segno di buona fede” La sua mano puntata con disinvoltura verso il cadavere sembrò brillare. Un manto d’oscurità ghermì l’animale, ed in un attimo egli si ridestò a nuova vita... O quasi. La criniera era annerita, gli occhi non mancavano di mostrare il nero della pupilla e scalciava furiosamente
    “Se a te non rincuora vorrei tenere il ritratto, la mappa puoi riportarla con te, se mai avessi bisogno di ritornare”
    “Quelle chiavi hanno bisogno di essere protette, se a te non rincuora Salazar, resterò qui”
    “Mi sembra logico, ti farò preparare una stanza nell’ala est, dove ti sei introdotto. Almeno avrai un minimo di familiarità. Il cavallo può stare nelle stalle... Uhm, cos’è che mangi tu?”
    “Le anime dei morti intrappolate nel limbo”
    Girò il collo, lontano da me, lo sguardo rivolto al sole che trafiggeva le nubi sovrastanti “Almeno risparmierò di riservarti un posto a tavola”

    Rimasi parecchie lune nel castello di Salazar, mi concesse di accedere a tutte le sale, eccezione fatta per quelle contenti diciture sulle stregone. Quel bastardo era geloso dei suoi segreti.
    Impose ad entrambi i suoi cani da guardia di starmi lontano nei primi giorni, sebbene la sete di sfida irritava la gola di Demorga, scontenta delle imposizioni del suo padrone. Gli e ne concessi una, avendo il sopravvento senza dovermi prolungare troppo, sebbene la sua abilità nel giostrare la spada fosse notevole per una donna. Una donzella curiosa, portava al collo una collana fatta con l'uccello tagliato ed essiccato di un uomo che a quanto pareva non le era stato molto fedele.
    Il Giudice della montagna era, come avevo sospettato in precedenza, solo un’automa capace di seguire ordini conficcati nel suo cervello tramite magia nera. Non servava rancori.

    Salazar periodicamente mandava dei corvi o pipistrelli evocati dalle sue stesse arti occulte a perlustrare Nosgoth, poi tornavano per sussurrare al suo orecchio le varie scoperte.
    Mi diede la chiave dell’archivio, laggiù trovai qualcosa scrupolosamente piazzato o lasciato lì per semplice negligenza. Il suo diario, le pagine con i giorni della creazione di Hybris.
    Doveva essere stato scritto a metà fra il suo sonno e risveglio per mia mano, da come erano ingiallite le pagine. Una fortuna non diventassero polvere appena sfiorate.

    DIARIO DI SALAZAR ATTO I

    Fu un atto di disperazione, non mi rendevo conto di cosa stessi facendo quando lo creai. Ma quando perdi i tuoi cari, è sempre la disperazione a reggere I fili delle tue azioni.
    Nacqui in una Nosgoth in procinto di rinascere all’incirca quattrocento anni fa, non ricordo con certezza i dettagli di quell’era, è passato molto tempo da allora, mi sono appena destato da un sonno forse secolare.
    Sin da bambino fui appassionato dalle arti magiche a lungo dimenticate. Pensavo che la saggezza non doveva andare persa. Cercai a lungo in tutta Nosgoth le perle di cui avevo bisogno per affinare la mia conoscenza, da tramandare poi ai più giovani.
    Ma in tutte le mie ricerche c’era sempre un problema, che molti ritenevano una piaga ed altri pazzi, divinità scese su di noi a governare. I corrotti.
    Forse fu proprio per spegnere la fiamma della loro esistenza che lo creai, forse il voler fermare le guerre e riportare la pace era solo una scusa per non ammettere che ero assetato di vendetta.
    Ma quale uomo non lo sarebbe stato dove avere patito le mie sofferenze?
    Ogni volta che ero in viaggio, avevo bisogno di una scorta armata.
    Procurarmela non rappresentava un intoppo, gli antichi ordini ammazza-vampiri erano sempre pronti a fornirmi dei soldati, in cambio dei miei insegnamenti per affinare le tecniche magiche dei loro stregoni. Non solo mi venivano forniti dei soldati, il mio aiuto nella guerra alla corruzione dava ottimi profitti, strappati alle tasche di contadini malconci.

    Durante i miei viaggi ebbi modo di vedere con quanta determinazione e dedizione gli operai lavoravano con fatica per la ricostruzione delle antiche città di Nosgoth.
    La risorta Willendorf non solo voleva la radiante città di un tempo, ambiva a riavere anche la reputazione della sua biblioteca un tempo famosa in tutta Nosgoth.
    Più e più volte, mi furono d’aiuto nelle mie ricerche. E li che la conobbi, che conobbi la mia amata.
    Così bella, così pura. Non sono stato degno di averla al mio fianco.

    Col passare degni anni riscoprivo magie sempre più potenti. Trovai la mia vocazione nell’arte del controllo di forze oscure. Per quanto non gioissi al pensiero di essere piuttosto portato per quella disciplina, Nosgoth necessitava di qualcuno che riportasse la pace.
    Ma non ero solo pratico di quella. Imparai anche i principi delle magie elementali, come sfruttare gli elementi a mio piacimento per creare costrutti di pietra ed argilla, muniti di grandi poteri. Per quanto avessi voluto impratichirmi su tutto, la vita di un uomo non è eterna.
    Decisi di concentrarmi sull’arte che ero nato per dominare.

    Mentre affinavo sempre di più la mia abilità, raccolsi per Nosgoth reliquie così antiche, da temere che toccandole le avrei mandate in frantumi.
    Tutti questi manufatti, vennero raccolti nel magazzino del mio castello.
    Lo costruii dalle ceneri di un antico bastione da guerra, spesi quasi tutta la mia fortuna, e dovetti usufruire di qualche favore che certa “gente influente” mi doveva.
    Ci vollero molti anni prima che fosse ultimato. Scelsi di sistemarmi proprio sulle montagne per svariati motivi. L’ambiente era sfavorevole al genere vampiresco, e la continue bufere di neve occultavano la sua posizione a tutti, meno che ad un esperto di questi luoghi.
    All’interno del castello tenevo le mie lezioni. In molti accorrevano per apprendere, sia giovani che anziani, che fossero maghi, guerrieri o contadini, la conoscenza li allettava.
    Certo non era semplice giungere al mio castello senza sapere con chi parlare, ma quand’essi finalmente con il corpo ricoperto di neve, totalmente infreddoliti dalle basse temperature, giungevano, potevo ammirare i loro volti colmi di gioia.

    Una notte d’inverno quando le bufere scatenavano il loro soffio più che mai, giunse alla mia porta un angelo caduto, colei che sarebbe divenuta la mia consorte, dalla lontana Willendorf solo per me.
    La accolsi a braccia aperte, ed ella rimase con me per molto tempo, prima di stabilirsi permanentemente.
    Avemmo due figli, dei gemelli, un maschio ed un femmina.
    Avevo trovato l’armonia, credevo che nulla sarebbe potuto andare storto, ma era solamente un’illusione. Quello che sarebbe accaduto dopo avrebbe cambiato per sempre la mia vita, e quella degli altri.

    DIARO DI SALAZAR ATTO II

    Un giorno, il più gelido che abbia mai vissuto, mia moglie rientrò tardi. Fra le sue braccia stringeva l’ormai morto corpo della mia piccina.
    Era... era completamente dissanguato... non serviva un saggio per capire cosa l’avesse uccisa.
    Fui in preda alla disperazione, non mi ero più curato della piaga corrotta fino a quel giorno, non ne avevo motivo.
    Cercai disperatamente una soluzione per affrontare la piaga, ed estirparla in maniera definitiva.
    Dagli antichi testi scoprì che avrei potuto affinare le mie capacità magiche, forgiando un catalizzatore.
    Quando terminai il mio strumento di morte, mi accorsi che era del tutto inutile. Le miei capacità erano state amplificate certo, riuscivo a riportare in vita più morti di quanti avessi sperato, potevo modificare la struttura stessa di un essere vivente per trasformarlo nella più orrenda creatura degli inferi, ma non era sufficiente.
    Potevo creare un battaglione, ma loro erano un esercito. Non avrei portato avanti nessuna guerra in quelle condizioni.
    Mi serviva qualcosa che avrebbero temuto, qualcosa di inarrestabile, che loro non avrebbero mai potuto fermare. Un essere con poteri che andassero oltre l’umana e vampiresca comprensione.
    La costruzione di tale mostruosità mi avrebbe rubato gli anni migliori della mia vita, anni che avrei potuto passare con la mia famiglia, vedendo crescere il mio pargolo, accantonando la cicatrice sul mio cuore. Quell’evento mi segnò per sempre, quell’evento... avrebbe portato alla nascita di una delle più grandi minacce che Nosgoth avesse mai visto.

    Non volevo creare uno stupido golem privo di volontà, NO! Io volevo una creatura senziente capace di pensare ed agire con la propria testa, ma allo stesso tempo che seguisse lo scopo per cui era stata concepita. Feci svariati esperimenti prima di creare l’essere che avevo in mente. Ogni creatura per essere portata alla vita necessitava di uno scopo, uno scopo che io stesso gli imponevo al momento della nascita. Anche se quest’ultima molto spesso non lo interpretava come avrei fatto io, di sicuro era per via della loro parte demoniaca.
    Speravo che il salvatore definitivo non avesse tale difetto, ma mi illudevo solamente.

    Gli esseri che creavo erano particolarmente deboli, sarà perché io stesso non avevo il potere necessario per renderli forti e vigorosi come avrei voluto. Nel mio tentativo di rafforzarli considerai di sfruttare la magia elementale, che avevo abbandonato per l’arte della resurrezione.
    Creare simili costrutti non era facile, è molto spesso non riuscivano a sfruttare il potere che gli fornivo.
    Per dare vita al grande salvatore avrei dovuto radunare molti più stregoni, ognuno esperto di un elemento. Costoro mi avrebbero aiutato nel dar vita al mio misfatto.

    Riunimmo le forze, il cielo divenne nero come non lo era mai stato, i nostri poteri congiunti si focalizzarono in un’unica forma colossale, uno stampo che iniziò a prendere vita difronte a nostri occhi.
    Io gli detti l’ordine, lo scopo, la motivazione dell’esistenza di Hybris.
    Non immaginavo che lui l’avrebbe inteso come distruzione totale, effettivamente era comprensibile data la sua natura.
    Nello svegliarsi scatenò l’immenso potere che gli avevamo fornito, e li capì il terribile errore che avevo fatto, un errore di cui io avevo la maggiore responsabilità.
    Mio figlio... ormai cresciuto, morì schiacciato da quelle forze colpevole di un unico peccato, l’aver voluto essere vicino ad un padre in quello che credeva sarebbe stato il suo più grande successo.
    E mia moglie, ormai distrutta dal dolore prese l’unica decisione possibile, andò via.

    Ero rimasto solo

    DIARIO DI SALAZAR ATTO III

    Hybris cominciò la sua opera di distruzione, non era solo il sangue dei corrotti a riempire le strade.
    Costruì dei potenti amuleti con la quale trasformare le persone in un essere fatto a sua immagine e somiglianza, un sottoposto più debole tuttavia abbastanza forte da sopraffare chi gli si opponeva.
    Il suo esercitò marciò con furia su Nosgoth, dovevo organizzare la contromossa.
    Chiesi aiuto a chiunque me lo potesse offrire. In molti erano divenuti diffidenti verso di me per via di quello che avevo fatto, decisero di aiutarmi per salvare le loro vite.

    Le prime battaglie furono un fallimento, ma allo stesso tempo mi permise di raccogliere preziose informazioni che sarebbe tornate utili per la vittoria definitiva, anche se c’erano alcune cose, di cui sarei rimasto volentieri all’oscuro.
    Capì che il punto debole dei demoni elementali era il loro amuleto, se andava distrutto ritornavano dei fragili uomini. Ma vi erano alcuni demoni, che non potevano essere sconfitti in questo modo.

    Hybris creò ben sei amuleti speciali, ognuna di quelle diavolerie legato a se stesso, ciò rendeva i portatori inarrestabili finché il demone viveva.
    Ma non fu questa la delucidazione che tagliò il mio cuore in due parti.
    Il demone scelse sei persone per essere i suoi generali, sei che sapeva gli sarebbero stati fedeli poiché essi bramavano il premio finale, un desiderio a loro scelta.
    Una di questi, era mia moglie, non ho mai saputo cosa le avesse promesso quel golia con le corna.

    La prima volta che ci scontrammo ella mi sconfisse con facilità, sarà perché era troppo potente, sarà perché l’amore che provavo per lei mi bloccava. Provai a riportarla dalla mia parte, tuttavia diffidava, diffidava di me in cui aveva sempre creduto.
    Lei un tempo mi aveva amato, ed in onore di quel sentimento mi lasciò vivere, uno dei miei tanti rimpianti è di non essere stato così benevolo nei suoi riguardi.
    Fra il sangue e le ossa rotte, raccolsi un amuleto. Era in frantumi, inutile per chiunque altro.
    Eravamo sempre meno e mentre la battaglia infuriava, io ero rintanato nel mio castello a cercare il modo di fermare Hybris.
    Non avendo il potere necessario a sconfiggerlo direttamente, pensai che l’unico modo per impedirgli di radere al suolo Nosgoth era imprigionarlo, sapevo come fare.
    Non avevo mai praticato il dominio dimensionale, sarebbe stato un suicidio per un amatore come me. Non avevo scelta, dovevo imprigionare la mia creatura in un altro mondo, non importava quale.
    Aprire un portale sarebbe stato faticoso, ed ancora di più metterci dentro Hybris. Dovevo limitare i suoi poteri.
    Studiando l’amuleto in pezzi, intuì che forse c’era una soluzione. Per attuare la mia idea mi sarebbe servito una dose spropositata di magia elementale, mi servivano gli amuleti dei generali.

    Il mio piano era semplice all’apparenza, ma complesso da attuare. C’era un incantesimo di cui ero pratico, il sigillo dell’incatenamento. Usandolo su Hybris avrei limitato la sua forza, ma io ero troppo debole. Ecco perché decisi di sfruttare il potere contenuto negli amuleti dei generali, con essi avrei potuto imprigionarlo e richiamare il portale dimensionale.
    Per essere sicuro di affrontare i generali a pari livello, utilizzai i resti dell’amuleto che avevo raccolto in modo da forgiarne uno mio, totalmente impregnato dell’elemento morte.

    Ero pronto ad attaccare, mi serviva solo un esercito.
    Con grande gioia scoprì che l’amuleto ampliava sproporzionatamente la mia magia. Riuscii a richiamare come non-morti i valorosi rimasti uccisi, potenziai i miei costrutti più di quanto avessi mai immaginato di fare e non solo... Alcuni soldati si offrirono volontari per sperimentare una mutazione, una mutazione effettuata dal mio rinnovato potere. Le mie capacità amplificate dall’amuleto mi permisero di trasformarli in esseri dalla forza e capacità sovrumane.
    In nostro esercito era pronto, ma nel mio cuore temevo di non riuscire a trovare la forza per affrontare la mia amata. Ma ormai ella non era più l’angelo che conobbi, quell’angelo era caduto negli inferi per trasformarsi in un diavolo. Dovevo salvarne almeno l’anima.

    Per assicurarmi la vittoria, misi da parte i miei rancori e chiesi aiuto ai corrotti. Questi ultimi erano e rimanevano bestie.
    In molti si unirono alla mia crociata, ma non decisero come una comunità, bensì singolarmente.
    Esattamente come le bestie pensavano solo a se stesse.
    Ci furono vampiri, che si sottoposero al mio trattamento per venire potenziati , mentre la maggior parte preferirono non avere nulla a che fare con tali forze. Forse avevano un briciolo di cervello.

    Quando la battaglia cominciò ad infuriare capii subito che questa volta saremmo riusciti a respingerli.
    Nel decapitare uno ad uno ogni generale di Hybris stetti molto attento a lasciare la mia consorte per ultima. Speravo volesse rivedere le sue ambizioni, ma... Sono sempre stato un sognatore.

    Una volta eliminati i generali riuscii a farmi strada fino ad Hybris, il cuore in gola per il nervosismo.
    I miei nuovi poteri non bastavano da soli per bloccarlo a sufficienza in modo da permettermi di imprigionarlo. Un plotone dei miei era riuscito ad aprirsi la strada, ed attaccava senza sosta il golia elementale. L’occasione perfetta.
    Non avevo mai provato una cosa simile, per la magia ci vuole pratica, ed io non avevo avuto il tempo. Avrei combinato al potere derivante dagli amuleti il mio incantesimo senza alcuna certezza di riuscire.
    Avevo fatto svariate combinazioni elementali prima di quel momento, ma mai qualcosa di simile, credo che la fortuna mi sia stata alleata.

    Riuscì a richiamare sei gigantesche catene, ognuna legata ad un amuleto, imprigionarono il demone rendendolo inerme.
    Il desiderio di distruggerlo era forte, ma la battaglia e la creazione di tutti quei soldati mi avevano prosciugato, non potevo distruggerlo.


    Sapevo che non era finita ...Avrebbe potuto essere richiamato dall’esilio, e gli amuleti erano l’unica cosa che lo tenevano bloccato. Finché egli viveva, non potevo distruggerli... Non posso distruggerli.
    Ma in tutta quella distruzione vidi una vittoria che andasse oltre l’aver sconfitto il demone.
    Sebbene uomini e vampiri, legati da uno strano collante avevano lottato assieme l’ostilità fra le razze rimase.

    Decisi di fare la cosa più giusta.Commissionai la creazione di una mappa, che poi impregnai personalmente di magia perché portasse al mio castello... Se mai ci sarebbe stato bisogno di me in futuro, avrebbero potuto trovarmi.
    Mi rintanai infine nel mio castello, per dormire, dormire finché Nosgoth non avrebbe avuto di nuovo bisogno di Salazar il folle.

    “Non c’è scritto nient’altro...”

    CAPITOLO VII

    Dopo aver assaporato le pagine del suo diario secolare quasi compativo Salazar per le sue azioni, ha cercato in tutti i modi di lavare via quella macchia dalla sua coscienza. Una sofferenza che forse l’aveva, no, decisamente perseguitato nel suo sonno centenario.

    Il vento sbuffava forte sulla torre est, adagiato su un cumulo di macigni vicino alla bardatura crollata del maniero rimuginavo sulla storia letta qualche giorno prima. Magari era un bene che per espiare la colpa custodisse gli amuleti dei generali, le chiavi delle catene.
    Lasciare Salazar nella pozza del suo tormento per l’eternità ed uccidere gli stregoni di Belial senza ulteriori esitazioni...

    Uno stormo di uccelli sembrò avvicinarsi al castello, le cornacchie di Salazar ritornate dal loro giro di perlustrazione? No, le loro carcasse. Minuti corpi schiacciati da una pressione troppo forte per quelle gracili ossa caddero come una poltiglia di carne sulla tundra difronte al forte. All’orizzonte, un vecchio nemico si palesava.
    Demoni elementali, un interno stormo, venuti per assaltare il castello di Salazar. Come l’avevano trovato?

    Lui era già arrivato alle porte del suo bastione, consapevole del pericolo incombente. Le sue mani nerastre si accesero di cupa luminosità mentre richiamava il suo malevolo incantesimo, uno scettro serrato nel suo pugno. Dalle pareti di ghiaccio un’orda di non-morti sorse al comando del loro padrone, pronti ad essere smembrati e mutilati per difenderne il castello.
    “Salazar” Lo raggiunsi dopo qualche minuto, strano non avesse pensato fossi io la causa di quell’invasione.
    “Dovresti badare le chiavi, io difenderò l’esterno” Fra le mille tonalità che esplodevano con fragore in un cielo tempestato di molteplici forze della natura, l’intenso rosso della lava, il grigio della polvere, il bianco candore delle nevi erano quelli che più spiccavano in quel tripudio elementale. Le altre forze, non ugualmente esotiche ma non meno potenti accompagnavano nella seconda fila le prime, era come se tutti gli habitat della natura si stessero mescolando in un solo punto.
    “Qualcuno di quegli infami deve avermi seguito fino a quei, il medesimo che qualche settimana fa mi ha ammazzato il cavallo.
    Ora che abbiamo finito di sottintendere l’ovvio, pensiamo a respingerli”
    Circa due settimane erano passate da quando avevo varcato il portale, più che sufficienti per radunare le forze e scagliare l’assalto al castello.
    "Forse il lacchè che li ha condotti qui è ancora fra le mura. Se Demorga ed il Giudice non sono ancora arrivati è perché stanno a fare i cani da guardia. Lasciami prendere gli amuleti, con me saranno al sicuro”
    “Ho previsto ogni possibilità, se dovesse accadere qualcosa me ne accorgerei prima che si venga a creare una situazione fatale. Fra le mie intuizioni rientrava anche la tua ultima richiesta”
    “Va all’inferno”
    “Presto sarà l’inferno a venire a noi, e forse avrò prova certa della tua fedeltà”
    Passi metallici irruppero alle nostre spalle, la figura di Demorga si palesò con preoccupazione, pensai al peggio.
    “ Lord Salazar, perdonatemi... Ma non potevo lasciarvi solo credevo, temevo che...”
    “Abdiel provasse a sgozzarmi mentre non guardavo” Donna di poca fede. “ Sfortunatamente nella tua dolcezza d’animo sei in errore”
    I redivivi si Salazar si stavano rialzando, lenti ma inesorabili puntavano lo sguardo al cielo, scrutando la costellazione di mostruosità alate in discesa verso la rocca.
    Fra le creature del vecchio ne spuntavano alcune la cui faccia putrefatta metteva in risalto i tessuti interni del viso, altre invece dagli arti multipli oppure ausiliari, tutti sembravano uscire dalle pareti di ghiaccio e pietra oppure venire vomitati dalla terra.
    Quelli muniti di ali, principalmente creature quadrupedi e tozze come cavalli si disposero in prima fila, attendendo di essere cavalcati da altri non-morti minori armati di lance in ferro.
    Salazar non dava comandi a voce, eppure le sue schiere si disponevano in maniera ordinata pronti all’assedio.
    “Abdiel, devo chiederti di accantonare la tua disputa con questi fattucchieri da quattro soldi, qualcuno deve portare gli amuleti al sicuro fuori da qui e Demorga preferirebbe starmi vicino durante i miei ultimi momenti. Usa il portale nascosto nelle catacombe del castello e metti al sicuro gli amuleti del demone...”
    Non ebbi neppure il tempo d’incalzare il primo passo che qualcosa sfondò una delle vetrate.
    Troppo tardi, il Giudice era sconfitto e gli amuleti rubati.

    Salazar doveva aver intuito le mie intenzioni, dal suo scettro si proiettò un raggio di energia fluorescente pochi secondi dopo che io ebbi scagliato una repentina saetta contro quell’essere. Il mio colpo lo stordì appena, quello di Salazar arrivò in ritardo, facendolo però precipitare.

    La guerriglia in cielo esplose qualche attimo dopo, con i nostri che caricavano dal basso i demoni lanciatesi in picchiata, come se alla scoccare dei nostri colpi di fosse suonato un corno da battaglia.

    Il demone si agitava come un moribondo nella neve, scosso dal dolore lacerante della deflagrazione che gli aveva portato via una delle ali. Mi guardò, i suoi occhi torvi pregni di tenebra, il muso digrignato in una smorfia. Il sangue scorreva a fiumi dalla sua pelle violacee, parlò, berciando odio e disprezzo.
    “Sei capace di fare altro oltre ad infierire su cavalli indifesi o lagnarti come un pargolo a cui manca quella sguattera della madre?
    Non farmi venire a prendere gli amuleti e ti lascerò strisciare dal tuo padrone senza staccarti la testa”
    “Strisciare... Nella tua bocca suona così ridicola quella parola. Eppure come un allocco non sei riuscito a percepirmi mentre strisciavo nell’ombra ad ogni tuo passo, sono rimasto acquattato a fianco a te tutto questo tempo nutrendomi di scarafaggi e larve solo per sopravvivere, ma a quanto pare è vero che tutti i grandi cambiamenti richiedono dei martiri”
    Gli amuleti dovevano essere con lui, eppure non gli vedevo. Un demone di tenebra... La familiarità con l’elemento mi lasciava intendere che li avesse nascosti, occultati da qualche stregoneria.

    L’aria si fece satura di energia ed una scossa esplose quasi accecandomi, non ero stato io a generalmente. Un demone elementale, sul suo corpo pulsavano saette azzurre che andavano a concentrarsi sulle ampie ali a forma di pipistrello. Spiccò il volo, così com’era venuto stava per scomparire. Non aveva nascosto solo i sigilli...
    Non indugiai, seguii quella scia azzurra in cielo

    CAPITOLO VIII

    Abdiel è andato. Inesorabile, inarrestabile, ha incarnato il concetto di spiccare il volo. Ammiro la sua grinta, forse avrei dovuto concedergli più fiducia.
    Si sta ancora rotolando fra gli spasmi del dolore, fa una certa pena.
    “Sei in punto di morte, stai assaporando la vittoria anche se Hybris è ancora in catena dove l’ho lasciato. Quindi dimmi, come hai fatto a giocarmi?”
    Tossisce, il sangue perso è tanto ma non in dose letale.
    “L’età tradisce i tuoi sensi. Ho trovato il secondo portale nelle viscere del castello, e mentre tu Salazar, schieravi le forze, ho portato qui il secondo in carica di Lord Lundas. Sei stato beffato, qualche minuto soltanto e la stessa creatura che hai creato ti sotterrerà assieme a le macerie del tuo castello.
    Quando poteva solo generare tempeste Arindan era il più veloce di noi tutti, ora che ha assimilato il potere del fulmine potrebbe passarti davanti agli occhi e non lo vedresti. Il vampiro del limbo non riuscirà mai a prenderlo”
    “Allora è per puro senso di protagonismo che ti sei lanciato in quel modo?”
    No... era un rischio lasciare che volasse via dalla fortezza, nemmeno io ho potuto constatare con attenzione tutte le difese della tua rocca, deboli da quanto sto vedendo.
    Quel maledetto portale l’hai costruito con furbizia, si può entrare ma uscire solo su tuo comando, vero? Se qualcuno avesse trovato l’altro accesso avrebbe potuto depredare i segreti che nascondi con tanta minuzia mentre ancora eri assopito nel sonno, ma non portarli con se fuori senza passare dalla porta principale ”
    “E’ così, hai un’ottima capacità deduttiva, sarebbe uno spreco lasciarti morire. Ti chiederei di abbandonare i tuoi ideali, ma vedo sono così radicati che vuoi rischiare la vita. Tuttavia ti chiedo, dimmi dove si trova Lundas”
    Non risponde. Odio dover abusare della stregoneria in questo modo, ma è una necessità.
    Gli avvolgo la mano in viso, sento i suoi ricordi correre dentro la mia mente. Lo sa, sa dove attende il padrone... Lo vedo!

    Stringo lo scettro nel mio pugno, attraverso le memoria di quell’uomo ho visto con chiarezza i piani di questo Lundas, forse discepolo di quel Lundas...
    Le mie forze sono bloccate, tutti questi demoni i cui cadaveri stanno sporcando la landa sono un diversivo. Lo scontro è stato ingaggiato, non posso abbandonarlo per prevenire la venuta del demone oppure rischio che i miei vengano sopraffatti ed i segreti del castello scoperchiati. Penso... So come risolvere questo rompicapo. Trarrò vantaggio dal mio imprevisto
    “Demorga, ti concedo il comando della legione, guidali”
    Spalanco le ali, non servono ulteriori spiegazioni, mi lancio in volo verso il comandante degli stregoni.

    Nella confusione riesco ad evadere ogni scontro con piccole dosi di magia illusoria. Stordisco per brevi attimi i miei avversari, divento uno sciame di locuste e mi nascondo nelle tenebre.
    Qualcosa accade. Un demone di magma, sta per sopraffare uno dei miei giganti, viene colto da male improvviso. Il respiro è rantolo, si accascia a terra, muore. Perché?
    Vedo il suo sangue, sta fluendo via dal corpo, possibile... Sta aprendo la porta? Com’è possibile, nemmeno io sarei capace di uccidere senza essere nelle vicinanze. A me no che... L’amuleto?
    Mi accascio sul suo corpo, guardo quella maledetta effige che evoca nauseanti ricordi. Gli amuleti sono maledetti, uccidono il portatore per aprire il cancello dimensionale.
    Vedo sangue impregnato di energia elementale vagare nell’aria per concentrarsi in un singolo punto. Il cielo diurno si sta scurendo... No...
    Se prendo i sigilli posso impedirlo.

    Raggiungo il punto prefissato e lo vedo, un demone bianco e pallido ricoperto da un’aura raggiante, quasi divina. Che contraddizione.
    Nelle sue lorde mani riconosco qualcosa di familiare, la lancia di Gough l’uccisore di spettri, l’arma portata un tempo dal mio caro amico, l’arma che io ho creato.
    Sta affrontando Abdiel sulle cui spalle brillano delle ali quasi angeliche e nelle mani stringe la divoratrice d’anime, ma gli amuleti dei generali... Non ci sono.
    Mi nota, parla, la sua voce ha un che di familiare
    “Troppo tardi, conosco il tuo senso del dovere e sapevo non avresti resistito nel lanciarti all’inseguimento, come sapevo che alle calcagna del mio buon braccio destro avresti messo il più sfrecciante dei tuoi lacchè. Certo non mi aspettavo un mietitore”
    Abdiel sembra avere avuto il controllo dello scontro, pur non riuscendo a sopraffare il suo nemico prima del mio arrivo.
    “Salazar, quello che ha preso gli amuleti dei generali sta per rompere le catene del demone, devi chiudere quel portale”
    Non posso, non so come. Ormai la porta è aperta, non sono abbastanza potente per farlo da solo.
    Posso provare a raggiungerlo? No, non farei in tempo. Sento la disperazione ghermirmi il cuore come un artiglio maleficio sorto dagli abissi che mi stringe il petto, un serpente che si agita nelle mie interiora per il senso d’impotenza.
    Eppure non posso fare a meno di pensare, quel demone bianco e ghignante... Porta il suo stesso nome, che sia?
    “Tu mi conosci bene, porti lo stesso nome di quello che fu uno dei più talentuosi fra i miei allievi”
    Penso ad un discente, qualcuno che abbia portato avanti il nome di Lundas, segreti tramandati di padre in figlio.
    “Pensi con logica, come sempre. Ma no, maestro Salazar”
    Si strappa l’amuleto dal petto, lo stringe nel pugno e va in pezzi. Non ritorna ad essere un uomo.
    “Tu sei vincolato al gingillo sul collo , io ho superato quella debolezza da tempo”
    Mi sento tradito, pugnato al petto. Questo essere che mi sta difronte... Il mio primo allievo? Colui che mi abbandonò per assecondare i suoi desideri, lui è la causa del disastro imminente...
    Vedo Abdiel impensierito, sta cercando una soluzione. Non c’è.
    Alle mie spalle sento la bocca dell’inferno aprirsi e la creatura gemere, è la fine.

    CAPITOLO IX

    L’inseguimento a quel maledetto mi aveva quasi sfiancato, le ali s’indebolivano alle mie spalle. Alla fine il timore per Lundas e la sua maledetta lancia mi aveva quasi sopraffatto, vecchie cicatrici che tornavano a bruciare sulla pelle.
    Ora lui è qui, davanti a me. Salazar al mio fianco , ma atrofizzato da memorie di cui non sono a conoscenza. Quel bastardo di uno stregone possedeva i segreti dei demoni elementali perché era lì quando il primo di quegli amuleti venne creato, contaminato dalla sua stessa magia non è più un uomo, bensì un diavolo avvolto in un farisaico manto di luce.

    L’inferno è alle mie spalle, lo sento straripare e ruggire di furia, la furia di secoli e secoli accumulata in un singolo mostro desiderioso di portare terra bruciata a rivalsa degli anni di prigionia.
    Non posso voltarmi e impedire lo scatenarsi di quell’armageddon , sarei trafitto a tradimento.
    Scaglio un debole impulso di forza cinetica, lui lo devia, approfitto dello spostamento.
    La folgore alle mie spalle brucia in un logorante impeto capace di proiettarmi all’indietro, oltre la portata della lancia.
    Precipito verso il basso, lui mi guarda dall’altura impugnando la sua arma , me la scaglia contro.
    Ruoto su me stesso, la lancia mi sfreccia davanti, schiantandosi sul suolo ghiacciato qualche metro più giù. Un altro battito d’ali, riprendo quota.
    I miei occhi si posano su una diabolica esibizione potenza, sento il sangue nelle vene gelare.
    Un cerchio, la porta, le sue dimensioni titaniche. Spacca il paesaggio a metà, al suo centro, Hybris.
    Ricordo, ricordo la prima che vidi quella creatura. Indietreggiai dinanzi a quella visione, solo un’illusione ma così nitida. La realtà è difronte a me, ed è anche più atroce.
    Il demone protende un arto dalla forma cristallina spalancando un palmo incapace di riflettere i colori dello spettro, il polso ammanettato trascina una pesante catena di dimensioni gargantuesche. La spalla sinistro fino al collo sembra raggiare come le stelle del cielo notturno, dalla testa viene giù un fiume di lava incandescente avvolto dal fumo scuro, alle estremità del capo due corna dalla ad ariete formate di elementi solidi , il primo sembra capace di corrodere ogni cosa fino allo scioglimento ed il secondo rispecchia il gelido ghiaccio del nord.
    L’altro braccio anch’esso incatenato si protende verso il portale, simile al primo ma non identico. Le dita molli e viscide come poltiglia di palude portano dietro di se un arto formato da polvere nera.
    Il petto e l’addome sembrano eterei, bianchi e pallidi come nebbia. Intravedo le ali, le pesanti catene le stringono impedendogli di spalancarle, l’arto alare sembra disperdere qualcosa di plumbeo e sottile, la membra percossa da saette azzurre.
    Nonostante la distanza lo vedo con chiarezza tanto per quanto mastodontico.

    Sei fuochi fatui, sei piccole luci che crescono d’intensità proprio vicino al portale. Ora è fuori, ma le catene lo trattengo. Protende le braccia un’ultima volta accompagnando poi il movimento dell’intero corpo, si spezzano in un clangore metallico che echeggia per tutta la vallata. Sono arrivato tardi.

    Lo sento, lo sento urlare il suo odio al mondo con un ruggito e di riflesso, il mondo risponde.
    Dal cielo annerito tuoni e lampi si schiantano al suolo, la terra si squarcia ed una pozza di magma prende forma affogando coloro ancora impegnati nello scontro. Senza ritegno, privo di distinzione fra alleato o nemico alza la mano destra. Sento il corpo venire attratto verso il palmo come una falena lo è dalla luce , che genere di forza è? Simile ad un tornado ma senza raffiche di vento.
    Con le ali mi appongo al risucchio, lo sguardo si gira verso il basso e vedo... La pelle si stacca dalla faccia dei meno tenaci, lasciando esposti i tessuti muscolari che a poco confluiscono in quel ciclone. Qualche attimo dopo, anche i più erculei nonostante i piedi saldati a terra cominciano a squarciare l’aria con grida di atroce sofferenza.
    Prosegue, fra lastre di ghiaccio appuntite che sorgono dalla terra trafiggendo la carne e fiamme solari che inceneriscono ogni corpo sul suo cammino.
    Mi oppongo ad ogni raffica, ignoro ogni sussulto. In pochi minuti la sua furia si esaurisce, rimango frastornato, indebolito. Le ali sulle mie spalle scompaiono, gli occhi si posano sulla devastazione.
    Arti sembrati e resti d’interiora bruciate o strappate, diavoli e mostri trafitti da lame di ghiaccio.
    Quest’orrore, questa devastazione colpirà tutta Nosgoth, ed io non so come fermarlo.
    S’insinua sotto la pelle, dentro le mie viscere, il senso di colpa. Io li ho portati da Salazar, io non sono stato capace d’impedirgli di aprire la porta, se Nosgoth cadrà io sarò il solo responsabile.
    Gli ho permesso di aprire i cancelli degli inferi.

    M’incammino, sento il mio corpo affievolirsi, raccolgo un’anima caduta e proseguo verso il paesaggio deturpato dalla morte. Lui è lì, ghigna trionfante.
    “Salazar, la tua armata è sconfitta. Stavolta non hai più nessuno stramaledetto alletto che possa assisterti per rinchiudermi, mi assicurerò inoltre che tu non possa rivolgermi contro i miei stessi strumenti”
    Stringe qualcosa nel grosso palmo, che siano... I sigilli, gli amuleti dei generali.
    “Ho compreso una verità, la vita dei sottoposti non è così importante da essere preservata a rischio della mia libertà”
    Sei lampi di energia congiungono nel suo palmo per qualche secondo, una piccola esplosione gli attraversa la mano. Sbriciolati, il vincolo che li legava alla vita del demone è spezzato.

    CAPITOLO X

    Vedo un’ombra nera stagliarsi difronte a me, Salazar, lo scettro quasi trascinato sotto il suo braccio.
    “Sei riuscito ad uccidere Lundas?”
    Il suo sguardo è perso nel vuoto, inizialmente non sembra capire la mia domanda.
    “Forse è morto, forse sopravvissuto, non lo so... Abdiel, abbiamo perso... È colpa mia”
    E’ disperato quanto me, i miei medesimi pensieri riflessi nelle sue parole come uno specchio.
    Le labbra scheletriche si muovono ancora.
    “Abdiel... Fra le tue schiere qualcuno può cancellare il mio errore? Esiste una minima possibilità ...”
    Rimango in silenzio. L’ultimo guardiano, il senzacuore, era caduto. Lui era forse l’unico a cui avrei potuto porgere lo sguardo, la sua anima ha ormai abbandonato Nosgoth.

    Qualcosa accade ai piedi del demone, suono d’acciaio. Riconosco la corporatura femminile e la corazza a coprirla, è Demorga. Lancio imprecazioni e parole di disprezzo verso il demone, Salazar nel vedere quella scena si riprende la sua torpore.
    La maestra di spada agita la sua claymore verso il titano elementale, punta ai talloni e li trafigge, Hybris la vede come una puntura. Scoccia ragazza scappa finché puoi.
    Un colpo solo, una fiammata solare esplode dilaniando il suo corpo. La corazza si fonde addosso a lei, non riesce a gridare seppur vorrebbe.

    Vedo gli occhi di Salazar riempirsi di rimpianto, possibile, sta piangendo?

    Urla, il suo grido si colma di furia, gli occhi carichi di odio. Lady Demorga, la sua pupilla, morta davanti a lui.
    “HYBRIS!” Lampi di energia verdastri percuotono il suo corpo, il catalizzatore per le stregonerie che porta con se sembra bruciare di energia al ritmo della sua collera.

    Sono quasi impaurito ma altresì ispirato da lui, da lui che in questi pochi giorni ho visto sempre composto e meditabondo. Il suo palmo arde, una scossa di energia sbalza verso il demone e lui... sussulta!

    Avanza, vedo la rabbia di colui che aveva perso entrambi i suoi preziosi pargoli e la donna che tanto aveva amato, ed ora, gli veniva strappata qualcuna forse più simile ad una figlia che a un sottoposto.
    Ne scaglia un altro, stavolta proiettandolo attraverso il suo scettro, ancora il corpo multielementale del demone sembra cedere sotto quell’impeto. Oltre sessanta piedi di altezza che indietreggiano.
    Le turgide braccia si protendono verso di noi, contrattacca con fulmini azzurri e fiamme solari. penso a come evitarlo. Salazar in nostra difesa protende la mano, una barriera dalla forma a cupola sembra avvolgerci riflettendo le forze elementali.
    Solo ora, ora che posso vedere con più chiarezza. Gli spiriti dei caduti, di tutti, sotto la forma di verdastri fuochi fatui avvolti e protetti dalla sua stessa stregoneria, congiungevano verso Salazar alimentando la sua magia. Il suo amuleto, legato all’elemento morte, irradiato dell’intensità della stregoneria brilla in modo accecante.

    Il verde sul mio braccio destro si confonde fra quello attirato da Salazar, il vecchio aveva ancora molta grinta. La mietitrice dalle lame gemelle si manifesta nella mia mano, la lama saetta trafiggendo le anime non ancora passate nel mondo spirituale o assorbite. Tre, sufficienti.
    Hybris vuole rompere la guardia di Salazar, balzo ed infilzo il tendine, non l’ha sentito. Male, voglio che strilli di dolore.
    Il tendine è viscido, impregnato di fango. Scosse fulminee avvolgono i miei artigli mentre scalo la gamba del demone. Vedo qualcosa, una macchia scura, polvere. La trafiggo con tutta la mia forza, mi ha sentito. Le sue grida sono una melodia di cui non godo per molto, proseguo. Si è accorto di me.
    Agita la gamba come un toro impazzito, vedo Salazar approfittarne, lancia un globo nero come la pece proprio in viso al demone, Hybris trasalisce.

    Arrivo all’addome , l’estremità ricurva delle lame gemelle si conficcano nel tessuto di quel bastardo, le fiamme elementali cominciano ad avvolgerle. La forgia del fuoco esplode direttamente nel suo petto, una tempesta di lingue di fuoco che si estende sul suo corpo. Non basta.
    Fatico a trattenermi, non importa. Le scosse cominciano Una deflagrazione elettrica accompagna le fiamme della mietitrice, sento il corpo del demone cedere sotto la fatalità dei nostri attacchi. Uno scossone, vengo catapultato via. Ci sono quasi, non devo retrocedere.

    Hybris ci guarda, il suo viso una maschera di terrore, la furia di Salazar da lui stesso provocata non verrà sopita fino alla sua morte.
    Veemenza e furore ribollono nell’animo di Salazar nel mentre raccoglie ogni spiraglio di maledetta magia rimastagli in corpo. Quella forza, raccolta dalla landa sanguinante, dagli spiriti vendicativi e dalle profondità del suo stesso forte prende a vorticare per raccogliersi nel suo corpo. Lo scettro si spezza per lo sforzo.
    Salazar si lancia contro la sua creatura, una cometa di ribollenti fiamme verdastre.
    Lo scoppio è accecante, come lame di luce che minacciano di trafiggere i miei occhi, li copro.

    CAPITOLO XI

    Immenso quasi come il bastione che si stagliava alle sue spalle, il demone era in piedi difronte a me.
    Il corpo un tempo animato da molteplici spiragli di energia elementale ora appariva bianco, quasi trasparente, prosciugato di tutte le forze.
    Le immense pupille ruotarono verso di me, provò ad accennare una parola ma dalle labbra fuoriuscì solo un rauco lamento appena percettibile.
    Un crepa, apparve dall’estremità del suo capo, simile ad una spaccatura su un suolo roccioso. Si estese fino a raggiungere il labbro, la testa aperta a metà. Molteplici incrinature si susseguirono, sbrecciando la carne che cadde in pezzi come un cumulo di sassi. Polverizzato al suolo, una folata leggera ed improvvisa investì gli ultimi pezzi, sbriciolandoli in granelli.

    Salazar ai piedi, contemplando la sua vittoria. Non più un demone, ma un uomo.
    “Abbiamo vinto?” Le gambe non lo ressero, sprofondò sulla neve, il viso coperto dal sudore della fatica.
    Capelli nerastri si riempirono di bianco, mentre delle rughe cominciavano ad apparirgli in volto. Non più preservato dal suo amuleto, stava invecchiando e morendo.
    Mi chinai.
    “Ci sei riuscito, hai rimediato al tuo misfatto. Ti ci sono voluti secoli, ma la tua devozione ti ha permesso di farlo”
    La sua voce si stava affievolendo, indebolito dall’età che stava per schiacciarlo come un martello.
    “Abdiel, non potrei avanzare richieste ma il mio castello e tutti i suoi segreti rischiano di rimanere incustoditi. Vorrei venissero preservati, ma se lo ritieni opportuno... Distruggili pure, hanno fatto troppi danni per una vita sola”
    Il suo sguardo si perde, sta per abbandonare questo mondo.
    “Sai, avrei voluto narrare la tua storie, le tue storie. Grazie di essere apparso, di avermi permesso di difendere Nosgoth un’ultima volta.
    Vedo la mia famiglia, mi stanno aspettando. La mia amata non è più furiosa con me, i nostri figli sono con lei, Demorga? C’è anche Demorga... E’ così, bella”
    Qualche minuto dopo invecchia raggiungendo l’anzianità più dilatata, la carne si sbriciola e rimangono solo le ossa. “Addio Salazar, grazie... Grazie di tutto”

    “Merita si un ringraziamento, per essere finalmente sprofondato nel sonno ultimo ed avermi lasciato la sua conoscenza” Lundas, ancora vivo. Avanzava, la lancia in pugno.
    “Sei qui per fare ammenda?”
    “Dopo tutte le pene che ho dovuto passare per arrivare a questo momento, fare ammenda? Salazar deceduto, i sui segreti sono miei. Devi solo morire anche tu, l’unico a conoscenza della posizione del castello e la vittoria finale sarà mia”
    “Vuoi costruire un altro demone, dopo ciò che hai visto? Non ti ubbidirà. Salazar ti era superiore in intelletto e non è riuscito a tenere al guinzaglio la sua creatura”
    “Ti rivelerò un segreto sulla creazione di Hybris, sono io il responsabile della sua natura ribelle.
    Sapevo come quel vecchio avido custodiva le sue formule, dopo la fine del nostro rapporto fra mentore ed allievo non avrebbe mai acconsentito a lasciarmi entrare nel suo bastione e lui ne teneva la posizione ben nascosta.
    Nessuno sapeva esattamente come raggiungere il castello, il bastardo conduceva tutti con dei portali, portali che ha distrutto prima di mettersi a nanna, meno quelli più nascosti.
    Infiltrai qualcuno, un uomo capace di passare inosservato fra le sue fila ed alterare l’incantesimo di controllo del demone. L’unico errore che ho commesso è stato nel cercare di renderlo fedele a me, le regole della magia non sono malleabili. Il risultato fu che la creatura di Salazar nacque refrattaria al controllo di entrambi.
    Ti dirò di più, questa lancia che stringo e presto sarà causa della tua dipartita, è stata creata da Salazar stesso. La costruì per un cavaliere suo amico, Gough, il quale divenne poi Gough l’uccisore di spettri.
    Immagina di avere tante armi come questa, abbastanza da estirpare la tua intera razza da Nosgoth.
    Il sapere è davanti a me, devo solo prendermelo.”
    “Avresti dovuto fare ammenda invece di far cantare la tua lingua biforcuta”
    Salazar era morto col senso di colpa nel cuore, una colpa che non gli spettava, almeno non interamente. Il vero responsabile, il diavolo causa di tutti quegli eventi, difronte a me.
    “Lundas, sei solo un porco vicino alla macellazione. Hai un debito nei miei riguardi ed in quelli di questo mondo, puoi sancire l’impegno con me usando il sangue, il pianeta si accontenterà della tua vita”

    Alzatosi in volo mi puntò la lancia per caricare, la deviai, le lame gemelle cozzarono con la punta del suo giavellotto. Proseguimmo così, in una frenesia sfrenata, entrambi logorati dallo scontro precedente.
    Le ali gli permettevano di dominare lo scontro, ogni assalto in picchiata era più accanito nel precedente. Un ultimo sforzo, le saette vorticarono alle mie spalle generando gli arti ausiliari che mi permettevano di sfondare la stratosfera.
    Percepivo la loro presa più debole, riflesso della mancanza di forza glifica nel mio corpo. Poco importava.
    Mi lanciai verso il mio nemico, le lame gemelle ruotavano nella mia mano. Scansò il primo fendente, quello di rimando gli fece una ferita in volto.
    Ancora una reminiscenza del passato, l’incantesimo accecante di Lundas. Scattai per sbattergli le ali dritto in faccia, la scossa lo fermò dal lanciarlo.
    Le immense membrane da pipistrello spinsero il demone fino a quell’agglomerato di nuvoloni neri, il suo corpo bianco ancora brillava , lo inseguii.
    Nel pieno del fervore mi spinsi prima nel cuore e poi oltre la cima della nube, il sole irradiava la nubila scura non riuscendo però a trafiggerla con i suoi raggi.
    Roteai come un ciclone di morte e sciagura lanciandomi sul diavolo bianco a poche decine di metri da me, ancora le nostre armi stridevano nel clangore dello scontro.
    Gli fui addosso, le sue dimensioni quasi mi sovrastarono, un’apertura nella guardia si parò dinanzi ai miei occhi. Puntai alla sua mano, un singolo squarcio... L’indice ed il medio volarono via.
    La mia occasione. Strinsi le mani bifide sulla lancia, la presa di Lundas era indebolita. Calciai il suo viso e mi spinsi all’infuri stringendo la lancia di Gough, gli e la rivolsi contro nel mentre mi veniva addosso. La punta trafisse l’addome e colpì la spina dorsale per poi spuntare di qualche centimetro dietro la schiena. Sentii il suo peso sulle mie braccia, non sbatteva più le ali, i suoi occhi divenivano vitrei. Lascio la presa, lui precipita.
    “Ho vinto...”
    La vittoria è fugace, lo sforzo mi schiaccia e le ali mi abbandonano.
    Sento l’aria svettarmi sulla testa, il mio corpo intento ad attraversare il cielo in caduta.
    Un suono familiare come di un macigno lanciato in acqua, è umido, freddo.
    Sono stanco, cedo.
     
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    Ringraziamenti:
    - Rekius per la missione e per la fiducia riposta nell'affidarmi un incarico così difficile, gravoso e fuori dagli schemi. spero che sia cosa gradita!.
    - Bleed per avermi concesso di esser accompagnato dal suo famiglio Emia durante questa quest.
    - Tutti i ragazzi del Lok per l'amicizia e il sostegno dati in tutti questi anni .

    Dedicato a:
    Tutte le persone che ora stanno soffrendo e lottando duramente contro questo stramaledettissimo virus e che continuano a combattere giorno dopo giorno, in casa come negli ospedali.

    Discaimers:
    - Katie appare in una delle mie prime missioni "disinfestazione" trovare il link nella mia scheda.
    - Louis è un omaggio a Louis Pasteur, il padre della microbiologia moderna.
    - Ian è un omaggio a Ian Fleming, l'inventore della penicillina.
    - Lenzer è un personaggio di un vecchio gioco di star wars. un comandante dell'Impero che dirigeva un progetto segreto di stampo bellico. Il nome e la figura del villain mi piaceva, così l'ho riutilizzato.


    CITAZIONE
    Missione per Asgarath!

    QUARANTENA



    " Fratello Druido, la situazione a Langskar è divenuta critica. "
    " Langskar, Langskar... ah, intendi quel piccolo agglomerato di casupole tra le caverne dell'Oracolo e l'antico rifugio di Janos Audron? "
    " Esatto, è stata indetta zona di assoluta quarantena in tutto il limitare del villaggio. Pare che un virus molto contagioso abbia iniziato a mietere le prime vittime. La questione è grave, talmente grave che i Saraphan hanno completamente barricato il villaggio e la sua via d'accesso.
    Nessuno entra, nessuno esce. Abbiamo notizie, inoltre, che una carovana di viveri, medicinali e personale medico sarà inviata dalla fortezza Saraphan tra due giorni per cercare di contenere l'epidemia e sostentare il villaggio nel tentativo di una ripresa. "

    " ed esattamente, cosa vorresti che faccia? No, non dirmelo. Qualcosa ti puzza. In effetti, anche a me. D'accordo, andrò. "
    " Sei l'unico che ha nozioni più approfondite di medicina tra noi. Considerata la zona, Rekius sarebbe stato il più indicato, di sicuro conoscerebbe quelle terre meglio di chiunque altro... Ma... "
    " Non sappiamo dove si trovi. Lo so... Quel che possiamo fare è trattare le sue terre con la cura ch'egli era solito usare. Andrò a capire cosa succede. Al mio ritorno, Bleed. Tieni d'occhio i novizi per me. "
    "Buona fortuna Asgarath, al tuo ritorno..."

    Preparativi



    - Grazie, Bleed. – gli rispose il druido. – Prima di partire, però, ho una piccola richiesta da farti. –
    Lui rimase un poco interdetto da questo.
    - Che richiesta?
    - Io ho un po’ di nozioni di medicina, è vero, ma non sono abile quanto vorrei per fronteggiare tale situazione. C’è qualcun altro, in questa cattedrale, che anche se non è abile nel combattimento o nella conoscenza degli elementi e delle sostanze dell’esistenza, è molto più umano di me e molto più abile a comprendere le malattie e le afflizioni della carne e dello spirito.
    Ti chiedo, quindi, se, può accompagnarmi in tale difficile compito.”
    Bleed rimase sorpreso .
    - chi alludi? Perché lo domandi proprio a me… No, aspetta. Ti riferisci ad Emia, vero?”
    “Le sue abilità di guaritrice e le sue conoscenze di chierica sarafan potrebbero aiutarmi molto a fare luce sulla vicenda.”
    Bleed si rabbuiò e abbassò lo sguardo.
    - Non lo so, Asgarath. Può esser molto rischioso per lei.
    - Alludi al morbo? Come tuo famiglio redivivo non dovrebbe esser soggetta alle malattie della carne come un umano comune.”
    - No, non è per questo, è che il viaggio è pericoloso. Nosgoth è cambiata e i sarafan…”
    - Temi che possano farle del male.
    - Sì.
    - Non preoccuparti. Hai la mia parola che mi prenderò cura di lei e che la terrò fuori da ogni scontro e da ogni combattimento o situazione incresciosa in cui andrò ad abbattermi.
    Bleed rimase a lungo in silenzio, incerto sul da farsi.
    - Va bene. – disse, infine, - Voglio darti fiducia, ma bisogna vedere se lei è d’accor -
    - Lo sono, mio signore. – disse una voce chiara e gentile.
    Io e Bleed trasalimmo.
    Emia emerse dal dietro la colonna che le aveva fatto da nascondiglio.
    - Da quanto tempo ascoltavi i nostri discorsi? - chiese Bleed, seccato, con un tono roco e cupo che faceva da perfetto contrappeso al dolce timbro della sua controparte.
    - Da qualche minuto, mio sire. Mi ero avvicinata per domandarvi alcune cose, e non ho potuto fare a meno di udire.
    Bleed la fissò a lungo, aggrottato e preoccupato.
    - Ma sei davvero sicura di voler andare?
    Lei si avvicinò e prese Bleed per mano.
    - Ti prego, Bleed. So che Nosgoth non è più un luogo accogliente come prima, ma sono mesi che sono chiusa in queste anguste mura e sento il bisogno di viaggiare un po’. Voi combattete e rischiate sempre la vita per l’Alleanza e per il bene di questa terra. Io invece…. Beh, insomma, vorrei solo potermi rendere utile, e questa può esser l’occasione giusta. Forse le mie abilità potranno aiutare qualcuno che ora sta soffrendo.
    Il Paladino la guardò stupito.
    Scosse la testa
    - Sarà molto pericoloso. lo capisci questo?
    La fanciulla annuì, mesta.
    - I sarafan controllano Langskar. Non dubito della buona fede di Asgarath, ma non sappiamo cosa vi aspetta. Lui non potrebbe non bastare a proteggerci. potrebbero farti del male.
    Lei ci rifletté un po’.
    - Hai ragione, mio signore. – ammise, con un triste inchino. – Non voglio essere un problema, quindi… lascia perdere. – la donna fece per voltarsi e uscire dalla stanza
    - Aspetta - la voce di Bleed la fermò.
    - Non ne sono per niente entusiasta, ma… Va bene, puoi andare.
    - Davvero? Grazie, mio signore grazie! – la donna sorrise radiosa come non lo era stata da tempo e abbracciò Bleed con forza, scatenando le risa del druido.
    Colto alla sprovvista, il Paladino rischiò quasi di sbilanciarsi e finire a terra, ma si riebbe subito.
    La tenne saldamente per un attimo, poi la allontanò dolcemente da lui e le scompigliò freddamente i capelli.
    - Calmati. Verrei anche io se potessi, ma qualcuno deve rimanere a difendere i Pilastri.
    - Lo so, lo capisco.
    La donna si ricompose e sorrise timidamente.
    - E quanto a te Asgarath…
    - Ti ho già dato la mia parola, Bleed. Lei ha fiducia in me. Abbine anche tu. Vado a fare i preparativi. – disse il druido, allontanandosi.
    Emia guardò Asgarath uscire dal chiostro, poi osservò Bleed a sua volta.
    - Con permesso…
    Bleed annuì. Emia si allontanò, diretta ai suoi alloggi per preparare quanto necessario per il viaggio.
    Rimasto solo, Bleed tornò a contemplare i pilastri, scuro in volto.

    Emia sembrava felice alla prospettiva di compiere quell’avventura, ma in realtà era più seria del solito.
    Gli ultimi eventi erano stati un duro colpo anche per lei, e questo aveva un po’ adombrato la sua proverbiale gaiezza e allegria fanciullesca.
    Come si poteva darle torto?
    Anche lei a modo suo era preoccupata, sia per la vita del suo signore e dei suoi amici, sia per le sorti del suo mondo e degli esseri umani.
    Era anche un po’ stanca, perché ora mi stava anche aiutando a badare al bambino orfano che avevo salvato qualche mese prima dal Windigo.
    Aveva preso presto a benvolerlo come una madre, ma era stata dura stargli dietro le prime settimane, quando il ricordo della morte dei genitori e il trauma dell’esperienza subita era ancora vivo nei suoi occhi.
    All’epoca mangiava e dormiva poco, e quando si addormentava, si risvegliava quasi subito, urlando per gli incubi che lo tormentavano, e che gli facevano rivivere la scena.
    Poi quel periodo era passato. Emia gli dava tutto il suo affetto e l’aveva aiutato ad acclimitarsi al clima austero e solenne della cattedrale, così poco adatto ad un bimbo.
    Inizialmente, Eric era impaurito da quel luogo, ma la vista dei Pilastri lo confortava e passava tantissimo tempo a contemplarli.
    Quanto ad Asgarath, si occupava come poteva della sua istruzione ed educazione.
    Nel tempo libero aveva migliorato le sue abilità di lettura e dizione e gli aveva fatto conoscere la sua vasta biblioteca.
    Gli aveva chiesto che cosa avrebbe voluto leggere, ed Eric scelse quasi subito un vecchio libro di racconti e miti di Nosgoth, pieno di miniature e illustrazioni, che il bambino amava sfogliare e leggere come se fosse un libro di fiabe.
    Il druido glielo regalò.Da quando l’aveva salvato, fu la prima volta che lo vide sorridere.

    Asgarath si diresse ai suoi alloggi, prese una vecchia mappa di Nosgoth e la studiò per cercar di capire come fare a raggiungere Langskar. Un posto che aveva sentito nominare, ma in cui non era mai stata e che non conosceva.
    Rammentava però che quando era stato ancora un mietitore alle prime armi aveva visitato Uschtenheilm. Ne aveva liberato le fattorie vicine da un gruppo di Zephonim che le terrorizzava.
    Guardò assorto la mappa, seguendo col dito le varie strade che partivano dalla Cattedrale dell’Anima, riflettendo e pianificando su quale fosse il sentiero più sicuro e rapido per far viaggiare due persone.
    “Si, forse è un po’ più rischioso, ma accorcerebbe molto il tragitto. Potremmo passare da…”
    - Buh! - Sobbalzò. Era così assorto che non notò minimante la sua presenza.
    - Eric, che ci fai qua? Credevo fossi con Emia.
    - Sono venuto a salutarti. Mi ha detto che… che bella mappa.
    Il bambino si avvicinino e chinò il viso su di essa.
    - Noi siamo qui, vero? – disse lui, indicando i Pilastri.
    - È esatto. – gli disse il druido, stupito.
    - E voi dove andate?
    - Qui. – indicò Langskar con una delle mie dita trifida.
    - Il fatto è che quella mappa non è molto aggiornata, visto i mutamenti che ha subito Nosgoth negli ultimi mesi. Non idea di dove si trovi Langskar con precisione. Son indeciso sul sentiero da seguire. Deve esser veloce, ma anche sicuro. Pensavo a…
    Eric lo zittì.
    - Zio Asghy… Perché non sali in un posto alto alto alto vicino a Langskar? Di notte le città fanno luci. Potrai trovarlo più facilmente.
    Lo guardò esterrefatto.
    - Beh, ecco, in realtà… No, aspetta, dammi quella mappa.
    Osservò meglio la cartina, e ponderò attentamente la sua idea.
    - In effetti, non sembra un’idea tanto malvagia. Forse sarà un po’ faticoso, ma ne varrà la pena. Risparmieremo tempo e anche rischi inutili. – sorrise, ammirato dall’intelligenza e sagacia che stava dimostrando il bimbo.
    Eric sorrise di rimando, poi si rabbuio.
    - Tornate presto. – disse, mesto.
    Asgarath annuì.
    - Hai la mia parola.

    Atto I presagi



    Il viaggio non era stato facile.
    Asgarath ed Emia si travestirono da monaci vagabondi, con sai e mantelli.
    Predicatori di qualche tipo, in modo da sviare ogni sospetto sulla loro identità.
    Raggiunsero Natcholm, nella quale al momento era ancora sicuro recarvisi.
    Fra l’intercedere del capitano Cain e l’agire dei Difensori di Nosgoth e la gratitudine che avevano gli abitanti verso l’Alleanza, non c’era posto per le macchinazioni delle alte sfere dei Sarafan in quel luogo.
    Trascosero la prima notte di viaggio in una sua locanda, con Asgarath che faceva la guardia mentre Emia dormiva, per evitare che ubriaconi e importuni li disturbassero.
    Poi noleggiarono una carrozza e un paio di cavalli.
    La condussero a Nord, costeggiano Steichenchroe evitando la città, che non si poteva considerare più territorio amico.
    Fecero bene. i sarafan del luogo si erano armati di recente con armi glifiche provenienti da Meridian. Barriere energetiche proteggevano i cancelli di ingresso a nord e a sud, e lungo gli spalti delle mura si muovevano soldati dotati di rune di rivelazione.
    Se si fossero avvicinati, sarebbero stati scoperti subito.
    Fu quindi la volta di Wasserbunde, e anche quella venne costeggiata.
    La popolazione del posto viveva nella paura più totale, sia per il timore degli attacchi dei rahabim che potevano avvenire di notte dal vicino Lago delle Lacrime, sia per la paura delle creature che si nascondevano nel vicino Rifugio di Nupraptor.
    Non era un luogo ostile, ma non era nemmeno un posto amico. Meglio girare al largo, quindi.
    I due a quel punto, imboccarono il sentiero che serpeggiava nei Canyon a nord, e raggiunsero Cooraghen. La sera, si accamparono in una piccola vallata al limitare del bosco.
    Emia si riposò dentro il calesse e il druido montò la guardia. Era la terza notte di viaggio.
    Ci fu una piccola incursione di Zephonim, ma appena compresero di aver a che far con un mietitore e non appena videro uno di loro esser stato tranciato a metà dalla mietitrice di luce, rinunciarono subito e si diedero a gambe, nascondendosi nuovamente nel bosco.
    Emia fu alquanto spaventata dall’evento, ma si riebbe in fretta.

    Il quarto giorno, lei e Asgarath giunsero vicino alla città… o almeno a quel che ne rimaneva, visto che ormai Cooraghen era in mano ai vampiri corrotti che l’avevano fatta diventare una grande fabbrica di sangue , usando gli umani come schiavi, cibo e fonte di nuovi adepti. Turelim, Zephonim e Dumahim dominavano il posto.
    Non sarebbe stato facile riprenderlo per l’Alleanza e per il momento, non potevano farci granché.
    Abbandonare il calesse, ma prima il druido liberò gli animali e li lasciò tornare indietro, sia perché il loro odore non attirasse i Corrotti, sia per salvarli da una fine orribile.
    Proseguirono quindi a piedi.
    Lui davanti e lei lo che lo seguiva subito dopo.
    Viaggiavano di giorno, e di notte cercavano sempre qualche riparo in qualche grotta, che Asgarath provedeva a murare o a nascondere spostando qualche pesante macigno, in modo da tener fuori qualsiasi eventuale minaccia.
    Al levar del sole, essi iniziarono a risalire i crinali montuosi a nord. Ben presto la vegetazione, già malaticcia e cadaverica a causa dell’ormai dilagante malattia che aveva corrotto Nosgoth, divenne sempre più rada. Le latifoglie furon sostituite dagli abeti.
    Il terreno sempre più scosceso, i sentieri accidentati. La pianura lasciò il posto alle svettanti montagne dell’Erebus.
    Asgarath ed Emia dovettero faticare non poco.
    Costeggiarono le rovine del Bastione di Malek, senza mai allontanarsi troppo l’uno dall’altro. Parlavano poco, e solo quando era davvero necessario.
    Superate le contrafforti del castello, la strada li condusse finalmente alle Oracle Caves.
    Una montagna altissima, che aveva due ingressi: uno: una grotta a cui si accedeva da un accampamento di zingari, e che conduceva in un labirinto di caverne che percorreva tutta la montagna. Sull’altro versante invece, la strada intrapresa da Raziel dopo aver ucciso Dumah, che l’aveva condotto all’antro di Moebius e alla Camera Cronoplastica, e al duello che avrebbe precipitato lui e Kain nel passato di Nosgoth.

    Il druido non era interessato a nessuna delle due cose. Se si fossero presentati ai Zingari spacciandosi per monaci, avrebbero cercato di derubarli o di far del male ad Emia, e le caverne erano piene di fuochi fatui, Windighi, Dumahim, slimer, abominii e chissà che altro , visti i tempi recenti.
    No. voleva soltanto scalare quella montagna e osservare il mondo dalla vetta. Col buio, avrebbero potuto vedere le luci di Langskar ad oriente, trovando così lo sperduto villaggio.
    In tal modo, avrebbero anche avuto anche la possibilità di vedere esattamente in che stato vessava Nosgoth e fino a che punto la corruzione si era sparsa per la terra.
    Attesero quindi l’alba del giorno successivo, accampati in una grotta che il druido visitò preventivamente liberandola dai due molesti Dumahim che vi avevano trovato rifugio, poi, all’alba, iniziarono la scalata.

    Il freddo e gelido vento sferzava in viso Emia, gelando la sua pelle già diafana a causa della sua particolare natura di rediviva.
    Lei si strinse maggiormente alla pelliccia d’orso che Asgarath le aveva detto di mettere nei bagagli prima di partire.
    Sulle prime, non aveva capito il senso di tale raccomandazione, ma dopo il passare dei giorni, man mano che si avvicinavano alla destinazione, il motivo di questo fu palesemente chiaro.
    Asgarath, comunque era stato previdente: aveva legato una robusta cintura attorno alla sua vita e un’altra a quella di Emia. Una robusta fune era agganciata ad entrambe.
    In tal modo, se la fanciulla fosse scivolata o avesse perso l’appiglio, il druido l’avrebbe presa al volo e le avrebbe impedito di sfracellarsi.
    Così preparata, la piccola cordata sfidò le pareti rocciose e pian piano, riuscì a risalirle.
    Dopo ore estenuanti, i due raggiunsero, verso mezzanotte, la sommità di una vetta.
    “Quando… dicevo… di voler uscire dalla Cattedrale… non intendevo questo!” ansimò, afflosciandosi sulla neve.
    Il druido la aiutò a tirarsi su in modo che non cadesse nel baratro, e la trascinò fino ad un avvallamento fra le rocce dove furono al riparo dalla bufera.
    Poi la coprì con la pelliccia. Lei si addormentò subito esausta.
    Asgarath la lasciò un attimo per raccogliere un po’ di legna secca da una macchia di abeti poco distante.
    Tornato all’accampamento improvvisato, scavò una buca e la circondò con dei ciottoli.
    Vi mise i ramoscelli. Evocò la mietitrice di fuoco e gli incendiò.
    Poi si accucciò vicino, ad Emia, riflettendo, i sensi e le orecchie tese a contemplare la bufera.
    Il vento impietoso spirava forte, ma proprio per questo, riuscì a donare loro uno spettacolo che gli ripagò della fatica.
    Dopo circa un paio d’ore, esso spazzò via la coltre malevola di nuvole e nebbia che ancora aleggiava sul cielo di Nosgoth affievolendo il sole, rendendo la luna solo un alone sfocato, e nascondendo le stelle.
    Lassù, ad alta quota, sia a causa delle correnti sferzanti che dell’aria rarefatta, finalmente, quel velo malefico di squarciò. La luce della luna inondò quindi il duo solitario, e le stelle, fecero, una seppur breve, comparsa, rischiarandoli.
    A quella vista, il druido fu meravigliato. Erano mesi che non godeva più dello spettacolo del firmamento.
    “E’ bello sapere che esiste ancora la possibilità di ammirarvi.” disse, grato.
    Emia si svegliò in quel momento, accarezzata dai raggi lunari. Il suo volto sembrava quasi marmoreo, ma nonostante il color perlaceo dato dalla neve e dalla luce lunare le dava davvero una bellezza eterea, che perfino il rude Bleed avrebbe apprezzato.
    - Oh… è bellissimo…
    Lei si tirò a sedere, fissando il cielo a bocca aperta.
    Il druido annuì, compiaciuto.
    Rimasero in silenzio per un po’ contemplando quello spettacolo. Asgarath osservò le costellazioni e i pianeti di transito. Vide un insolito allineamento di Marte, Giove e Saturno nel segno del Capricorno, e la cosa non gli piacque per niente.
    - Che significa? chiese la fanciulla.
    - I due giganti assieme? Grande benefico e grande malefico, nell’ottava casa, nel decimo segno, col pianeta del sangue? Epidemia. Questo non è il momento per feste e avvenimenti mondani e sociali, ma è il momento della riflessione e del duro lavoro atto a lenire le sofferenze del prossimo.
    - disse lui, grave, e preoccupato.
    Per un attimo, ebbe l’impressione di guardare lo specchio di qualcos’altro che si stagliava oltre le soglie della realtà che lui conosceva, ma fu solo un istante.
    - Non mi piacciono i segni del cielo. Abbiamo riposato abbastanza. È ora di agire. - Sbottò.
    Asgarath si tirò in piedi, avanzò sul ciglio orientale della vetta e gettò lo sguardo verso il panorama che si stendeva oltre la montagna.
    Poteva vedere la distesa delle rocce, rischiarate dalla luna, scabre e ghiacciate, che digradavano giù per un miglio. In lontananza, poteva scorgere le luci di Uschtenheilm, e, fra due vette, riuscì a distinguere il profilo del gelido lago su cui si stagliavano le rovine del rifugio di Janos Audron, illuminate dalla luna.
    In mezzo al panorama vi era una vallata fra due fiumi, e lì, brillavano delle luci di torce e lampade.
    Avevano trovato Langskar, ora, vi era solo un problema. Come raggiungerlo?
    In quel momento, due ringhi famelici squarciarono il silenzio.
    Emia gemette spaventata e si acquattò contro le rocce.
    Asgarath si guardò attorno circospetto e la lama fiammeggiante prese forma.
    Due figure grottesche, dal corpo bianco e peloso e dalle lunghe braccia emersero dalle ombre, attirate dalla luce del falò, ma, alla vista del fuoco, esiteranno nell’avvicinarsi.
    - Ancora windighi? Ma è una mania…- gemette il druido.
    - E adesso? - domandò la fanciulla.
    Asgarath la prese con uno strattone e la incitò a iniziar la discesa, tranciando la sua corda con un colpo della lama ardente.
    - Va’, ti raggiungerò!
    - Ma…
    - Va’!
    Emia obbedì e si affrettò a iniziar la discesa.
    Asgarath si mise in posizione di guardia, e si voltò verso i due mostri…

    Corse verso il falò ancora acceso e prese un ramoscello incendiato dal fuoco.
    Lo agitò per scacciare le due orrende bestie maledette.
    - Allora, ve ne andate con le buone o con le cattive? – strepitò.
    Come tutta risposta, i due Windighi ringhiarono furenti e partirono all’attacco agitando furiosamente le lunghe braccia nella sua direzione. .
    Memore di quello affrontato a Natcholm, stavolta Asgarath non si fece sorprendere, anche perché non poteva permetterselo. Se scivolava nel Regno Spettrale, chi badava ad Emia?
    Parò le unghiate con il ramo infuocato ed eseguì un elegante fendente che andò a staccar di netto una mano al windigo più vicino.
    Poi scartò all’indietro e li allontanò con un glifo della forza che li mandò a ruzzoloni fino al ciglio opposto della vetta.
    Gettò via il ramo e caricò un pirogramma.
    - Per l’ultima volta – disse con la sfera di fuoco che guizzava nella mano. – Ve ne andate da voi, o devo esser più perentorio?
    Il primo lo guardò paonazzo di dolore e grondante sangue, ma non si azzardò ad avvicinarsi, il secondo, invece, che era ancora incolume, ritrasse le gambe, pronto a balzargli addosso e a travolgerlo con la sua mole.
    Il druido non gliene diede il tempo: il pirogramma partì e andò ad impattare contro il mostro, che in prese fuoco in un’esplosione di fiamme, i cui guizzi investirono anche quello mutilato.
    Una raffica di fiamme azzurre seguì la detonazione e si aggiungero al fuoco del pirogramma.
    Ben presto, del Windigo più aggressivo non rimase che il corpo carbonizzato.
    Quanto all’altro, ferito gravemente, sanguinante, e spaventato da quello spettacolo pirotecnico e dalle scintille che gli erano balzate sulla pelliccia, se ne andò via a gambe levate, e fra, le fiamme e il dirupo, preferì quest’ultimo.
    Ovviamente non poteva aggrapparsi alle rocce e scalarle in quelle condizioni, quindi, andò a sfracellarsi nell pianoro sottostante.
    Il druido li osservò furente, poi spense le fiamme e divorò le loro anime.
    Emia, fece capolino dall’altro lato della vetta, impaurita.
    - Per colpa di quei dannati, ho sprecato un bel po’ di energia glifica. Questo ci complicherà le cose a Langskar. – dissi stizzito il druido.
    Lei si avvicinò timorosa.
    - Forse non sarei dovuta venire… Se non ci fossi stata, saresti semplicemente scappato nel regno spettrale e avresti evitato lo scontro.
    - Non dire così. – disse Asgarath calmandosi, dirigendosi verso di lei. – Te lo chiesto io di venire, no? Quindi non ti preoccupare, è tutto a posto.
    In realtà non lo era, ma Emia capì che il druido voleva rassicurarla e gli sorrise.
    Asgarath aspettò qualche minuto per calmarsi e distendersi i nervi dallo scontro appena avvenuto, e anche per permettere a lei di riprendersi dallo spavento.
    Non appena furono di nuovo in grado di viaggiare, spensero il falò, in modo da non attirare altre visite sgradite, si legarono nuovamente con una corda di riserva presa dallo zaino di Emia e iniziarono la discesa verso Langskar.

    Atto II Un aiuto inaspettato



    - Chi sei e che cosa fai qua? – disse con voce metallica il cavaliere dei sarafan al contadino, e non era un cavaliere come gli altri.
    Era infatti un cavaliere dei glifi di Meridian, con un lungo mantello viola, una sciabola dalla forma a mezzaluna, un guanto d’arme e grandi spallacci protettivi a ornargli la schiena.
    Il corpo era protetto da una spessa armatura simile ad un esoscheletro, e la bocca era bardata da una maschera, che per, l’occasione, era munita di speciali filtri.
    -M… Mi chiamo Louis e… Che cos’è? Sembra un tremito della terra. l’avete sentito anche voi? – rispose il giovane, sobbalzando.
    Il sarafan si guardò attorno per un attimo, poi scosse la testa.
    - Non ho sentito niente. Non prenderti gioco di me, villico. Perché ti trovi qua?
    - Mia… mia madre Katie sta molto male. Temo che abbia contratto il morbo, vorrei chiedere se posso portarla all’ospedale cittadino affinché le vengano prestate le cure necessarie.
    Il sarafan rise.
    Il contadino si spazientì.
    - C’è poco da ridere. Ha la febbre alta, tossisce sangue e fa sempre più fatica a respirare. Non so quanto reggerà.
    -Mi dispiace mio caro, ma siamo in quarantena, sai che vuol dire? Che nessuno entra ed esce da qua fino a nuovo ordine dei miei superiori. E ora sparisci. Se hai avuto contatti con quella vecchia, sarai malato tanto quanto lei. Fila via, appestato!
    - Cosa? Non è vecchia! Ha solo cinquant’anni! E non mi potete trattare così!
    Io pago le tasse come tutti gli altri contadini! E salate, anche! io…
    - Vuoi assaggiar la mia spada? – il cavaliere sguainò la sua “badlet” – Per l’ultima volta, vattene!
    Il contadino stava per aggredire il soldato, segnando così la tragica fine della sua vita, ma una mano grinzosa e trifida lo strattonò all’indietro.
    - Non ne vale proprio la pena, figliolo - disse l’esile figura dalla voce profonda. – Faresti meglio a dar retta alla guardia e andartene.
    Era uno strano monaco incappucciato, che nel frattempo era giunto alle porte della città con una giovane sacerdotessa, anch’essa vestita di saio e bardata di pesante pelliccia.
    Louis balbettò e tentò di reagire, ma quello strano prete era davvero forte, e riuscì a trascinarlo senza tante cerimonie, fra le sue lamentele e le sue proteste, lontano dalla guardia.
    I due strani monaci lo condussero in una stradina laterale, in cima ad un’erta salita ricoperta di brina, portandolo lontano dal sarafan, che, dopo aver osservato la scena senza capire, fece spallucce e tornò a montare la guardia, attendendo la carovana che sarebbe arrivata di li a poco.
    Sentendosi al sicuro, e fuori dalla portata di udito del soldato, il monaco e la donna lo lasciarono andare.
    Louis li guardò con rabbia il prete, e notò subito qualcosa di strano in lui.
    I suoi occhi non si vedevano nel cappuccio e nemmeno il viso, ma laddove vi erano le orbite vedeva uno strano luccichio che gli fece gelar il sangue dalle vene, poi osservò la mano che gli teneva il braccio, e vedendola così strana e diversa dalla sua, sobbalzo.
    - Ma… ma che diamine sei?
    Il sacerdote si limitò a fissarlo di rimando.
    - Un amico. Chi è che sta male?
    - Mia madre, Katie. – disse lui. – Dannazione, speravo davvero che mi avrebbero aiutato. Invece hanno messo il villaggio sotto quarantena! E adesso come faccio?!?!
    Asgarath lo guardò perplesso.Era passato tantissimo tempo e decenni da quella volta ma…
    - Aspetta un momento, hai detto Katie? Per caso, molti anni fa, quando era ancora una bambina, è stata salvata da uno strano essere blu che uccise gli Zephonim che avevano attaccato la sua fattoria e che la condusse ad Uschetenheilm?
    Louis guardò il monaco ad occhi sgranati.
    - Eh? E tu come fai a… Sapere… - balbettò.
    - Lascia perdere. – disse il monaco, dopo un attimo di pausa. La sua voce era molto triste, e anche seccata. - Dimmi invece, come faccio ad entrare a Langskar? Ci sono altre strade, a parte la porta sorvegliata?
    Il fattore lo guardò sconvolto.
    - Che cosa vuoi andare a far a Langskar?
    - Mah, non so, forse posso aiutare a risolvere il problema dell’epidemia. – sbottò l’interlocutore.
    Louis guardò l’enigmatico monaco.
    - Si può sapere chi siete?
    - Io sono uno studioso d’arti occulte, e lei è una guaritrice. – rispose il monaco.
    - Sono Emia. Lieta di conoscerti. – disse la fanciulla, facendosi stringere la mano.
    - Ti propongo un patto ragazzo. Emia è molto in gamba nelle arti curative. Posso affidarla a te. La condurrai alla tua fattoria e le permetterai di alloggiare da te. Lei si prenderà cura di Katie. Son sicuro che troverà il modo di tenerla in vita finché non ci sarà un’altra soluzione.
    - Aspetta un momento… Non vengo con te? – domandò la ragazza esterrefatta.
    Asgarath la guardò con tristezza,
    - Emia, Katie è… beh, è una mia vecchia amica. Mi addolerebbe molto se morisse. E lei ora ha davvero bisogno di qualcuno come te.
    - Ma tu come farai?
    - Non ti preoccupare, me la saprò cavare.
    - Scusate un attimo… lei… Lei può salvare mia madre? – domandò Louis, interrompendoli.
    - Senza averla prima vista non posso esserne sicura. Però penso di poterne ritardarne la morte il più possibile. Ho una certa esperienza in queste cose. – disse mesta la fanciulla, pensando alla perduta amata di Bleed e alla triste fine che aveva fatto un po’ di tempo addietro.
    - Sia chiaro, però. – incalzò il monaco, - Che mi devi promettere che tu e la tua famiglia la proteggerete e veglierete sulla sua incolumità anche a costo della vita, sono stato chiaro?
    - … Io non so chi tu sia ma… Forse lo posso comprendere. – disse l’uomo, osservando la strana figura incappucciata.
    - E che cosa credi che io sia? – domandò, Asgarath, con una punta di ironia, sforzandosi di nasconder le sue dita trifide.
    - Beh… diciamo che… gli amici di mia madre sono anche gli amici miei. Quindi va bene, te lo prometto.
    Il monaco annuì, lieto che l’uomo avesse capito, e sembrò davvero sollevato.
    Fortuitamente, aveva risolto due problemi diversi in un colpo solo: Emia sarebbe stata al sicuro, lontano dai Sarafan, e avrebbe anche avuto modo di rendersi utile, e una sua vecchia amica forse, non sarebbe morta inutilmente e barbaramente. .
    - Un’ultima cosa. Come faccio ad entrar a Langskar?
    - Ma… io non so… ci son altre due vie.
    - Erudiscimi.
    - Il villaggio è incassato nel Canyon. Noi siam nei pressi della porta ovest, ma come vedi, il ponte levatoio, i bastioni e il pesante cancello la rendono inespugnabile, per non parlare della barriera glifica. – disse il contadino, indicando le porte e lo strano baluginio verdastro che le ricopriva.
    Vi è quindi l’ingresso ad est, ma è parimenti sorvegliato.
    - Risalire i canyon?
    - Sono pareti a strapiombo. Non potresti mai buttarti dai cigli senza sfracellarti… e si dice che nei passi montani che conducono sulle vette vi siano creature orrende, mostri antropofagi e maledetti, coperti dal bianco vello, figli del gelo, che senton solo il dolore del fuoco…
    - Ah, già… Windighi, giusto?
    - Così li chiamano.
    - Altre vie?
    - Beh, vi sarebbe una cascata che scorre verso est, E che alimenta un ruscello che fa da affluente ad un fiume che si getta nel lago vicino ad Uschteneilm. Vicino si trova un vecchio mulino ad acqua che serve ad approvvigionare Langskar delle scorte idriche. È collegato all’acquedotto, e alla rete fognaria. Però i sarafan lo sorvegliano e…
    - Perfetto. I Sarafan non saranno un problema.
    - Eh?
    - Va’ con Emia ragazzo. Ogni minuto è prezioso e tua madre ha bisogno di voi. – disse il monaco, spingendolo delicatamente via.
    Il contadino lo guardò senza sapere cosa pensare.
    Emia lo prese a braccetto.
    - Dai, Louis! Portami a conoscere la tua famiglia - , gli disse, togliendosi il cappuccio e sorridendogli il più calorosamente possibile.
    Louis la guardò meravigliato, colpito soprattutto dai capelli color argento della fanciulla, candidi come la neve che ammantava quelle montagne.
    - Beh… ecco… E va bene. Andiamo.
    Asgarath salutò i due e li lasciò allontanare nella notte.
    Attese che fossero sufficientemente lontani, e che imboccassero una stradina laterale che costeggiava il canyon di ingresso a Langskar e che si inerpicava a nord, diretta alle fattorie.

    Stava per proiettarsi nel regno spettrale, ma un istante prima che evocasse il glifo di spostamento, successe qualcosa.
    Drizzò le orecchie e udì, in direzione della via fra i canyon da cui lui ed Emia erano giunti, Rumore di zoccoli e di cavalli al trotto, e sferragliare di carri, in avvicinamento.
    Senza pensarci troppo, prese un’altra stradina, che giungeva a sud e che si inerpicava anch’essa sulle pareti del canyon.
    Si issò con alcuni balzi su un paio di dislivelli, poi afferrò con le mani la nuda parete rocciosa, scalandola con gli artigli trifidi. Giunto sulla cima alla scarpata, si trovò a circa metà dell’altezza del canyon. Da lì si snodava un tunnel nella roccia che penetrava nella parete rocciosa, e dall’altra parte, un promontorio roccioso che si sporgeva verso l’esterno.
    Si incamminò lungo lo sperone roccioso e si acquattò, in modo da osservare lo scenario sottostante dalla sua sommità.

    In quell’istante, la carovana fece capolino, svoltando l’ultima ansa del canyon, e percorrendo la stradina, arrivò a Langskar.
    Vi erano fondamentalmente quattro susseguirsi di carri, ognuno scortata da quattro soldati sarafan di tipo diverso.
    Ogni sequela di carri era trainata da cavalli robusti e dal pelo folto, per difendersi dal freddo di quelle regioni, bardati con armature da guerra.
    La prima, portava medicinali, ed era protetta da arcieri dalle vesti blu, che fungevano anche da esploratori e che andavano in avanscoperta per avvisare di pericoli e trappole durante il viaggio insidioso.
    La seconda, scortata da fanti dagli abiti viola, e portava viveri.
    La terza, masserizie e vettovaglie, ed era difesa da spadaccini di rosso colore.
    Alla fine, la processione di cavalli e serragli era chiusa da due grandi carrozze, scortate da sarafan d’elite, zeloti armati di mazze, dalle verdi insegne e dagli elmi cornuti, e cavalieri dei glifi armati di spade runiche e armature di rivelazione.
    Dietro di loro, vi erano un paio di mercenari armati di balestre glifiche, che chiudevano la retrovie.
    Quanto al carico speciale per il quale vi era una simile scorta, beh, non si occupava di oggetti, ma di persone: la prima carrozza portava alchimisti provenienti dal quartiere industriale di Meridian, la seconda chierici della Fortezza Sarafan.
    Tutti quanti si erano formati e avevano studiato nell’Ateneo di Avernus, ed erano diventati scienziati e guaritori di fama, che poi erano finiti sul libro paga dei sarafan.
    Di fronte a quanto stava avvenendo a Langskar, essi erano stati mandati sia ad indagare, sia a trovare una soluzione.
    Quella missione non faceva certo piacere e quello non era un viaggio di villeggiatura, specie viste le condizioni in cui versava il mondo dopo l’agire scellerato che aveva compiuto l’Alleanza e la corruzione che aveva provocato dei Pilastri… o almeno questo era quanto diceva la propaganda dei loro superiori.
    Inizialmente, la loro spedizione non sembrava così tassativa.
    Quando apparvero i primi focolai, i Sarafan di stanza a Langskar mandarono una richiesta di aiuto, chiedendo la presenza di alcuni di loro, ma i loro superiori a Meridian liquidarono il problema come una faccenda di poco conto.
    Poi, il focolaio si era diffuso fino a contagiare e a far ammalare le stesse truppe dei crociati.
    Al che, la situazione era diventata più pressante.
    Quindi i Sarafan avevano seriamente ponderato il problema, e avevano sospeso ogni commercio da e con il villaggio, in modo da contenere il morbo.
    Poi avevano chiesto a questi luminari di intervenire.
    Ed essi,… Avevano rifiutato.
    Il loro orgoglio era pari al loro prestigio, e non gli importava granché di utilizzare le loro abilità di studiosi e guaritori per aiutare quattro villici.
    Allora, la situazione era andata avanti per un po’, e l’epidemia aveva continuato a dilagare.
    E così, se all’inizio aveva colpito solo le classi povere e meno abbienti, poi si era rapidamente diffusa anche ai banditi dei vicoli malfamati.
    Quelli che venivano arrestati e condotti in prigione l’avevano trasmessa ai soldati. Vennero quindi contagiati i comandanti e gli ufficiali la trasmisero a loro volta a nobili e mercanti.
    Ben presto, la catena di contagio aveva colpito ogni classe sociale e Langskar era diventato off limits.
    Fu così che il borgomastro locale, in un solenne comunicato, impose la quarantena a tutto il villaggio. Nessuno poteva più entrare e uscire.
    Tutto ciò non venne comunicato con una eclatante riunione pubblica su un palco del parlatorio, come avveniva di solito, ma con truppe di guardie che vagarono per tutte le strade e i vicoli, appendendo agli stipiti di ogni casa l’ordinanza civica firmata dalle autorità, e con banditori che veicolavano il messaggio a voce strillandolo nelle piazze e nelle strade, per farlo giunger alle orecchie anche di chi non sapeva leggere.

    Ovviamente, all’inizio, la gente non prese la cosa particolarmente sul serio, quindi parecchie persone se ne infischiarono allegramente, uscendo di casa.
    Chi ci provava veniva arrestato, altri contraevano misteriosamente il morbo, e le in molti casi, le loro condizioni diventano presto disperate.
    Quindi la gente si adattò a stare a casa, ma libri e passatempi finirono ben presto e così la tensione e il nervoso salirono a livelli esasperanti.
    Così, parecchie persone, in preda alla disperazione, desideravano fuggire e cambiar aria, a costo di affrontare i pericoli del mondo esterno.
    i trasgressori vennero presi e bastonati, ma anche quello non li fermò.
    Alla fine si scelse la punizione più drastica: chi non rispettava la quarantena sarebbe stato sepolto vivo assieme ai cadaveri delle vittime del morbo, in una cripta del cimitero del villaggio.
    Di fronte a tale orrore, dopo che tale sorte orrenda toccò ad alcuni bambini colpevoli solo di aver avuto la colpa di giocare in piazza, avvenne una sommossa, ma poi, ripristinato l’ordine col sangue con la spada, la gente si rassegnò ad accettare le direttive.
    E da allora, Langskar era divenuto un villaggio fantasma.

    Dal suo punto di osservazione, Asgarath comprese tutto questo dalle parole del capitano che conduceva la carovana e della guardia che poc’anzi aveva minacciato Louis, e che riferiva la situazione a lui e agli scienziati che ora erano scesi dal carro.
    Per poter vedere e comprendere tutto, si era pericolosamente sporto in avanti, tanto da doversi dondolare alla parete rocciosa, aggrappando per una mano trifida.
    Confuso nell’oscurità e fra le ombre delle rocce, era abbastanza lontano da non farsi scoprire dalle rune dei cavalieri dei glifi che ora montavano la guardia, mentre, le altre truppe, dopo aver abbassato il ponte levatoio, iniziarono a scaricare i vari viveri e oggetti trasportati per metterli al sicuro nei magazzini della vicina guarnigione.
    Come faceva il druido a comprendere tali discorsi, data la distanza?
    Semplice. Leggeva le labbra degli interlocutori grazie alla sua acutissima vista da mietitore.
    Non riusciva ad afferrare proprio tutto tutto, ma comprese il senso del discorso.
    Scosse la testa corrucciato. La situazione era peggio di quanto pensasse.
    Aveva appreso abbastanza, ed era ora di muoversi.
    Stava per risalire la cengia, soppesando l’idea di penetrare nel tunnel roccioso per poter trovar qualche galleria sotterranea che lo conducesse sulla sommità delle pareti del canyon.
    Da lì, avrebbe potuto facilmente superare le mura e le barriere glifiche, ed esplorare Langskar saltellando sui tetti del villaggio.
    Purtroppo, successe un imprevisto che mandò all’aria tutti i suoi piani: in quel momento
    la terra tremò, facendolo sobbalzare.
    Colto di sorpresa, egli perse l’equilibrio e capitombolò di sotto.
    Da lontano, i sarafan videro la sua figura tombolare goffamente dalla parete rocciosa e ne furono sorpresi e allarmati.
    Prima che intervenissero però, si udì un sonoro boato e tutti quanti gridarono dal terrore: una grande valanga di neve e ghiaccio si riversò dai pendii sovrastanti ammantati di neve.
    Ad essa seguì una frana di rocce e detriti: lo sperone roccioso si staccò dalla parete e si precipitò dabbasso, rovinando con buona parte del costone meridionale.
    In pochi istanti, tonnellate di rocce, neve e ghiaccio ostruirono il canyon completamente.
    La frana non colpì i sarafan e non seppellì nessuno, ma sollevò un tale polverone e una tale quantità di nevischio da avvolgere tutto quanto in una grigia caligine.
    Dopo i primi momenti di grida, strepiti e imprecazioni, i maghi e i sapienti provenienti da Meridian si precipitarono a controllare che il carro che conteneva le pozioni e le attrezzature necessarie per compiere il loro lavoro nei laboratori fosse integro, poi ordinarono subito ai soldati e al capitano della loro scorta di guidare i carri all’interno della sicurezza della mura, prima che avvenissero altri crolli.
    Egli non se lo fece dire due volte: ordinò ai mercenari di sparpagliarsi in due gruppi: uno doveva presidiare il canyon e controllare i detriti, per valutare quanto grave fosse stata l’ostruzione dell’unica strada percorribile. Dovevano anche accertare che accidenti fosse successo, se era stato un evento naturale o intenzionale.
    Soprattutto, dovevano acchiappare la misteriosa creatura incappucciata che avevano visto tombolare dabbasso poco prima del patatrac, che, sicuramente, ne sapeva qualcosa!
    Mentre loro eseguivano tali ordini e i sarafan calmavano e riprendevano il controllo dei cavalli imbizzarriti, il capitano e la guardia abbassarono il ponte levatoio. Alzarono la saracinesca di metallo e disattivarono la barriera glifica in modo da far entrare la carovana all’interno di Langskar in fretta e furia.
    Fatto ciò, la scorta e gli scienziati scomparvero dietro l’imponente bastione.
    La saracinesca metallica del cancello che bloccava la strada venne quindi nuovamente abbassata, il ponte levatoio che superava il fossato pieno d’acqua sottostante, alimentato da una gelida cascata vicina, venne alzato, e la barriera glifica riattivata.
    Frattanto, i mercenari raggiunsero la slavina e imprecarono pesantemente.
    - Dannazione! Tonnellate di macigni! Ci vorranno mesi di lavoro per sgomberare la strada! E adesso? – disse un mercenario armato di balestra glifica.
    - Chi se ne importa, problemi delle autorità del villaggio! Noi dobbiamo solo riferire che questa via è completamente inagibile. Penseranno loro a decidere che soluzioni adottare a riguardo. – disse il vecchio mercenario a capo della truppa.
    - Massì, hai ragione. Larsa, trovato niente? – domandò il balestriere, ad una donna dall’armatura color cobalto, armata di spada runica sacra e di balestra.
    Lei scosse la testa.
    - Solo un saio da prete. – disse lei, tenendolo in mano.
    - Un… saio da prete?
    - Non so che dire, capitano. – gli rispose, tendendogli la veste.
    - Le rune della mia spada tacciono, quindi qualunque cosa fosse, è scomparsa
    Il capitano, un sarafan armato di due kamas infuse di magia sacra, dalla tunica verde e dall’elmo cornuto, si accigliò.
    - È troppo strano. Se fosse stato un umano, sarebbe morto o si sarebbe spezzato il collo.
    - Capitano Horace, che cosa sospettate? – disse la donna al capitano.
    - Se è un vampiro, potrebbe essersi tramutato in nebbia. In quel caso, dobbiamo tenere gli occhi aperti, potrebbe esser nei paraggi. Se invece è un demone, o uno di quei dannati mietitori… abbiamo un problema più serio. Mantenete la sorveglianza e informatemi di ogni novità. Gheor, vai a riferire la situazione.
    - Sissignore! – il balestriere corse verso le porte del villaggio, mentre il resto dei cacciatori rimase lì allerta.

    Atto III La fattoria di louis





    Mentre alle porte di Langskar si consumavano tali fatti, Louis accompagnò Emia fino alla fattoria che si trovava fuori città. Non fu certo in viaggio agevole, in due da soli, nel buio della notte, fra il vento e il gelo. Parlarono ben poco e procedettero rannicchiati, per difendersi dal gelo e dalla neve incalzante.
    All’inizio del tragitto, sentirono un rumore, un rombo, un boato che fece tremare la terra.
    - Che è stato? Veniva da Langskar! – chiese il contadino, allarmandosi.
    Emia comprese che forse Asgarath aveva già iniziato a danzare con i sarafan.
    - Ehm, niente dai. – disse, sorridendogli tentando di dissimulare. – Continuiamo la strada, piuttosto. Quanto dista la tua fattoria ancora?
    - Poco. Un paio di miglia. È in una piccola conca alla fine di quest’altura – disse, indicando il viottolo che stavano salendo nella neve.
    - Affrettiamoci, allora.
    - Sei una ben strana tipa, Emia. Sicura che non mi stai nascondendo qualcosa? Non sarai una banshee o qualche creatura strana?
    Emia si finse scandalizzata.
    - Io, una banshee? Ah ah, oddio no! Però…
    - Però…
    - Ecco, la verità è un po’ lunga da raccontare. E adesso non c’è tempo. Tua madre sta male. muoviamoci.
    - Spero che poi ti deciderai a scioglierti la lingua. – disse lui, scuotendo la testa.
    Emia lo bloccò per un braccio-.
    - Louis. Ti sto dando la mia fiducia. Non ti conosco, ma credo davvero che tu abbia bisogno di aiuto. Ti sei fatto quasi ammazzare aggredendo un sarafan. Se non era per il mio amico… Insomma, penso che tu sia davvero disperato. Sai combattere?
    - Beh, non sono un soldato, ma credo di sapermi difendere abbastanza bene.
    - Io invece non so nemmeno tener in mano un pugnale. Sto mettendo la mia vita nelle tue mani e sotto la tua protezione. Fa’ lo stesso con me.
    Louis la guardò con imbarazzo.
    - Scusami, hai ragione. È solo che … pensavo davvero di trovar aiuto al villaggio… Invece…
    Emia gli sorrise. – Di che ti lamenti? L’hai trovato.
    Louis chinò la testa, e per un breve istante, un sorriso abbozzò anche sul suo volto.
    - Muoviamoci.

    Passò un’oretta, e iniziarono ad aver i primi segni della stanchezza. Anche se Louis era armato di torcia, che brandiva sia per rischiarar la strada che per tener lontani i Windighi, non era facile muoversi contro il gelido vento di quella notte.
    Si strinse più forte nel suo mantello, ed Emia fece lo stesso con la sua pelliccia.
    - Coraggio, siamo quasi arrivat…
    In lontana, si sentì un ringhio sommesso.
    Emia si voltò spaventata. Un’altra di quelle creature? Ma quante erano?! Come avevano fatto a proliferare così tanto?
    Louis la prese per mano e accelerò il passo, inquieto. Lui non se ne accorse, ma Emia recitò sottovoce un piccolo mantra che i maghi sarafan erano soliti usare per benedire l’ambiente attorno a loro.
    In tal modo, le creature empie e malvagie si sarebbero tenute alla larga.
    Fortunatamente, anche se Emia era un po’ arrugginita in questo, l’incantesimo di protezione aveva funzionato: nonostante la paura di trovarsi addosso uno dei mostri che prima lei e Asgarath avevano incontrato sull’Erebus, non vennero aggrediti.

    Giunsero così in cima all’altura e finalmente Emia vide la vallata imbiancata sottostante.
    Vi era la fattoria, ed era… beh era fattoria: il muro di cinta, una stalla, un ovile, un orto coltivato a patate, un meleto che stava facendo i primi fiori in vista del disgelo che sarebbe arrivato di lì a poco, un recinto per i cavalli.
    La malga era piccola ma accogliente, col tetto di tegole imbiancate. Dal camino, usciva un po’ di fumo, e le luci soffuse delle candele rischiaravano l’interno dalle finestre.
    Emia la guardò. Era un piccolo rifugio caldo e accogliente.
    - Ma è bellissima! Ma… Come mai non hai usato i cavalli per venir a Langskar? Hai una stalla…
    Loius scosse la testa.
    - Tasse. Non avevamo più denaro per pagare i dazi che i sarafan impongono a me e ai miei colleghi per la loro “protezione”, e così si son presi i miei cavalli come risarcimento del danno.
    - Mi dispiace.
    Emia si rabbuiò. Tanto più conosceva l’ordine a cui un tempo era appartenuta, e tanto più era disgustata da ciò che era e faceva, rispetto a quel che invece sarebbe dovuto essere.
    - Non dispiacerti. Ho già visto che razza di mostri sono. San solo prendere e non sanno dare. È che dipendiamo da loro per la difesa dai Corrotti e dalle creature delle tenebre… Se così non fose credo che la popolazione di Nosgoth sarebbe già insorta…
    Intanto che parlavano avevano raggiunto il muro di cinta.
    Loius si diresse al cancello di ferro battuto, ne fece scattar la serratura con un chiavistello, e accompagnò Emia fino alla porta.
    Bussò. – Sono tornato.
    - Sei tu, Louis? – disse la voce di un altro uomo.
    - No, tuo fratello. Apri, Jeff.
    Si sentì l’armeggiare e lo scattare di una serratura e la porta si aprì.
    Un uomo robusto, di mezza età, con una folta barba bruna e gli occhi neri lo accolse.
    - Era ora che tornassi. Mamma è peggiorata. Lei chi è? Non dovevi avere aiuto dai sarafan? Credevo che la gente di Langskar ci avrebbe dato qualche cura, che sarebbe venuto un medico, che …
    - Da Langskar non avremo nessun aiuto. Hanno dichiarato la quarantena. La guardia del cancello mi ha quasi tagliato in due. Se non era per lei e per un suo amico…
    - Mi chiamo Emia e sono una guaritrice, onorata. – disse lei, tenendo la mano a Jeff con un sorriso.
    Lui la strinse titubante, osservandola esterrefatto.
    - Una guaritrice… .
    - Conducimi da tua madre.
    Lui non se lo fece dire due volte.
    - Non so chi tu sia o se sia vero, ma se è vero, forse sarai la nostra salvezza. Andiamo. È al piano di sopra.
    I tre entrarono in casa, e la porta si chiuse alle loro spalle con un tonfo.

    *** Intanto, alle porte di Langskar… ***



    Quando il druido si era visto franare addosso la parete rocciosa, non aveva certo esitato.
    Sebbene intontito e contuso dalla brutta caduta, fu comunque abbastanza lucido da proiettarsi nel Regno Spettrale prima di venire avvistato dai cacciatori di vampiri e di esser costretto ad uno scontro sanguinario che gli avrebbe quasi sicuramente precluso ogni possibilità di entrare.
    Così, una volta giunto nel regno delle ombre, diede la caccia ad uno Sluagh che consumò per rigenerare le ferite che l’avevano azzoppato, poi constatò l’entità della frana.
    Scosse la testa.
    Meno male che Emia e Louis ormai erano lontani.
    Se li avesse sepolti vivi, non se lo sarebbe mai perdonato.
    Era chiaro, comunque, che di lì nessuno sarebbe più potuto passare per parecchio tempo.
    Il che voleva dire che Emia non avrebbe nemmeno potuto raggiungerlo facilmente in caso di necessità.
    Conclusione: avrebbe dovuto trovar un’altra strada per garantire loro il futuro ingresso a Langskar.
    Il druido non sapeva bene come risolvere la situazione.
    Fronteggiare da solo un’intera epidemia? E come avrebbe potuto debellarla?
    Non era un guaritore, e nessun mago era così potente da far una cosa simile. Non ci sarebbe riuscito un Guardiano, figurarsi un contadino!
    L’unica cosa che poteva fare era indagare a riguardo, scoprendo tanto più possibile sul morbo.
    Per prima cosa, però, doveva far una perlustrazione del villaggio.
    Così si mosse e in men che non si dica giunse al portone sbarrato.
    Il fossato era dinnanzi a lui e il canale colmo d’acqua gelida scorreva davanti ai suoi piedi.
    Tripla protezione: ponte levatoio, saracinesca, e barriera glifica. Come poteva mai entrare? Le pareti rocciose erano lisce e a strapiombo e non c’erano altri appigli.
    Inoltre, il fondo di quel piccolo canyon era completamente privo di portali.
    Si rese conto che la frana l’aveva sfortunatamente intrappolato.
    Stava ancora meditando, inquieto, sul da farsi, quando notò una cosa: le ruote dentate e le leve che azionavano il ponte levatoio si erano mosse.
    Il ponte di legno iniziò a calare lentamente verso di lui, sorretto da lunghe catene, ed egli iniziò ad intravedere le due difese poste subito dietro: saracinesca e barriera.
    Perché i sarafan stavano abbassando il ponte? Oh, ovvio! Per far entrare la carovana, che sciocco che era!
    Non si era ancora ripreso del tutto dal tonfo di prima.
    Si scrollò la testa per snebbiarsi le idee e attese il momento propizio, pronto a scattare.
    Non appena il ponte fu completamente abbassato, vi corse sopra fino alla saracinesca metallica.
    Attese pazientemente che la barriera glifica venisse disattivata.
    Perché lo facevano? Perché spegnere quella importante protezione? Beh, vi erano diversi tipi di barriere glifiche: quella era una barriera repulsiva a Glifo di Forza.
    Prima, quando avevo fermato la collera di Louis, il druido l’aveva riconosciuta come tale dal tipo di rune che emetteva nel suo baluginio.
    Se fosse stata una barriera di Suono o di Luce, sarebbe stato un grosso guaio: non essendo forze materiali, potevano tranquillamente restar in funzione e permettere il passaggio di persone e oggetti solidi. Quel tipo di barriere, infatti, servivano sostanzialmente come dissuasori: se un vampiro oltrepassava quelle soniche, emettevano suoni lancinanti, che avevano il duplice scopo di stordirlo e di allertare le guardie.
    Da canto loro, le barriere di luce erano le più temibili, perché qualunque vampiro che non avesse resistenza a tale elemento si sarebbe incenerito al solo toccarle. Inoltre, quel tipo di barriere potevano smascherare anche vampiri dotati di abilità di occultamento o di disguise, rivelandogli per quel che erano davvero.
    Quelle di Forza, Pietra, Acqua e Fuoco, invece, erano barriere di tipo fisico.
    Se gli umani le volevano oltrepassare dovevano esser disattivate perché, se si attivavano erroneamente, potevano esser pericolose anche per le persone o per gli oggetti in transito.
    Ad esempio, se avessero lasciato alzata quella di forza avrebbe respinto non solole persone, ma anche i carri e chiunque cercasse di entrare nel villaggio, con risultati a dir poco comici.
    Insomma, da qua la fortuna del druido.
    Asgarath attese pazientemente dinnanzi al suo luccichio, stando attento a non toccarla.
    Ci volle un po’ ma alla fine il campo di forza si affievolì, lampeggiò un’ultima volta, e poi si spense.
    “Ora o mai più.” Pensò il druido, nel silenzio del regno spettrale.
    Non attese nemmeno che la saracinesca in ferro battuto venisse alzata: premette il suo corpo spirituale contro le sue sbarre e usò il dono di Melchiah per passar attraverso la spessa cancellata.
    Prese subito a correre oltre e superò le porte e si ritrovò, finalmente, all’interno del villaggio.
    Solitamente, nelle grandi città avrebbe dovuto risolvere anche il problema di una seconda cancellata interna, e magari anche di relativa barriera, ma quello era un piccolo villaggio sperduto nelle montagne.
    La presenza dei sarafan era relativamente recente, pertanto non avevano avuto né modo, né tempo, né motivo di allestire misure di sicurezza di alto livello.
    Il fatto che per difenderlo da vampiri e creature oscure avessero installato alle sue porte barriere glifiche del tipo più economico, dimostrava sia la loro relativa scarsità di mezzi, sia la grande fretta con cui le avevano erette, probabilmente, allo scopo di migliorare le misure di sicurezza stabilite con la quarantena.


    Atto IV Il canto dei morti

    Asgarath si mosse con circospezione in quel paesaggio surreale: nel regno spettrale le casette in stile teutonico di Langskar, che ricordavano parecchio quelle della vecchia Uschtenheilm visitata da Raziel nel suo viaggio alla scoperta del passato di Nosgoth, divennero curvilinee: i tetti erano stranamente curvi ed estroflessi verso l’alto, creando un panorama quasi astratto, degno di un quadro postmoderno. Anche le mura delle abitazioni erano ripiegate su se stesse, rendendo le case buffamente ingobbite.
    Sarebbe stato un bel problema se fosse morto in battaglia e se fosse stato costretto a rimaterializzarsi dentro una di esse.
    Muoversi all’interno di simili forme architettoniche così distorte non sarebbe stato esattamente facile.
    Il druido continuò l’esplorazione e, nella diafana luce blu-verdastra di quel mondo, udì un mormorio, una sorta di litania sommessa.
    Si avvicinò più cautamente e giunse ai bordi della piazza centrale del villaggio.
    Vide una moltitudine di spiriti come non ne aveva visto dai tempi dell’attacco alla fortezza di Nevar: figure umanoidi azzurrine, scheletriche, diafane, di vecchi, donne, uomini e, perfino bambini, probabilmente, quelli massacrati dai sarafan per aver violato il coprifuoco.
    Erano decine, forse un centinaio.
    Le figure più pallide ed emaciate appartenevano ai fantasmi di uomini anziani, ed erano decisamente più numerose delle altre. I bambini, piccole animelle spaurite, erano pochissimi.
    Assieme ai vecchi, danzavano attorno al portale collocato ai piedi di una grande fontana, che si trovava al centro esatto della piazza, e che era collegata allo stesso acquedotto cittadino.
    Chiaramente, quella era la principale fonte di approvvigionamento d’acqua per tutti gli abitanti di Langskar.
    Avvicinandosi, sentì finalmente il coro degli spiriti sempre più chiaramente.
    “Misericordia! Misericordia! Pietà! Pietà! Pietà!”
    “O Unico dio, mozzo e signore della ruota e di tutte le anime! Aiutaci a trovar la pace!”
    “O Unico dio, manda i tuoi servi e riconducici alla ruota!”
    “O unico dio… “e la solfa continuava.
    E come a risponder alla loro chiamata, ecco che vari arconti si calavano dal cielo, affamati, e che, implacabili, mietevano gli spettri e li risucchiavano a sé.
    Di solito le anime fuggivano terrorizzate alla vista di quei mostri, ma quelle invece.. Vi si gettavano addirittura a capofitto! Possibile che il dolore le avesse sconvolte così tanto da tentare il suicidio ultimo?
    Mentre il druido rifletteva sconcertato, gli Arconti lo videro e due di loro si diressero verso di lui.
    - Buoni! Non sono uno di questi disgraziati! – disse facendo apparire la lama spettrale.
    Come tutta risposta uno di loro lo caricò con un’agile falcata, cercando di catturarlo con la zampa raptatoria.
    - A cuccia, ho detto, sciacalli! – il druido balzò di lato e vibrò un colpo della spada, tranciando l’arto del Reaper.
    Prima ancora che la creatura reagisse, il druido vi balzò addosso, si aggrappò al suo corpo medusoidi e la tempestò di fendenti roteando su se stesso, fino a dissolverla.
    L’altra arconte, vedendo tale spettacolo, scappò via a tentacoli spianati, non avendo nessuna intenzione di ripetere quell’esperienza.
    Svolazzò fino alla sommità dei tetti della città e osservò pavidamente il druido, assieme ai suoi simili, incerti sui da farsi.
    - Ecco, vedo che avete capit… Oh, Ohimé.
    Gli spiriti delle persone morte si erano radunati tutti a lui. E sembrava che non fossero per niente felici di esser stati salvati.
    Iniziarono a girarli attorno, in un modo tutt’altro che rassicurante.
    - Chi sei? – mormorarono all’unisono. – Perché attacchi i nostri liberatori?
    - Quelli non sono dei liberatori, vi condannerebbero soltanto alla dannazione eterna! Piuttosto, voi chi siete?
    - Noi… noi vivevamo qui…
    - Vivevamo…
    -Vivevamoooooo – gemettero, in un misto di grida e pianti.
    Il druido comprese.
    - Siete le persone uccise dal morbo, vero?
    Loro lo guardarono attoniti.
    - Sìiiii… Ma tu… chi sei? Sei qui per liberarci?
    - Liberarvi?
    - Noi… siamo bloccati… qui. Non per nostra volontà. Qualcosa ci trattiene. Una forza… un potere…
    - E da dove viene questo potere?
    - Dabbasso… dalle nostre membra… - gemette uno spirito.
    Il druido lo guardò senza capire.
    - Liberaciii! – incalzò il fantasma, senza dar altre spiegazioni.
    - Ed è per questo che chiamavate gli arconti? Per liberarvi?
    - Siiiiì…
    -Mmm. Non so cosa intendiate, ma deve esser connesso a quel che sta avvenendo qua, al modo in cui lo spazio sembra distorto…
    A quelle parole. Il druido comprese che, qualsiasi cosa avesse originato il morbo, era frutto di una magia molto potente, probabilmente di origine negromantica… o peggio.
    - Sentite, io posso aiutarvi, ma voi dovete aiutare me, ho bisogno di…
    In quel momento, gli spettri si voltarono, e urlarono atterriti.
    Scapparono tutti via, disperdendosi e nascondendosi dentro le stesse ombre delle case in cui avevano vissuto, in un fuggi fuggi generale.
    Il druido comprese subito perché: tutti gli arconti della piazza, una dozzina in tutto, dopo aver emesso i loro versi striduli e comunicato fra di loro, si erano accordati sul far fronte comune contro di lui e ora portavano l’attacco.
    Anche se era un Paladino, era comunque uno scontro impari.
    Così, scagliò qualche proiettile cinetico per intimidirli, poi , in assenza di alternative, si buttò dentro la fontana, dove si trovava il portale, e richiamò a sé la materia.
    Sperava solo che in quel momento la piazza fosse deserta.
    Ma in fondo, era mezzanotte! Chi mai poteva esserci, durante una quarantena?
     
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    QUARANTENA: PARTE SECONDA.

    Atto V: Ian


    Nessuno si curava del vecchio Ian.
    Come tutte quelle dell’ultima settimana, anche quella per lui sarebbe stata in bianco.
    Non c’era nessuno nella piazza centrale del villaggio in cui era cresciuto e aveva trascorso la maggior parte della sua vita.
    Usciva solo la sera, per compiere le sue ricerche quando le guardie non erano presenti e la piazza era completamente vuota.
    Aveva scoperto qualcosa di strano nell’acqua che veniva erogata al villaggio.
    Così stava compiendo varie ricerche in merito, prelevandone periodicamente dei campioni.

    Era proprio lì che stava riempiendo fiale e otri del prezioso liquido nella fontana, quando sobbalzò terrorizzando lasciando cadere il suo argentario, di fronte alla strana figura incappucciata che gli apparve dinnanzi.
    Sia lui che Asgarath sobbalzarono spaventati a trovarsi l’uno di fronte all’altro in quel modo, ed entrambi balzarono indietro. Nessuno se l’aspettava.
    - Oddio… C-che cosa sei? – guaì, arrancando all’indietro fino quasi a sbattere la schiena contro il muro della casa dietro di lui.
    La strana creatura gli fece un gesto di indugio.
    - Calma, vecchio. Non sono qua per farti del male. Ti prego, non dare l’allarme. Non costringermi a neutralizzarti per avermi visto. – nel sussurrare queste parole, la mietitrice di luce baluginò per un attimo nel suo braccio destro, e il fuoco azzurro nella mano sinistra.
    Dalla lama si sprigionò una luce calda, rassicurante e piacevole.
    Alla vista di quell’incredibile prodigio il vecchio si calmò.
    Non era più spaventato. Era meravigliato.
    Raccolse da terra gli occhiali che gli erano caduti e se li inforcò sul naso, osservando meglio lo strano essere.
    - Non, non preoccuparti, creatura. Non ho nessuna intenzione di dare l’allarme. T.. Ti chiami Asgarath, per caso?
    Asgarath si rilassò alla prima affermazione, ma si sorprese nel sentire la seconda.
    - Come fai a conoscermi? – domandò esterrefatto.
    Il vecchio si avvicinò cautamente fino quasi a toccare l’anziano mietitore.
    -P… Posso? – disse porgendo la mano verso le fiamme azzurre.
    - Fa’ pure. Non credo che a te farà danno alcuno.
    Ian sfiorò con un dito la fiamma druidica, e subito lo ritrasse. Non aveva sentito nessun dolore.
    Solo un lieve formicolio.
    Si guardò la mano. Non aveva nessuna bruciatura, anzi, provava una sensazione di calma assai maggiore di prima, come non ne sentiva da molto tempo.
    - Mai… mai avrei creduto di vedere una delle strane creature blu che dimorano i Pilastri… E mai avrei pensato di conoscere proprio te, il druido… Gli dei hanno ascoltato le mie suppliche, finalmente! - disse il vecchio, con voce rotta dalla commozione.
    - Siamo così famosi? – disse il druido, spegnendo la spada e facendo svanire il fuoco azzurro.
    - Le notizie delle vostre gesta sono note in tutta Nosgoth. Aiutami a raccogliere le mie attrezzature. Dobbiamo levarci di torno, prima che passi la ronda. – disse il vecchio, per niente intimidito, iniziando ad affannarsi per recuperare le sue cose.
    Asgarath fu colpito da quella strana richiesta.
    Si guardò attorno circospetto, ma fortunatamente, nessuno li aveva visti e uditi.
    Le guardie erano ancora lontane, e in ogni caso, non compivano molte ronde notturne, perché temevano anche loro di contrarre il morbo nonostante le protezioni e le armature-esoscheletro di cui disponevano.
    - Che cosa stai facendo? Chi sei? – gli domandò, chinandosi a prendere gli oggetti che erano scivolati all’anziano, che prontamente, gli afferrava e gli infilava in una borsa a tracolla. .
    - Ian, erborista. Ero il guaritore e il medico del villaggio prima dell’insediarsi dei sarafan.
    - Io… beh, l’hai capito. Sono Asgarath, il druido al servizio dell’Alleanza.
    ian lo guardò con ammirazione, mormorando il suo nome.
    Si riscosse a forza e gli sorrise.
    - Non sai quanto sono felice di vederti qui. Vieni, andiamo a casa mia. Potremo parlarvi tranquillamente.
    Il druido era un po’ titubante.
    Non sapeva se fidarsi di quello strano uomo appena conosciuto.
    Inoltre, non gli piaceva il modo in cui distorcevano le case di Langskar nel regno spettrale. poteva essere davvero … problematico se fosse stato costretto ad usar il glifo dello spostamento, o fosse stato abbattuto dentro una di quelle piccole dimore.
    Ian lo guardò e sembrò intuire la sua esitazione.
    - Sei qui per indagare sul morbo vero?
    - Beh… sì?
    Ian si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
    - Devi fidarti di me, druido. Io so cose che nessun altro in questo villaggio sa. Cose che possono aiutarti. Non ti devi preoccupare. Non dirò a nessuno che sei qua, e nessuno viene a cercarmi nella mia abitazione. La gente è segregata in casa, e non esce.
    Quanto ai sarafan, loro credono solo che io sia solo un vecchio pazzo…. E io glielo lascio credere.
    - Beh, ecco, io… insomma…
    - Sapevo che eri un saggio! Tieni, portami l’otre. Non versarla. È importante. - il vecchio gli strizzò l’occhio, gli lanciò l’otre contenente l’acqua che aveva raccolto dalla fontana e poi fece strada, senza manco aspettare oltre, sgattaiolando fra i vicoli.
    Asgarath prese al volo la bisaccia, la mise in una tasca del suo mantello e lo seguì.

    Lo strano duo si mosse furtivo per le vie e i vicoli del piccolo villaggio, sgattaiolando lungo viuzze e stradine secondarie e spazi angusti, passando sotto ponti e arcate, lungo viottoli e androni che conducevano ad una piccola casa scalcinata e semidiroccata sita dabbasso, in fondo ad una scalinata, sullo slargo alla fine di una piccola stradina.
    Ian armeggiò col catenaccio, mentre Asgarath guardava che non vi fosse attorno anima viva.
    Il vecchio aprì ed entrò.
    Come il druido fu dentro, Ian chiuse silenziosamente la porta e serrò nuovamente i chiavistelli della serratura.
    Prese quindi un cerino da un cassetto lì vicino, accese un candeliere e lo poggiò sopra un ripiano.
    Asgarath si guardò attorno.
    Erano in un ambiente piccolo, disordinato, ma accogliente, in cui si respirava un forte odore di legno e muffa, mescolato a quello di unguenti e profumi.
    Non vi era granché: una sala da pranzo con un tavolino rustico dalle gambe inclinate, un caminetto semiacceso con sopra della legna, un calderone sorretto da un supporto di metallo, in cui bolliva ancora una strana mistura, e una piccola cucina.
    L’anziano lo condusse nel corridoio e da lì alla scala che portava al piano di sotto.
    - Sopra c’è la mia camera da letto e lì non c’è niente che penso che possa interessarti. – esordì. – ma sotto.. oh, sotto… vedrai.
    Asgarath lo seguì, curioso, fino allo scantinato.
    Raggiunsero una porta sbarrata, sul quale era raffigurato un bastone caduceo.
    - Il simbolo del mio ordine – disse lui orgoglioso.
    Vi appose la mano sopra e recitò alcune parole magiche.
    Il bastone si rischiarò di luce dorata e la porta si sbloccò.
    I due entrarono e si trovarono all’interno di un piccolo laboratorio, attrezzato di tutto punto, con alambicchi, pozioni, scaffali, libri e perfino un rudimentale microscopio.
    Ian depose il suo armamentario e si fece restituire la bisaccia. Poi prese una sedia e vi si afflosciò stancamente.
    Asgarath si accomodò a sua volta, un po’ timidamente in una sedia vicino.
    Non sapeva perché, ma c’era qualcosa in quell’uomo, che lo spingeva davvero a fidarsi di lui. E non era solo il fatto che, come medico del villaggio, poteva esser forse l’unico a dargli risposte.
    Il vecchio si massaggiò stancamente la fronte, increspando le folte sopracciglia bianche.
    Aveva un volto vissuto, pieno di rughe e segnato dalle preoccupazioni.
    Era chiaro che aveva trascorso parecchie notti insonni: profonde occhiaie gli segnavano il viso, e la barba era sfatta e incolta.
    - Non sembri stare molto bene. – osservò il druido.
    - Scusami, sono molto stanco. Sto cercando una soluzione per questo problema, e passo le notti in bianco nel tentativo di riuscirci.
    - Se mi spieghi che cosa sta succedendo qua, forse potrò aiutarti. Incominciamo da te. Chi sei, esattamente?
    - Solo un povero vecchio, Asgarath. Ma lascia che ti racconti quello che ero prima. C’è una storia che tu devi conoscere…
    Ian si lasciò andare ai ricordi e la sua voce bassa e cadenzata risuonò nella stanza.
    Egli iniziò il discorso con una breve dissertazione di tipo tecnico.
    - Perché io possa aiutarti, è bene prima che ti insegni alcune cose.
    Da quando esistono gli uomini, vi è sempre stata la necessità di porre rimedio e sollievo alle sofferenze e alla malattia della carne.
    La medicina di Nosgoth, sostanzialmente, combatte i morbi in tre vie: una, è quella esoterica: la magia bianca dei Chierici dei sarafan può facilmente annullare i veleni e stabilizzare funzioni vitali o stimolare la rigenerazione delle ferite.
    L’ordine possiede anche medici e chirurghi, buoni a curare varie affezioni e a compiere interventi di facile e media complessità, con buone possibilità di successo, a patto di aver a disposizione ambulatori e ambienti adeguati.”
    Asgarath fu ammirato dalla sua sapienza.
    - Sei molto erudito. Vai avanti.
    - Poi vi è il filone farmacologico. Questo è rappresentato soprattutto da alchimisti, che, recentemente, grazie al progressivo svilupparsi della tecnologia dei glifi, hanno a disposizione metodi sempre più avanzati per usare tale energia arcana per plasmare e rimodellare reagenti.
    Uori animali, linfa ed estratti vegetali, minerali e composti chimici; da tutti questi estratti possono esser facilmente prodotte numerose sostanze che ancora oggi costituiscono la principale arma dei medici di Nosgoth. Immagino che tu ti sia imbattuto nella carovana, poc’anzi.
    - Quella che c’è alle porte del villaggio? Sì, ho avuto modo di scorgerla. Poi è franato tutto…
    - Già, ho sentito il rombo.
    - Da dove vengono?
    - Da Meridian. I sarafan hanno molti sapienti e alchimisti nel loro libro paga, tutta gente che si è formata nel grande ateneo di Avernus. Tutti loro appartengono alla seconda fazione ideologica.
    I sarafan pensano che loro potranno contrastare il morbo con la loro sapienza alchemica.
    Non sono sicuro che ci riusciranno, perché è una malattia alquanto singolare.
    - Che intendi dire?
    - Prima lasciami finire. Esiste un ultimo tipo di medici, e io appartengo a quest’ultima società ermetica.
    vedi, io faccio un lavoro che ho ereditato da mio padre, così come lui dal nonno.
    Siamo medici e guaritori da molte generazioni.
    Noi non crediamo nell’alchimia o nella stregoneria.
    Noi ci affidiamo alla madre di tutta la vita: la Natura. È folle pensare che si possa sradicare o cancellare le malattie dalla faccia del mondo.
    Per il semplice fatto che esse fanno parte della condizione umana, della vita mortale.
    Molti maghi e alchimisti sono alla ricerca dell’eterna giovinezza, o della panacea universale, la cura per tutti i mali che donerebbe agli uomini un potere paragonabile a quello degli dei.
    Sono solo dei pazzi.
    Le malattie è una componente imprescindibile dell’esistenza.
    La natura stessa spesso genera molti mali, ma è anche generosa, e fornisce i rimedi per contrastare tutto questo.
    Questi rimedi, sono insiti sia negli animali, che nei vegetali.
    Nel caso degli animali, si trattava delle loro stesse reazioni di difesa:
    Febbre e sintomi delle malattie non devono essere considerati o visti come una scomoda piaga da eliminare per creare un benessere forzato, perché nemiche della produttività e del “progresso” dell’uomo.
    Sono meccanismi e reazioni del corpo umano, e di ogni forma di vita attaccata all’esistenza e desiderosa di continuare ad esistere, per fronteggiare il male e contrastarlo.
    Le piante, invece, sono maestre nel produrre veleni, e anche nel neutralizzarli.
    Non potendo deambulare e cacciare come gli animali, hanno imparato a produrre da sé tutto ciò che serve loro per fronteggiare infezioni o afflizioni che possono ucciderle, e per garantire la loro sopravvivenza fino a quando non sono capaci di produrre semi e frutta per germinare.
    Mi segui druido?
    - Sì, certamente. Più o meno sapevo già queste cose, ma ammetto che non mi erano mai state esposte con tanta chiarezza. Sei molto saggio, Ian.
    - Risparmiami le lusinghe e stammi a sentire.
    I primi medici della storia erano erboristi, proprio come me.
    È nelle piante che loro vedevano il rimedio principale per sconfiggere le malattie, ed è quello che faccio anche io.
    La nostra corrente filosofica pensa che rimuovere i sintomi e zittirli non sia la decisione migliore: è un approccio lesivo nei confronti delle capacità difensive del nostro organismo.
    Agendo così si rimuovono le conseguenze e i sintomi, ma non la causa. Ciò lascia spesso le patologie irrisolte o dormienti fino alla loro cronicizzazione e nuova manifestazione.
    Tutto questo rende le persone sempre più deboli e dipendenti dai dottori e dai loro rimedi, di efficacia spesso discutibile, e dai pericolosi effetti secondari.
    È per questo che non amo molto gli alchimisti e i sapienti dei sarafan.
    Non sono mossi dal vero desiderio di curare e guarire la gente.
    Per loro, è solo un affare: sono mercanti e burocrati. Lo vedono solo come un modo per ottenere ricchezza, prestigio e permettere all’ordine di esercitare un ulteriore dominio sulla popolazione, per asservirla e controllarla.
    - Avevo intuito che tu odiassi i sarafan, ma non credevo che li biasimassi fino a questo punto.
    Ian fece un gesto stizzito, come a voler scacciar via una mosca
    - Penso che si starebbe molto meglio senza di loro e la loro ipocrita tirannide.
    - Come cura le malattie il tuo ordine?
    - Noi pensiamo… pensavamo che la soluzione migliore sia incentrata sul migliorare e potenziare le difese dell’organismo in modo da permettergli di fronteggiare meglio la sfida portata dalle malattie.
    Altresì, però, gli forniamo anche le cure e gli strumenti per poterle fronteggiare abbastanza da aumentare le probabilità di sopravvivenza.
    È un approccio più lento, ma che alla fine, da ottimi frutti nella maggior parte dei casi.
    Sostanzialmente, deve esser il corpo stesso dei malati a creare la cura di cui aveva bisogno per guarire. Proprio come fanno piante.
    Noi possiamo solo aiutarlo in questo, proteggendolo e stimolando la guarigione.
    - Perché mi stai dicendo tutto questo?
    - Perché penso che riguardi anche te.
    Vedi, questa deontologia è usata anche da un altro ordine: quello dei chierici sarafan. Spiace solo che siano asserviti alla causa sbagliata, ma c’è una cosa che accomuna erboristi e guaritori: entrambi gli ordini hanno appreso le loro abilità curative perché sono stati apprendisti dei grandi druidi del passato, sacerdoti della natura esperti di tali conoscenze e di tali rimedi.
    Solo che hanno preso strade diverse: i chierici si sono specializzati nella magia, mentre noi, nella conoscenza delle piante. Tu sei l’ultimo dei druidi, vero?
    - Beh, ecco… - Asgarath fu stupito da tale domanda.
    - Ma si può sapere come accidenti fai a conoscermi così bene?
    Ian esibì un sorrisetto.
    - Ho viaggiato molto da giovane, e letto molto. Sono stato alla libreria di Willendorf, e ho avuto modo di documentarmi sulle grandi figure storiche e gli eroi dell’antico passato. Non è molto facile reperire conoscenze su di te, ma la storia dei druidi del mondo antico mi appassionava e volevo saperne di più. E alla fine, ho trovato una vecchia copia degli annali di Mistwitch.
    Ti confesso, che credevo che fossero tutte fiabe, ma stasera, quando mi sei apparso davanti dal nulla, compresi subito la tua natura. Solo voi mietitori siete in grado di fare questo.
    - Lo sanno fare anche i demoni, vecchio. Potevo anche esser un demone, no?
    - E perché mai un demone avrebbe avuto le stesse fattezze, il viso e la corporatura di un personaggio storico? No, ti riconobbi subito, perché nel libro che lessi vi erano alcune miniature che ti raffiguravano.
    Quando mi hai dato conferma dei miei sospetti, ho trattenuto a stento la gioia!
    Asgarath lo guardò sorpreso.
    - Devo ammettere che sono piuttosto perplesso e meravigliato all’idea di aver un così grande ammiratore. In altre circostanze, sarei davvero curioso di vedere il libro che hai letto.
    - Ah, quello? Gli annali di Mistwitch? Sicuro! Ma farò di più! Aiutami a combattere l’epidemia, e te lo regalerò volentieri!
    - Combattere l’epidemia? Io e te da soli? Onestamente, la vedo un po’ difficile.
    Ian ridacchiò.
    - Credo che tu ti stia sottovalutando. Ho sentito dire di cosa siete capaci voi mietitori, ma tu… Tu sei ancora più speciale. Le fiamme diafane e azzurre che hai emesso… Beh, quelle sono il sacro fuoco dei druidi antichi!
    Non hai nemmeno idea di quanto sia stato esterrefatto e felice della tua presenza.
    Come ti ho detto, il mio ordine ha appreso dal vostro i segreti della natura e il potenziale curativo delle erbe. Il fatto che poi, nel corso dei secoli, la nostra conoscenza abbia superato la vostra in tal senso, è dovuto solamente alla vostra scomparsa dal mondo successiva al crollo dei Pilastri.
    Noi abbiamo avuto millenni per portare avanti tale sapienza, mentre il tuo ordine…
    - Siamo spariti nel nulla, lo so. In realtà, è rimasto un altro degli antichi druidi, oltre a me, ma è un essere abbietto con cui spero che tu non abbia mai nulla a che fare. – disse Asgarath, mesto.
    - Comunque, ti sbagli. Ho delle conoscenze di base sulle proprietà fisiche e magiche delle erbe e delle piante, ma non ho avuto modo di portare avanti le mie conoscenze in tale ramo. È da più di cinquant’anni che milito nell’Alleanza, eppure, i miei obblighi e le mie responsabilità verso questo mondo non mi lasciano tutto il tempo che vorrei per approfondire e studiare tutto ciò che mi piacerebbe leggere e conoscere. Buffo, vero? Sono un immortale. Ho tutta l’eternità davanti… E non ho tempo nemmeno per me stesso.
    Ian si alzò dalla sedia vistosamente ammirato.
    - Beh, un po’ di rudimenti sono sempre meglio che niente. Non mi stupisce che i tuoi compagni ti abbiano mandato qua per debellare il morbo. Secondo me, nessuno più di te, è adatto a tale compito.
    Asgarath si alzò a sua volta.
    - Spiegami la situazione. Quali sono i sintomi del morbo? Quando è iniziato il contagio?
    - Mah, dapprima è solo un lieve malessere e un forte senso di debolezza, che costringe a star a letto. Dopo qualche giorno subentrano febbre, nausea, disturbi digestivi e intestinali e tosse. La febbre è molto persistente e non vuole saperne di scendere né con i decotti e le pozioni né con i farmaci usati dagli alchimisti. Poi dipende dalla resistenza delle persone, dalla loro età e dalla loro voglia di reagire.
    I vecchi e i bambini di solito non ce la fanno, gli adulti invece riescono a sopravviverne, ma non prima di aver rischiato la pelle, perché nella sua fase più acuta la malattia da crisi respiratorie. È da notare che il corpo degli infettati presenta delle macchie verdastre diffuse su tutta la pelle.
    - Pustole e bubboni? È una forma di peste?
    - No, delle strane petecchie di un color bile, che onestamente nessuno sa spiegarsi. La cosa ancora più assurda è che al buio esse emettono una tenue luminescenza malata, di colore verdognolo.
    - Mai sentito di una cosa simile. Sospettavo già che non fosse un male naturale, ma tu… me ne dai conferma. Piuttosto, come mai non sei stato infettato?
    - A causa della quarantena non ho mai avuto contatto diretto con i malati, ma ho visto i Sarafan portare via i cadaveri.
    Forse ti aspettavi che il nostro villaggio fosse pieno di appestati, come ai tempi della grande peste che colpì Cooraghen all’epoca della corruzione dei pilastri, dove i corpi erano ammassati sui carri e sparsi per tutte le strade e gli interni delle case.
    - In effetti, sono rimasto sorpreso nel vedere le strade così pulite. Langskar sembra un villaggio fantasma, più che un luogo appestato.
    - Perché sia i malati che le persone sane sono tutti quanti chiusi nelle loro case. Nessuno osa uscire. Chi viene sorpreso fuori dalla propria casa viene percosso e perfino ucciso, a prescindere che sia malato o in salute. Chi non ha contratto il morbo non può affrontare i sarafan da solo, e chi è malato non intende scambiare una morte con un’altra. Dal morbo vi è una certa probabilità di guarire, dalle lame dei sarafan no.
    - Che ne è dei defunti?
    - All’inizio, la gente moriva in casa. I sarafan allora mettevano sotto sigillo le loro abitazioni e portavano via i loro corpi, nel lazzaretto cittadino. Poi la situazione peggiorò. Per evitare che il morbo si propaghi eccessivamente, i sarafan hanno iniziato ad organizzare giri di visite domiciliari da parte dei medici del lazzaretto, che, per l’occorrenza, indossano speciali abiti protettivi. Ogni qualvolta che una persona è in gravi condizioni, essi dispongono il suo trasferimento nell’ospedale cittadino, a fianco alla guarnigione.
    - Che cosa fanno agli ammalati una volta che finiscono in ospedale?
    - I morti… si dice che i sarafan li cremino, ma da quel che ho visto nelle mie scorribande notturne, le ciminiere del forno crematorio non sono mai state accese. Quindi… onestamente non lo so. So solo che, una volta che vi entra, nessuno esce più da lì.
    Vi vengono portate anche le persone che hanno sintomi lievi e che guariscono. I sarafan dicono che è per studiarli allo scopo di trovare presto una cura, ma anche loro non hanno più fatto ritorno dalle loro famiglie.
    - È strano. È molto strano. C’è qualcosa di marcio dietro a tutto questo.
    - Ed è proprio quello che dobbiamo scoprire insieme, io e te.
    - Beh… senza offesa amico, ma… di solito lavoro da solo. In queste condizioni e con la tua età, mi saresti solo di impaccio.
    Inoltre, penso che tu sia l’unica speranza per somministrare una eventuale cura o rimedio ai tuoi concittadini, semmai lo trovassi il modo di liberare il villaggio dai sarafan… Insomma, non penserai che ti porto con me fin dentro a quell’ospedale! Sono venuto qua con un’altra persona proprio per questo, ma siamo stati separati dalla frana. Spero che ora stia bene. – disse il druido pensieroso.
    - Capisco. Quindi non sei da solo? – disse Ian, perplesso.
    - Preferisco non scendere nei dettagli. Piuttosto, se vuoi aiutarmi… potresti esaminare i campioni che hai raccolto? Qualsiasi cosa vedrai con i tuoi strumenti mi sarà molto utile.
    - Sì… si, certo. Stavo giusto per farlo. Scusa, mi son lasciato prendere in chiacchiere. È tanto che non parlo con qualcuno da pari a pari. Muoviamoci.

    Con l’aiuto del druido, che gli faceva da assistente, Ian iniziò a trafficare nel laboratorio.
    Per prima cosa, si infilò dei guanti di pelle e si bardò il viso annodansi attorno alla bocca una mascherina carta da lui stesso costruita, contenente all’interno un piccolo fazzoletto umido che faceva da filtro.
    Poi preparò dei piccoli e sottili vetri circolari dalla forma cilindrica, prese alcune pozioni e reagenti da alcuni scaffali e le mescolò, per poi versarli al loro interno.
    Orese l’otre contenente l’acqua che aveva raccolto quella notte e la versò sui cilindri.
    Li mise in fila sopra un tavolo e li dispose in sequenza, mettendo sotto ognuno di essi un foglietto in cui segnò un numero, in modo da identificare i campioni.
    Nel frattempo, si lasciò andare ai ricordi, e raccontò ad Asgarath della sua vita e degli ultimi eventi che erano occorsi al villaggio.

    Il druido apprese una storia che era abbastanza triste: tutti gli avi di Ian erano stati medici e guaritori rinomati, appartenenti alla sua antica società ermetica.
    Avevano fatto un gran bene sia alla popolazione del villaggio, che agli abitanti delle vicine fattorie.
    Poi erano arrivati i sarafan, con i loro metodi di cura così diversi dai suoi, e che in un batter d’occhio, facevano sparire i sintomi e le afflizioni, anche se in modo spesso poco etico e non risolutivo.
    Ian sapeva che quell’approccio medico era incompleto e che le cure dei loro alchimisti procuravano soltanto una falsa salute destinata a non durare nel tempo.
    Non era uno sciocco, e aveva anche intuito quali fossero gli interessi economici e sociali che potevano esserci ad assoggettare la popolazione creando un mondo di malati cronici, dipendenti dall’ordine dei crociati viola per aver a disposizione uno dei beni più preziosi, che nessuno poteva comprare: la salute.
    Quando si era accorto di questo, aveva protestato, cercando di farsi ascoltare dalla gente.
    Ma la gente non lo ascoltava più, perché preferiva i rimedi rapidi e veloci.
    Furono talmente ammirati dalla sapienza e dall’abilità dei medici dei sarafan che si dimenticarono presto di lui, cosa che dimostrò l’ingratitudine e l’ipocrisia di molti di loro.
    Deluso dai suoi concittadini, ma comprendendo che si erano lasciati buggerare, Ian aveva cercato l’appoggio dei nuovi colleghi.
    In fondo, erano tutti quanti scienziati. Magari potevano aver un dialogo e uno scambio reciproco, imparando l’uno dall’altro.
    Avvenne l’esatto contrario: gli alchimisti dei sarafan non l’avevano aiutato: lui era un rivale e un concorrente, il vecchio che doveva esser distrutto per far posto al nuovo, quindi l’avevano osteggiato e ridicolizzato, facendolo passare per un pazzo visionario, un rudere, gettando discredito sulla sua sapienza e le sue ricerche.
    Dopo aver subito varie minacce e pressioni, era stato perfino costretto a cessare la sua attività andando in pensione anticipata.
    Allora si era rivolto al borgomastro di Langskar per chiedere giustizia, ma lui ormai era stato comprato dai sarafan, e si era rifiutato di aiutarlo, dandogli quattro sorrisi e due pacche sulle spalle, cercando di fargli capire, senza tanti giri di parole, che il suo tempo era concluso e che poteva godersi una serena vecchiaia e che da quel momento in poi, la salute pubblica, era in mano ai nuovi arrivati.
    Così nessuno si curava più di Ian e a nessuno importava che contraesse il morbo, che vivesse o morisse, restasse in casa o uscisse in giro.
    Era proprio per questo che, quando era stata proclamata la quarantena, i sarafan lo consideravano un inoffensivo fastidio, un piccolo moscerino che non poteva far alcun male ai loro piani.
    Lo lasciavano fare anche perché speravano che lui, girando per le strade, contraesse il morbo, che, a causa della sua anziana età, probabilmente nel suo caso sarebbe stato sicuramente letale. Tecnicamente, quindi, Ian era libero di girare dove e quando voleva.
    Ma non lo faceva, sia per non insospettirli, sia per evitare il contagio.
    Viveva come un recluso, e usciva di casa solo a notte fonda per prendere l’acqua dalla fontana della piazza, allo scopo di compiere i miei esperimenti.

    Quando Ian concluse la sua testimonianza Asgarath scosse la testa disgustato. Si promise che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutare quell’uomo singolare e per fermare quell’ingiustizia.
    Stava per cercare di confortarlo quando notò che i vetrini in cui il vecchio aveva messo l’acqua stavano iniziando ad illuminarsi di una luce verdastra.
    - Che sta succedendo?
    Ian prese la piastra circolare marcata col numero 1.
    - i reagenti stanno facendo effetto. La conclusione a cui giunsi l’altra notte sembra rivelarsi veritiera, ma voglio prima vedere con i miei occhi.
    Prese un piccolo aspiratore, risucchiò un po’ del liquido, lo mise in un vetrino quadrato e lo pose sotto il microscopio. Accese una piccola lampadina glifica per retroilluminare il campione e guardò nell’oculare.
    - Corbezzoli. – esclamò dopo un po’.
    - Che vedi?
    - Guarda tu stesso! – disse al druido, facendogli cenno di venire.
    Asgarath guardò a sua volta e vide… degli strani,piccoli esseri gelatinosi, simili ad amebe dai tentacoli serpeggianti, che si muovevano e dimenavano nel fluido, emettendo una luce pulsante che sembrava in qualche modo risuonare a quella del liquido stesso. Poi vide un’altra scena assurda: creature molto più piccole, simili a palline ricciute, aggredivano quegli esseri, appoggiandosi sulla loro superficie con i loro aculei.
    Il druido osservò meglio e vide che i piccoli esseri inoculavano un liquido nero all’interno delle creature ameboidi.
    Questi ultimi iniziarono a tremare e a contorcersi. Il liquido nero li gonfiava e si tramutava in nuove palline ricciute, che li gonfiavano fino a farli esplodere. Poi, in una reazione a catena, i nuovi esseri si propagavano agli altri ameboidi. Asgarath osservò sconvolto la scena per qualche minuto, e alla fine, non vi erano più esseri ameboidi ma solo palline ricciute.
    Si staccò dal microscopio, e osservò che il vetrino ora era diventato nero e opaco.
    - Proprio come il sangue degli infetti. – disse Ian, sconvolto.
    - Che significa?
    - Quegli esseri che hai visto, sono piccole creature scoperte dalla scienza degli uomini da quando i Mentaliti hanno diffuso alcune delle loro tecnologie presso i sarafan e i guaritori di Nosgoth. Li abbiamo chiamati batteri. Molti sono utili e quelli che hai visto vivono dentro il corpo umano, nell’intestino, aiutando l’organismo a metabolizzare il cibo. Quella specie, in particolare si chiama escherichia.
    Sembra che sia innocua, ma può provocare infezioni se si trova in un organo diverso da quello in cui dovrebbe stare, anche molto pericolose.
    - è quello la causa del morbo?
    - No. Le palline. Sono quelli i virus. Sono creature che aggrediscono i batteri e le cellule che costituiscono i nostri corpi. Sostanzialmente vi si agganciano, iniettano il loro seme al loro interno e li costringono a creare copie di se stessi, fino a provocare la loro esplosione.
    Per ogni cellula infettata, ve ne sono altre cento che corrono pericolo. Il nostro corpo cerca di fronteggiare questi mostri come può, e conserva memoria delle malattie avute e subite. Questo ci rende immuni ad una malattia che abbiamo precedentemente contratto. Ma in questo caso, ahimé… non vi è alcuna difesa.
    È un nuovo patogeno e come tale, la nostra specie è del tutto impreparata. Se questa roba uscisse da Langskar…
    - Ho capito. Tutta Nosgoth è in grave pericolo.
    - Esatto. – disse Ian con estrema gravità.
    Asgarath rimase profondamente assorto nei suoi pensieri.
    Poi prese tolse dall’alloggiamento sotto l’obbiettivo del microscopio la piccola piastra di vetro contenente il liquido infetto.
    - Voglio controllare una cosa. Ian, allontanati a distanza di sicurezza.
    Asgarath attese che il vecchio fosse vicino alla porta della stanza, ad almeno tre metri.
    Poi aprì il vetrino, fece apparire da un dito una fiammella azzurra e la passò sopra il liquido.
    Vi fu una vampata di fiamme che fece sobbalzare Ian dallo stupore e che quasi spaventò perfino Asgarath.
    Il fuoco azzurro si avventò di sua spontanea volontà sul campione, arroventando il vetrino, e lo consumò fino a ridurlo completamente in cenere, tanto, che Asgarath rischiò quasi di far cadere il campione.
    Per fortuna, il fuoco si placò dopo pochi secondi.
    - Gettalo. Non mi serve più. – si affrettò a dire Ian, indicandogli un contenitore lì vicino.
    Asgarath svitò il recipiente, un fusto ermetico di metallo, vi buttò dentro il vetro e lo richiuse con forza.
    - Definitivamente… - disse il druido – questo virus non è di origine naturale. La reazione della mia magia mi fa comprendere che si tratta di frutto di magia oscura.


    Ian sgranò gli occhi.
    - Magia oscura? Beh, questo spiegherebbe tutto. Devi sapere che il motivo per cui ho preso quell’acqua da analizzare, è che, nelle scorse sere, mi sono domandato in che modo si propagasse il contagio. Se per mezzo dell’aria o dell’acqua o del cibo. Analizzando l’aria, non vidi niente di anormale. Analizzando l’acqua proveniente dalla fontana del villaggio, invece, scoprii che c’era una strana forma di energia che la permeava.
    - Una energia?
    - Già. I miei strumenti misurarono una debole emissione. Questo era molto preoccupante, perché è proprio dalla fontana della piazza che la gente attinge l’acqua per bere e lavarsi. E ti dirò di più, l’energia è identica a quella che si trova nelle barriere glifiche.

    - Energia glifica… nell’acqua da bere? – Asgarath era sconcertato.
    - Così pare.
    - Ma allora, è attraverso la rete idrica che viene introdotto il virus. Quando sono entrato in città, ho incontrato un contadino di nome Louis che ha quasi attaccato briga con i sarafan. Per fortuna sono riuscito a farlo desistere, o si sarebbe fatto ammazzare. Mi ha detto che ad est del villaggio si trova un mulino ad acqua sorvegliato dai sarafan, collegato sia al sistema che alimenta la fontana che all’acquedotto.
    - Sì, è esatto. Questo significa che i sarafan sono i responsabili dell’epidemia?
    Il druido lo guardò perplesso.
    - Non ne sono sicuro. Dovrei investigare, ma dubito che troverei le risposte lì.
    - Allora l’unica è andare al cuore del problema, e scoprire che fine fanno i malati che entrano nel lazzaretto.
    - Puoi aiutarmi ad entrare nell’ospedale sarafan?
    Ian lo guardò sconvolto.
    - Ma.. Cosa pensi di fare? Come puoi pensare di dissimulare il tuo aspetto e la tua natura?
    - Di quello me ne occuperò io. Tu pensa a farmi entrare. – disse il druido, con un tono che non ammetteva repliche.
    Ian ci rimuginò un po’, sopra, poi assentì.
    - Va bene. Ti aiuterò, ma dovrai fare esattamente come ti dico.
    Asgarath ascoltò il suo piano, e più Ian parlava, più lui sgranava gli occhi, incredulo e sconcertato.
    Scosse vigorosamente la testa.
    - No amico, non se ne parla, è troppo pericoloso! Di più: è da pazzi!
    - Tu hai un’idea migliore? – gli domandò Ian, senza tanti preamboli.
    Asgarath chinò la testa.
    - In effetti, No.
    - Allora facciamo a modo mio.
    Il vecchio gli mise una mano sulla spalla.
    - Non ti preoccupare per me, druido. La mia vita l’ho vissuta pienamente e non ho rimpianti. Devi salvare la popolazione, e fermare questo morbo prima che raggiunga altre città. Dopo, temo che sarebbe troppo tardi.
    Asgarath prese la mano del vecchio e la strinse con forza.
    - Spero solo di non dovermene pentire. Quando iniziamo?
    - All’alba.


    Atto VI Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.




    L’indomani il sole sorgeva, ma la sua luce faticava a rischiarare il villaggio.
    Una densa nebbia grigia, satura di nevischio e umidità aleggiante su Langskar, rendendola ancora più spettrale.
    La brina cospargeva le strade, e nessuno si muoveva per gli angusti viottoli.
    Tutti erano ancora blindati in casa.
    Nessuno faceva la spesa al mercato rionale: vi erano solo qua e là le sentinelle che passeggiavano pigre e infreddolite per le vie, maledicendo quella situazione e quel lavoro infame.
    Fu una di loro che sussultò, udendo dei rumori nella via di fronte al lazzaretto.
    Sguainò la spada, sbucò dal vicolo e… trovò il vecchio erborista riverso a terra, col corpo cosparso di macchie, che tossiva convulsamente.
    - Coff.. coff.. anf… a… aiutatemi…
    Il sarafan, che aveva la bocca bardata e il corpo protetto dall’armatura-esoscheletro tipica dei sarafan glifici di meridian, lo guardò senza ben capire.
    - Che ci fai qua, vecchio? Perché non sei nella tua casa come gli altri?
    - A… aiut… - il vecchio continuò a tossire.
    Il sarafan mantenne le distanze da lui e bussò convulsamente alla porta dell’ospedale.
    - Ehi, là dentro! Non avete sentito? Aprite!
    - Un momento, un momento…
    La barriera glifica che circondava il portone di ferro battuto venne disattivata, poi si udirono scattare i catenacci all’interno, e la pesante inferriata venne spalancata.
    Emersero due soldati equipaggiati di guanti, maschere e armature integrali, armati di strane aste luminescenti.
    - Che succede, sentinella?
    - Ditemelo voi! – disse, indicando il vecchio riverso sul porfido.
    - Oh, ma guarda guarda chi si vede! Se non è il vecchio Ian! Quindi, il grande guaritore del passato alla fine ha contratto anche lui il morbo eh? – lo apostrofò l’inserviente, prendendolo a calci sullo stomaco.
    Il vecchio si piegò in due dal dolore, e poi si accasciò sull’asfalto, perdendo conoscenza
    - Che ne facciamo, Lothar?
    - Che vuoi che ne facciamo, Greg, lo mettiamo assieme agli altri, no?
    - Cella di isolamento, quindi.
    - Porta la lettiga e chiama gli altri. Che avvisino anche il nuovo medico.
    Greg eseguì e scomparì.
    Presto lui fu di ritorno, assieme ad altri due inservienti, e ad uno dei sapienti che erano provenuti da Meridian la notte prima. Costui ora indossava una indossava una tunica integrale con guanti, mantello, cappuccio e una strana maschera dalla forma di becco da uccello, dotata di respiratore.
    - Sulla lettiga. – disse, senza tante cerimonie.
    Lothar, Greg e gli altri monatti presero il vecchio e lo tirarono su di peso.
    - Grazie, guardia, puoi tornare alle tue mansioni.
    -P-preg…
    Non stettero nemmeno ad ascoltarlo. Chiusero il pesante portone, sprangarono i catenacci, e riattivarono la barriera.
    Il soldato di ronda, scosse la testa, e tornò a compiere il suo giro.
    Sconvolto dall’evento, non si accorse della misteriosa figura che in quel momento, passando dal retro, si era inerpicata per i tetti e i muri fino a raggiungere il terrazzo del lazzaretto.
    Da lì, raggiunse la ciminiera del forno crematorio dove di solito venivano bruciati i corpi dei defunti morti di malattie infettive. Ian aveva ragione: era spenta e fredda.
    Lo dimostrava il fatto che la sommità della canna fumaria fosse coperta di neve.
    Fatto molto strano considerando la situazione.
    Il druido trovò una scaletta a pioli usata per la manutenzione. Vi si arrampicò e raggiunse la pedana di metallo che correva attorno alla cappa del fumaiolo.
    Si issò fin sopra la ciminiera, e poi si buttò dentro, fluttuando all’interno per merito della magia di cui era intriso il suo mantello.
    Finì dentro la camera ardente.
    Accese la mietitrice di luce per rischiarare l’ambiente.
    Niente di che: era un forno buio freddo, e vuoto, con macchie e incrostazioni di fuliggine lungo i pareti e sl pavimento.
    Dal lato opposto della camera, si trovava una porta di metallo sbarrata dall’esterno, troppo robusta per esser sfondata.
    Il druido si mise a bussare perentoriamente e continuò a farlo per un bel po’ di tempo.
    Sembrava una mossa stupida, e, in effetti lo era, oltre che azzardata.
    Ma entrare dalla porta principale assieme a Ian, dal regno spettrale, sarebbe stato ancora più stupido, sia a causa dello strano effetto di distorsione dimensionale che aleggiava sul villaggio, sia perché poi avrebbe dovuto cercar un portale per prendere materia, col rischio di trovarsi faccia a faccia con qualche medico, o perfino qualche sarafan. Lui non era lì per combattere, ma per indagare.
    Avevano un piano ben preciso. E quello ne faceva parte.
    I suoi richiami, ben presto attirarono l’attenzione.

    Nel blocco dell’ospedale in cui si trovava la camera ardente, e l’annesso obitorio, non c’era grande movimento, e vi era anche meno da sorvegliare. Una sola guardia era sufficiente a tener d’occhio la zona.
    Fu proprio tale tizio, uno dei cacciatori di vampiri arrivati con la carovana del giorno precedente, che stava percorrendo avanti e indietro quegli angusti e sinistri corridori.
    Per niente contento del suo lavoro, malediceva i suoi superiori per avergli appioppato un compito tanto ingrato. È vero che non erano stati per niente contenti di sapere che Langskar era stato parzialmente isolato dalla frana occorsa quella notte, ma ambasciator non porta pena, no?
    Perché dargli quell’incarico ingrato? Solo per smaltire la seccatura prendendosela con un sottoposto?
    Fu proprio a causa di questo malumore, che egli non fece ciò che avrebbe dovuto fare.
    Gli ordini, erano quelli di riferire subito e di chiamare rinforzi, semmai fosse avvenuto qualcosa di strano.
    I Sarafan non erano in allarme ma la strana apparizione incappucciata che era venuta giù assieme alla montagna e che era svanita nel nulla, lasciando solo un saio da monaco, li aveva insospettiti non poco.

    Invece, Gheor fece di testa sua. Pensava che se da solo, fosse riuscito ad eliminare o risolvere un potenziale problema senza seminare un inutile trambusto, forse i suoi superiori l’avrebbero rivalutato e l’avrebbero assegnato ad un reparto che gli avrebbe fatto gelare meno il sangue.
    Fu a causa di questo, che udendo i rumori e la voce proveniente dal forno, andò a controllare di persona.
    Invero, dapprima era rimasto perplesso, perché pensava che fosse solo un frutto folle della sua immaginazione, che si lasciava troppo suggestionare dall’ambiente tetro dell’obitorio.
    Ma i rumori continuarono, e capì che non era la stanchezza a farlo sognar desto.
    Così si avvicinò alla camera ardente.
    Altri tonfi e chiasso.
    Sì, definitamene là dentro c’era qualcosa. Ma che stregoneria era? L’ambiente era sigillato e nessuno avrebbe potuto accedervi dal tetto, nemmeno il più abile ladro acrobata.
    E poi, chi mai sarebbe stato così pazzo da calarsi dentro la ciminiera?
    Impugnò saldamente la balestra e armeggiò con i chiavistelli facendo scattare la serratura.
    Apri la porta con un tonfo secco si catapultò dentro la stanza buia, avanzando in maniera circospetta.
    In quella totale oscurità, non vide la figura incappucciata che si trovava dietro la porta, e che sgattaiolò alle sue spalle.
    L’ultima cosa che sentì, fu il braccio trifido che gli cinse la faccia con l’incavo del gomito e che lo tirò a sé tappandogli la bocca bardata.
    - Ma cos… mffff… TUMP.
    Una mano lo colpì con un fortissimo pugno, mettendolo fuori combattimento.
    A quel punto, Asgarath rubò dalla guardia il mazzo di chiavi appeso alla sua cintura, oltrepassò la soglia e la richiuse alle sue spalle, serrando nuovamente i chiavistelli.
    E ora, doveva muoversi in fretta.
    Arrancando nella semioscurità, rischiarata solo dalla tenue luce proveniente da alcune feritoie poste all’altezza del soffitto e da qualche torcia appesa ai muri, raggiunse alcune porte metalliche e le aprì con le chiavi.
    Trovò tre ambienti: il primo era un corridoio che dava ad una serie di grandi stanzoni, pieni di letti metallici, alcuni contenenti salme e cadaveri coperti da dei teli, altri vuoti.
    Rischiarò i dintorni con la mietitrice di luce ed esaminò quei corpi. Erano freddi e rigidi, quindi erano morti già da parecchio tempo.
    Il loro corpo era cosparso dalle macchie verdastre, segno che erano stati uccisi dal virus.
    A parte, questo, alcuni recipienti pieni di reagenti e di sangue coagulato e nerastro e l’armamentario che veniva usato per le autopsie, non c’era molto che lo interessasse.
    Rimise quindi tutto a posto e abbandonò quell’area infausta, profondamente disgustato.
    Raggiunse la seconda ala, e vide un laboratorio di medicina e alchimia attrezzato di tutto punto, molto più avanzato e moderno del piccolo laboratorio che aveva Ian.
    Si mise ad esaminare una risma di fogli e rotoli in cui erano appuntate le analisi, le ricerche e i referti autoptici.
    Da quel che lesse, i deceduti presentavano segni di una polmonite avanzata e uno stato di profonda necrosi dei tessuti. Il sangue era viscoso, nerastro, raggrumato, e il loro corpo mostrava anche evidenti segni di disidratazione dati dalla febbre incessante.
    Vi era una nota riguardo all’infezione polmonare, perché sembrava non esser provocata tanto dal virus in sé, ma dalla conseguenza dello stato infiammatorio che provocava.
    L’infiammazione scatenava la condensazione e la coagulazione del sangue nei polmoni, e questo a lungo andare bloccava la piccola circolazione.
    Sostanzialmente, i pazienti non morivano tanto perché il loro cuore cedeva sotto le incessanti ondate della febbre, ma a causa dell’asfissia. Un’asfissia che era provocata dal fatto che il sangue degli alveoli polmonari, alla lunga, smetteva di circolare.
    Anche se venivano ventilati artificialmente, il virus non lasciava comunque scampo.
    Sconcertato da quella scoperta, Asgarath rimise a posto i fogli e si mise a rimuginare senza capire.
    Là non c’era niente, tranne che parte dei morti dell’epidemia, che comunque, erano davvero troppo pochi rispetto alla moltitudine di spettri che aveva visto al suo arrivo.
    Il mistero non era per niente risolto, dunque.
    E quindi, dov’erano gli altri cadaveri? Che ne era delle persone portate lì per esser esaminate in caso di guarigione? Che fossero state cremate?
    Ma no, il forno era spento, e sembrava che non fosse stato usato da molto tempo.
    C’erano troppe cose che non tornavano.
    Esaminò quindi l’ultimo dedalo di corridoi, entrando nella terza area dell’obitorio.
    Tutto ciò che vi vide furono due ascensori, uno che portava al piano di sopra, da dove tre androni conducevano ad altrettanti blocchi di celle: in uno erano ricoverati i malati affetti da altre patologie, nel secondo i guariti, e nel terzo gli infetti.
    A quel livello si trovavano anche le sale chirurgiche e i laboratori dove lavoravano il grosso degli alchimisti.
    Sicuramente lassù la sorveglianza era molto stretta.
    Prender quella via, sarebbe stato da pazzi.
    Anche se era tentato di scoprire come stesse Ian, avrebbe ottenuto solo di trovarsi addosso tutta la guarnigione della città, i cacciatori e i rinforzi giunti con la carovana, oltre che maghi, alchimisti e chissà quant’altro.
    Quindi c’era solo una via che poteva percorrere: l’ascensore che conduceva al piano di sotto, che probabilmente conduceva alle cantine e ai magazzini.
    Sembrava improbabile, ma chissà, forse la soluzione del mistero si trovava lì.
    Asgarath prese un profondo respiro, vi salì sopra, e azionò la leva che attivò l’elevatore.
    Un meccanismo a vapore portò giù l’enorme pistone che sorreggeva la passerella su cui si trovava, e conseguentemente, anche lui.

    Atto VII: La forza della vita



    Ian si trovava in isolamento.
    Dall’ingresso, i barellieri lo avevano condotto attraverso una serie di corridoi a quel reparto, destinato ai malati in gravi condizioni.
    Avevano superato un piazzale squadrato su cui si affacciano vari cameroni, anche se… prigioni sarebbe stato il termine più idoneo, visto le sbarre che c’erano alle finestre e le porte blindate in ferro battuto che sbarravano le stanze.
    Lo misero in una di quelle stanze e lo adagiarono senza troppe cerimonie in un letto, inchiodato al muro da due catenacci.
    L’alchimista mascherato che l’aveva fatto entrare nell’ospedale, dispose di preparare la strumentazione per fargli le prime analisi ed eseguire i prelievi del sangue.
    Per lungo tempo, però non si fecero vivi, perché vi erano molti malati da accudire e da controllare, e nonostante le forniture, i medicinali e i personale giunto con la carovana, le risorse del lazzaretto scarseggiavano a causa dell’isolamento in cui versava il villaggio.

    Considerando la frana che aveva ostruito la strada occidentale, la situazione sarebbe anche peggiorata nei giorni seguenti, perché ci sarebbe voluto molto tempo per ripristinare le comunicazioni.
    L’unica era mandare degli araldi verso Avernus, per riferire alle forze sarafan di quella grande città la situazione e per chiedere aiuto direttamente agli alchimisti del suo ateneo.
    Il comandante dei sarafan stava valutando ciò, e, in quel momento, stava redigendo il rapporto sulla situazione del villaggio, sul numero dei contagi e dei morti, sul modo in cui procedevano le ricerche per una eventuale cura.
    Avrebbe terminato di redigere il documento, poi avrebbe cercato degli araldi per recapitarlo alle forze della città, uscendo dall’unica strada ancora libera: le porte orientali.
    La conseguenza più diretta di tutto questo, è che ci sarebbe voluto un bel po’ prima di avere a disposizione nuovi medici e nuove forniture, quindi il direttore dell’ospedale, che nel frattempo era stato informato di tutto questo, doveva amministrarle e razionarle con la massima cura possibile.
    Il risultato era che il personale era agli sgoccioli, i turni di lavoro massacranti e l’assistenza che ricevevano i malati abbastanza precaria. I pasti venivano serviti tre volte al giorno da personale protetto da esoscheletri ed elmi bardati, ma per il resto, a parte farsi veder per le visite, gli analisi e constatare i decessi, i medici trattavano tutti nello stesso modo: silenzio, e attesa infinita. E poco importava se fossero sarafan contagiati dal morbo, nobili, contadini o mercanti. Perché il virus non guardava in faccia a nessuno, e nemmeno i medici e i monatti guardavano al rango di chi avevano davanti.
    Non avrebbero battuto ciglio nemmeno se fra quei disperati e relitti ci fosse stata la loro stessa madre.

    Ian non attese l’arrivo degli inservienti. Sapeva che doveva agire subito,perché Asgarath aveva già agito.
    Il loro piano era davvero rischioso e terribile, un vero suicidio, ma era l’unico modo di venirne a capo e di scoprire la verità. Assodato che i responsabili del morbo erano i fabbri dei glifi dei sarafan, e che esso veniva trasmesso attraverso l’acqua, l’unica possibilità era quella di scoprire che cosa si nascondesse nell’ospedale della città, e che correlazione ci fosse con loro.
    Così, Ian aveva funto da esca. Non aveva trovato cure per il virus nelle giornate di studio precedenti all’incontro col druido, ma provando le reazioni di varie sostanze medicinali e umori animali, aveva scoperto che la particolare combinazione della linfa di due erbe causava una moltiplicazione amplificata del patogeno, e che quindi poteva esser utilizzata per accelerare lo sviluppo delle malattia.
    A questo punto, Ian aveva intuito che, per invertire il processo infettivo, bisognava metter a punto una cura che avesse l’effetto opposto, e che bloccasse in qualche modo la replicazione del virus.
    Invero ci stava iniziando a lavorare, ma senza aver dati esatti sull’origine della malattia e sulle sue modalità di trasmissione era una ricerca che non poteva esser completata.
    Da qua, quindi, quella terribile e folle idea.
    Lui era un tipo meticoloso, e tutte le sue ricerche venivano annotate con cautela nei suoi diari.
    Li aveva mostrati ad Asgarath e poi li aveva chiusi nel doppio fondo di un cassetto sotto chiave.
    Il loro accordo era stato chiaro: se mai Ian non fosse riuscito a sopravvivere a ciò che aveva in mente di fare, Asgarath li avrebbe recuperati e li avrebbe usati per trovar una soluzione al problema.
    E poi… poi si era esposto al contagio.
    Non ci era voluto molto: era bastato bere l’acqua infetta della fontana e assumere la pozione che stimolava il progresso del morbo. Di lì a poche ore, Ian aveva già sviluppato una forma acuta. Era quindi uscito di casa e si era trascinato fino all’ingresso del lazzaretto, fornendo ad Asgarath il diversivo necessario ad introdursi direttamente laddove era più probabile trovare indizi sulla malattia: l’obitorio.
    Ora, però, tutto dipendeva dal druido. Quanto a lui, doveva impedire ai Sarafan di prelevargli il sangue, altrimenti, vi avrebbero scoperto tracce della droga che aveva assunto, e si sarebbero insospettiti.
    E per farlo, c’era un solo modo:
    tremante dalla febbre e scosso dalla tosse, si allungò quindi verso le sue scarpe, e ne svitò il tacco sinistro.
    Ne tirò fuori una piccolo involto contenente una fiala dal contenuto giallastro, che aveva fabbricato lui stesso nel suo laboratorio.
    Il siero conteneva il veleno micidiale di un’erba che si trovava nelle paludi del termogent, e che cresceva nei posti più bui e più malsani.
    La pianta era capace di indurre, per circa un’ora, uno stato di morte apparente.
    Se non veniva somministrato l’antidoto entro sei ore, il coma diveniva irreversibile e la morte subentrava di lì a poco.
    Ian prese un profondo respiro, ma venne squassato da un accesso di tosso.
    Si fece forza e ingoiò il liquido.
    Poi ruppe la fiala e ne nascose i cocci sotto il letto.
    Tornò a stendersi con immane fatica, e socchiuse gli occhi.
    “Quanto era amara” pensò, ricordando tutta la sua vita, mentre il veleno iniziava a far effetto.
    Ma del resto, il tocco della morte non era mai dolce.
    Se non altro, per rendere meno orribile quell’esperienza, aveva aggiunto nel siero anche una sostanza psicotropa.
    E così, da lì a breve si addormentò e iniziò a sognare.
    Un tunnel di luce, e in fondo, un bellissimo paesaggio verdeggiante, sotto un sole immenso che spandeva una luce piena di conforto e pace.
    In quella radura, vi erano tante anime e tanti spiriti, che si accorsero della sua presenza e che lo accolsero fra di loro.
    Ian sorrise, e andò loro incontro.

    Quando, dopo circa cinque minuti, gli inservienti tornarono con la strumentazione per eseguire le analisi e aprirono la porta metallica, poterono solo constatare il decesso del vecchio.
    Chiamarono quindi trafelati il sapiente che aveva ricoverato Ian.
    Lo visito e lo esaminò con i suoi strumenti e scosse la testa.
    - Un’altra vittima. Questo sciocco si è presentato a noi troppo tardi. Forse ha deciso di curarsi da solo con le sue “arti”, ma poi la sofferenza è stata più forte della sua volontà. Avrebbe dovuto rivolgersi a noi prima. Le sue sciocche piante non l’hanno salvato.
    - Che ne facciamo? – disse l’infermiere.
    - Non vale la pena di scomodare il direttore Lenzer per una simile sciocchezza. L’obitorio, direttamente.
    E preparatevi per condurre un’autopsia. C’è qualcosa che non mi convince in questo corpo Quest’uomo è morto troppo rapidamente. Non rantolava e non era ancora agonizzante come invece succede con gli altri malati.
    Dovremo controllare i suoi polmoni…

    Se Ian abbracciava la morte, Katie lottava per la vita.
    Nella piccola fattoria degli O’Connor, Emia sonnecchiava nella poltrona di casa quando il pallido chiarore del sole iniziò a penetrare dalla finestra, rischiarando un panorama gelido e imbiancato.
    - Emia. Emia, svegliati. – disse una voce profonda, mentre una mano la scrollava per una spalla. u scrollata – Eh, oh, ah. Sei tu Jeff…
    La fanciulla sbadigliò e si risistemò i serici capelli bianchi.
    - Scusami, devo essermi appisolata. Come sta?
    - Male, di nuovo.
    Sentendo queste parole, Emia si tirò di nuovo a sedere a forza.
    Era già la quinta volta che doveva usar la sua magia per calmare quei dannati sintomi, e iniziava a sentirsi piuttosto stanca, perché quel trattamento protratto a lungo andare consumava le sue energie vitali.
    Si fece portare svogliatamente fino al piano di sopra, ed entrò nella stanza di Katie.
    La donna, smagrita e consumata dalla febbre, ansimava copiosamente, cercando disperaramnete l’aria.
    La sua pelle era coperta dalle macchie verdastre e il suo viso, un tempo sereno e lieto, era contratto in una smorfia di dolore.
    Katie tossiva convulsamente, tirandosi a sedere a forza.
    - A.. aiutatemi…
    Emia fu subito da lei, la abbracciò e la rimise a letto, bisbigliandole parole di conforto.
    Al suo tocco, gelido eppure rassicurante, Katie si tranquillizzò.
    Emia le impose le mani sopra il torace e chiuse gli occhi concentrandosi.
    Le sue mani si accesero di una luce dorata e lei infuse l’energia sacra della sua magia nel corpo della donna, recitando una dolce litania.
    Lo strano rito durò alcuni minuti interminabili. Poi si concluse bruscamente.
    Katie si rilassò e si distese. Il respiro le tornò regolare, e il dolore si ridusse, anche se la febbre non accennava a scendere di molto dopo quel trattamento.

    Emia la accarezzò dolcemente, finché la donna non si riaddormentò. Poi si alzò e uscì dalla stanza, desiderosa di andare a riposarsi nuovamente.
    Jeff la lasciò andare, e si sedette al capezzale della madre, preoccupato e spaventato come era da sempre in quei giorni. Continuava a maledire fra se e se l’ultima volta che erano andati a Langskar, a trovare i loro zii e cugini vasai, quando l’epidemia stava ancora iniziando a manifestarsi.
    Era avvenuto una settimana prima,
    Avevano mangiato e bevuto al loro desco, e ovviamente, consumato l’acqua proveniente dalla fontana.
    Era stata una giornata allegra e piacevole, e alla fine, verso sera, erano ritornati nella loro fattoria.
    Il giorno dopo, però sia loro che i loro parenti rimasti in città, avevano iniziato a sentirsi male.
    Per gli artigiani, il decorso fu lo stesso di tutti gli abitanti di Langskar: tendenzialmente infausto.
    Per la famiglia di contadini, invece, fu particolare.
    Forse perché Louis e Jeff avevano un fisico forte, temprato dal lavoro dei campi e dalla vita all’aria aperta in mezzo a quelle montagne, ma loro resistettero molto bene alla malattia e accusarono solo lievi sintomi. Stett4ero male solo tre o quattro giorni, con qualche linea di febbre, ma poi si rimisero in fredda.
    Lo stesso non si poteva dire di Katie, che invece, aveva contratto il morbo in maniera particolarmente violenta. Era sempre stata una donna forte: da giovane aveva assistito alla morte della propria famiglia sterminata dagli zephonim che avevano invaso le fattorie vicino ad Uschtenheilm.
    Sarebbe successo anche a lei, se Asgarath, all’epoca ancora Novizio, non fosse stato mandato dal suo sire Respen a dar la caccia ai ragni, circostanza in cui aveva avuto modo di salvarle la vita.
    All’epoca lei era ancora una bambina, ma non avrebbe mai dimenticato quella notte, in cui il druido l’aveva difesa dall’aracnide che stava per sopraffarla nella sua camera da letto.
    Il druido l’aveva curata amorevolmente, e aveva badato a lei, poi l’aveva condotta ad Uschtenheilm.
    Katie era andata a vivere con i suoi zii artigiani, mentre lui aveva vendicato la sau famiglia, dando l’assalto al tumulo in cui dimoravano i ragni con l’aiuto dei soldati che gli aveva fornito il borgomastro, inorridito dal venire a sapere di quanto avvenuto alla bambina.
    Negli anni successivi, Katie aveva vissuto ad Uschtenheilm, crescendo con i suoi parenti.
    Alla fine si era rifatta una vita e si era sposata ma non aveva mai dimenticato le sue origini. Così si trasferì a Langskar con suo marito. Ottennero un prestito dalla banca del villaggio e costruirono una fattoria tutta loro, fra le montagne.
    Era una vita dura, ma la bellezza dei paesaggi e la bontà dei frutti ottenuti dalla terra li ripagavano enormemente, come anche la nascita dei due figli che ebbero.
    Già, il marito. Anche lui aveva contratto il morbo, e purtroppo non ce l’aveva fatta.
    I figli l’avevano trovato morto la mattina in cui si erano sfebbrati.
    Avevano seppellito il padre e avevano discusso animatamente sul da farsi.
    In loro c’era qualcosa di particolare, qualcosa per cui il virus non era riuscito ad attecchire nei loro corpi.
    Alla fine, la madre era peggiorata bruscamente.
    Così i due avevano preso una decisione: Jeff era rimasto a prendersi cura di lei, Louis era corso a Langskar a cercare aiuto. Sperava nell’appoggio dei sarafan e dei suoi zii, ma non l’avevano nemmeno fatto entrare, e sarebbe stato anche ucciso dalla sentinella se non fosse stato per Emia e il druido.
    Già, Louis.
    Emia lo trovò in cucina, che stava preparando la colazione.
    - Ciao. Vuoi qualcosa?
    - Sì, grazie. Prepara del cibo anche per Katie. Deve bere e mangiare, anche se non ne ha voglia, o il virus la sconfiggerà.
    Louis, annuì, grave in volto.
    - Pensi che se la caverà?
    Emia si afflosciò sulla sedia.
    - Scusami. Sono molto stanca. Io posso usare la mia magia per tenerla in vita, paralizzando la crescita e la propagazione del morbo, ma non ho forze e risorse illimitate.
    Se il suo corpo non reagisce e non trova il modo di sconfiggere il male come ha fatto il vostro…
    Louis distolse lo sguardo, e rimase in silenzio.
    Dannazione. Era tutto così folle!
    Se solo quello strano essere che aveva salvato la loro madre da bambina fosse con loro… chissà… lei ne aveva parlato spesso delle creature dei Pilastri… Chissà se avrebbero potuto aiutarli…
    Soppesò l’idea di partire per raggiunger le colonne sacre, ma non poteva abbandonare Emia e Jeff da soli con la madre.
    Ma poi, la misteriosa guaritrice… perché non aveva la minima paura del morbo come gli altri?
    Louis se lo domandava continuamente, ma al momento era troppo sconvolto e scioccato per cercare una risposta o sospettare qualcosa.
    Predispose il cibo per la madre e il fratello e servì ad Emia latte, crostata, burro, uova e marmellata e si
    mise a mangiare anche lui.
    La fanciulla gli sorrise timidamente, mangiando di gusto.
    Ma nessuno di loro era allegro.
    A questo punto, tutto dipendeva da quello che stava avvenendo a Langskar.
    Ci sarebbe voluto un miracolo…

    Atto VIII Cavie



    L’ascensore si fermò emettendo un sonore sbuffo di vapore, e Asgarath ne discese guardandosi attorno con fare circospetto.
    Evocò la mietitrice di fuoco, sia per esser pronto a fronteggiare eventuali pericoli, sia perché avrebbe rischiarato l’ambiente senza però esser vistosa come quella di luce, che se da un lato gli avrebbe permesso di vedere meglio in quella totale oscurità, avrebbe fatto lo stesso anche per eventuali sentinelle.
    Camminò a passo felpato in quel vasto ambiente sotterraneo immerse nelle tenebre più nere, e si rese conto di essere in un grande magazzino dove erano depositate pozioni, unguenti, materiale sanitario, e casse di cibo e vivande.
    Chiaramente, le cose arrivate dalla carovana quella notte, erano state messe lì da chi di dovere.
    Il druido vagò per qualche minuto, incerto sul da farsi.
    Non vi era molto da vedere in quel dedalo di corridoi, ripiani e scaffalature. Il magazzino era buio, vuoto, deserto e polveroso, senza nessuno in vista.
    O almeno così pareva.
    Eppure, c’era qualcosa che non lo convinceva, e si sentiva osservato già da un po’.
    Un paio di volte si voltò di scatto per vedere se qualcuno lo seguisse, ma non trovò nessuno.
    E presto si rese anche conto di girare in tondo. Il magazzino era chiuso. Vi era solo quell’ascensore per accedervi,e un secondo montacarichi, che probabilmente conduceva alle stalle o a qualche ambiente collegato ad esse, dalle quali le merci erano state calate lì sotto.
    Dannazione. Possibile che lì non ci fosse niente?
    Stava quasi per tornare indietro, iniziando seriamente a dubitare di aver fatto la cosa giusta. Forse la risposta non si trovava nell’ospedale, forse si trovava in qualche altro luogo, e quel posto era uno specchitto per le allodole.
    Stava ponderando tale probabilità quando un dardo di luce glifica saettò da un angolo dell’oscurità, trafiggendolo il suo costato.
    Sussultò dalla sorpresa e si mise le mani sull’addome, piegandosi dal dolore.
    Prima ancora che potesse reagire, o alzare lo sguardo verso l’assalitore, venne scoccato un altro colpo di balestra.
    La sua testa esplose in mille pezzi.

    Larsa non amava molto sorvegliare il magazzino, ma era sempre meglio dell’infame compito che era toccato al suo commilitone Gheor che era stato destinato all’obitorio.
    La donna aveva fatto bene ad acquattarsi e a nascondersi quando aveva visto che l’elevatore era stato attivato.
    Il turno di servizio dei magazzinieri doveva ancora iniziare, e non erano previste nuove spedizioni o prelievo di roba prima di mezzogiorno, quindi perché era in funzione?
    La sua intuizione si era rivelata corretta, e così aveva visto l’essere. Lo stesso essere che era capitombolato con la frana.
    Un mietitore? Ed era arrivato fino a lì?
    Non ci pensò due volte, sapeva che se fosse stata scoperta a sua volta non avrebbe avuto possibilità quindi
    Attaccò per prima, e sfruttando il buio e l’effetto sorpresa, mise a segno i suoi colpi.
    Ma non esultò. Sapeva che quelle creature potevano tornare dalla morte.
    Quindi andò verso l’elevatore e lo azionò, risalendo ai piani superiori per dare l’allarme.
    Tanto, quel magazzino sembrava chiuso. Il mietitore era spacciato.

    Se Larsa fosse stata di stanza al lazzaretto e alla guarnigione da lungo tempo, avrebbe scoperto che l’apparenza delle cose spesso ingannava.
    Quanto ad Asgarath, stava appena iniziando a riaversi.
    Il mondo era turbinato furiosamente, tanto da costringer la sua anima a piegarsi sulle ginocchia e a reggersi la testa massaggiandosi l’addome, tanto era forte il dolore delle armi glifiche che avevano distrutto il suo corpo fisico.
    Trascorse, un minuto prima che finalmente la testa si snebbiasse e il mondo smettesse di vorticare.
    Il druido, ansimante, riprese lentamente la padronanza di se stesso, riavendosi dallo stordimento.
    Che cosa gli era successo? Ah sì, era stato colpito da una sentinella.
    Il che significava che era stato scoperto! Non c’era tempo da perdere.
    Si tirò in piedi con uno sforzo e si mise a perlustrare furiosamente l’ambiente in cerca di portali, abbattendo gli sluagh che incontrava e consumandone le anime.
    Notò che vi erano parecchie anime piangenti, nonostante i due sciacalli, cosa che lo insospettì. A quanto pareva, forse non si era sbagliato.
    Divorò alcune delle apparizioni per riprendere completamente le sue forze, poi continuò la sua ricerca.
    Durante il suo rapido girovagare, notò che una sezione di un muro del magazzino, era sconnessa rispetto al resto della parete, e che mattonelle erano disallineate .
    Questo non era visibile dal regno materiale a causa dell’oscurità, ma nel mondo spettrale, alla tenue e immota luce diafana che permeava quella dimensione, certi dettagli balzavano subito all’occhio.
    Eggià, la morte era un grande insegnante, a volte.
    Il druido trovò un portale fra due scaffalature poco distanti, ma dovette setacciare l magazzino fino al suo piano superiore per scoprirlo. Lo utilizzò e riprese materia.
    Evocò la spada di fuoco e si diresse rapidamente verso la parete sospetta che aveva visto nel regno spettrale.
    Si aspettava di combattere con la cacciatrice ma non la trovò. In compenso vide che aveva utilizzato l’ascensore a pistone per risalire.
    Comprese quindi che era andata a dare l’allarme e che presto avrebbe avuto un’agguerrita compagnia.
    Doveva fare in fretta!
    Senza ulteriore indugio, raggiunse quindi la parete sconnessa. La tastò con le dita trifide, esaminandola con la mietitrice di luce.
    Bussò con la lama ardente laddove le mattonelle erano disallineate al resto, e sentì che la roccia faceva un suono che tradiva uno spazio vuoto retrostante.
    I sensi confermavano quindi quel che aveva visto nel regno spettrale: un passaggio segreto!
    Restava da capire come fare ad attivarlo.
    Iniziò a tastare e a premere tutte le mattonelle del muro, ma non ottenne niente, e perse un minuto prezioso.
    “Oh, dannazione!” furioso, si mosse per l’ambiente circostante, cercando disperatamente una soluzione.
    Nella concitazione del momento, inciampò contro una piccola cassa che lo fece tombolare per terra.
    TLAK.

    “Tlak?” E da quando le casse facevano “Tlak?”
    Si rialzò e provo a muoverla, ma non si spostava, né riusciva a staccarla dal pavimento, a cui era fissata.
    Provò quindi a ruotarla, e la cassa emise un altro suono secco.
    Si udì lo sfregare della roccia contro la roccia, e la sezione del muro iniziò a spostarsi verso l’interno, per poi scorrere di lato.
    Tombola.
    Asgarath si fiondò dentro quel budello, e vide che dall’altra parte del passaggio, vi era una leva di pietra.
    La spostò verso l’alto e il passaggio segreto si richiuse.
    Con la lama lucente fra le mani, il druido si incamminò in quell’oscuro budello.

    Larsa, nel frattempo, era tornata di sopra, si era bardata per poter entrare nei reparti dove vi erano gli appestati e aveva raggiunto l’ufficio del direttore del lazzaretto, informandolo di quanto avvenuto.
    Egli fece squillare l’allarme generale e le sirene azionate dalle macchine glifiche allarmarono l’intero villaggio.
    Bardati degli esoscheletri, i sarafan uscirono per le strade, riversandosi dalla guarnigione.
    Assieme a loro vi era anche Harold, il comandante delle forze armate della città, un guerriero alto, nerboruto, dal mantello rosso, l’elmo frigio, il viso bardato da una visiera munita di filtri e l’armatura glifica, armato di spadone runico e di guanti d’arme speciali, forgiati in modo da bloccare artigli e lame nemiche.
    Costui si mise a dare ordini a destra e manca: gli arcieri giunti con la carovana, avevano il compito di pattugliare le strade e presidiarle, impedendo ogni via di fuga, mentre i fanti e gli altri combattenti avrebbero sorvegliato l’esterno del lazzaretto.
    Fatto ciò, entrò nell’ospedale, venne ricevuto dal direttore e convenne con la mercenaria, che riferì quanto aveva visto e quanto era successo.
    Il comandante le ordinò quindi di condurre lui e le sue due guardie del corpo, due robusti sarafan dagli elmi cornuti armati di alabarde, verso il magazzino.
    Durante il viaggio, passarono anche per l’obitorio e sentirono delle grida e delle urla e dei rimbombi provenire… dal forno crematorio.
    Furono abbastanza sconcertati a trovarvi dentro il cacciatore Gheor, che chiamava disperatamente aiuto.
    - Che cosa è successo?
    - Comandante Harold, Larsa! Non sapete quanto son sollevato di vedervi!
    - Meno chiacchiere e rispondimi. C’è un mietitore a zonzo per il villaggio!
    - Un… Mietitore? Oh… accidenti, ecco cosa avevamo visto stanotte! Deve esser stato a lui colpirmi!
    Gheor raccontò quel che gli era successo.
    Lo spettro era penetrato nel lazzaretto passando dal.. forno crematorio? Ne sapevano una più del diavolo!
    Terminate le spiegazioni, il drappello si diresse nel magazzino, pronto a catturare l’intruso e ad interrogarlo.
    Ma non lo trovarono. E anche loro, si ritrovarono a brancolare nel buio.
    Ci misero molto tempo, prima di scoprire il passaggio segreto…

    Nel frattempo, Asgarath svoltò un paio di curve del passaggio, fino a intravedere in lontano chiarore verdastro.
    Quel colore irreale lo insospettì. Spense la mietitrice infuocata in modo da ridurre il rischio di essere scorto e si mise a camminare di soppiatto.
    Emerse in una vasta grotta sotterranea che di naturale aveva ben poco già dal modo in cui era illuminata: era rischiarata da lampadari appesi al soffitto con delle catene, recanti dei grandi globi luminescenti nei quali ardevano fiamme verdastre.
    Sembrava il sancta sanctorum dei laboratori alchemici, ma quella strumentazione e quell’equipaggiamento…
    Il druido rimase sconvolto.
    Sia la volta che le pareti e il pavimento, erano coperte da lastre metalliche ad incastro esagonale.
    Il soffitto era percorso da grandi tubature in cui scorreva un fluido verdastro e luminescente, che emetteva la stessa sinistra luce delle barriere glifiche.
    Il liquido fluiva in dei grandi serbatoi che si trovavano agganciati lungo i muri, da cui partivano altre tubazioni orizzontali, che si snodavano lungo i corridoi laterali, correndo a mezz’altezza.
    Va detto che lo stesso androne non aveva la solita forma quadrata o rettangolare, ma che era esagonale.
    Asgarath comprese che quel posto non era stato edificato da esseri umani, e che probabilmente, si trovava lì da chissà quanto tempo. Dov’era capitato?
    Il corridoio si biforcava in due direzioni.
    Decise di andare in quella a destra.
    Fu una strada abbastanza lunga, ma dopo qualche svolta giunse ad una camera sotterranea dove, alla luce dei globi verdastri appesi alle volte, poteva veder una scena raccapricciante.
    Corpi. Decine di corpi vivisezionati, fatti a pezzi, squartati e aperti con strumenti chirurgici, giacevano interti su tavoli metallici.
    Erano difficili da riconoscere, perché molti erano stati orrendamente sfigurati, ma erano parecchi.
    Uomini, donne, e perfino bambini, tutti dagli occhi vuoti, sbarrati in smorfie d’orrore e agonia, con la pelle coperta dalle macchie verdastre tipiche del morbo.
    Il pavimento era sporco di sangue secco e umori organici.
    Qua e là vi erano degli scaffali, nei muri, sui quali gli strumenti usati per compiere tale massacro erano appesi a delle rastrelliere.
    Quello che più inquietò il druido, però, era la mensola su cui si trovavano file e file di vasi e recipienti di vetro, nei quali immersi nel fluido luminescente, fluttuavano gli organi espiantati dalle vittime.
    Il druido si affrettò a distogliere lo sguardo. Era troppo orrendo, perfino per una creatura
    Non si aspettava una simile carneficina. Chi mai avrebbe potuto far una cosa del genere? Sembrava talmente folle…
    Non ci voleva un genio per capire da dove provenivano quei corpi: erano quelli che non erano stati cremati, i cadaveri delle vittime del morbo. A riprova di questo, vi era il fatto che, da un lato della grotta, si trovava una grande struttura simile ad un montacarichi. Non sapeva dove conducesse quell’elevatore, ma era chiaro che portava al punto dove venivano davvero smistati i cadaveri nel lazzaretto.
    A questo punto, bisogna comprendere due cose: i sarafan erano responsabili di quell’efferato massacro? Possibile che nella loro fanatica follia si fossero spinti a tanto?
    Nemmeno Nevar era stato così spietato. Oppure…
    Oppure c’era altro dietro a questo, e loro ne erano all’oscuro. Possibile? Una cospirazione dentro allo stesso ordine? Ma chi mai avrebbe potuto fare una cosa simile?
    Il druido si affrettò a lasciare la camera.
    Non c’era niente là che sembrasse una cura o un antidoto al morbo, non vi era nessun laboratorio, e nessuna scorta di fiale o di campioni alchemici.
    Era semplicemente un magazzino di organi estratti dagli infetti.
    Si stupì di una cosa: che non vi fosse niente e nessuno a guardia di quella camera. Questo poteva significare che chiunque fosse l’autore di quel massacro, si sentiva abbastanza spavaldo da non aver bisogno di sentinelle o protettori.
    Questo gli fece capire che doveva esser ancora più circospetto.
    Fu quindi con estrema attenzione che ritornò sui passi. Raggiunta la biforcazione, si fermò un attimo a riprendersi dal disgusto.
    Poi si incamminò nella via che prima aveva tralasciato.
    Percorse un lungo tunnel che discendeva a spirale sottoterra, sempre più in profondità, senza mai incontrar e anima viva.
    Alla fine, giunse ad una grande camera, in cui fece una scoperta, forse, ancora più terrificante della precedente: decine e decine di persone si trovavano sdraiate su file e file di tavoli di metallo, prive di conoscenza.
    Si avvicinò cautamente ad esaminarle e vide che erano tenute in vita forzatamente: delle strane apparecchiature simili ad elettrodi erano collegati ai loro costati, rilasciando deboli scariche elettriche a intervalli regolari, mentre dal soffitto pendevano dei grossi mantici e polmoni d’acciaio erano agganciati ai loro nasi e alle loro bocche, immettendo aria nei loro polmoni ad un ritmo più lento.
    Quel che lo spaventò più di tutto questo, però, fu la presenza di numerose coppie di tubi in cui scorreva lo strano fluido visto nei serbatoi ciascuna era collegata ad un corpo e terminava con cannule munite di aghi metallici.
    Questi ultimi penetravano dentro le vene delle loro braccia.
    Asgarath osservò meglio quelle persone, e vide che avevano un aspetto scarno, malaticcio. In quelli che sembravano lì da minor tempo la pelle presentava già evidenti segni di cancrena.
    In quelli che invece erano lì da maggior tempo… I loro corpi erano decisamente abnormi: erano molto esili e scheletrici, emaciati. Le ossa erano deformate: in alcuni, le radio erano cresciute in un modo abnorme, perforando la carne, diventando delle lame ossee taglienti che si estendevano dietro i gomiti, verso le spalle.
    Notò anche un’altra cosa: i corpi perdevano gradualmente i capelli, che spesso si trovavano sparpagliati tutt’attorno ai tavoli, per terra
    E… il loro volto…
    Le narici erano rientrate, e si riducevano quasi a piccole fessure.
    La fronte, invece, era molto prominente,e in molti stava lentamente sviluppandosi a formare una cresta ossea frastagliata.
    Riconobbe quell’aspetto abominevole.
    L’aveva visto molto tempo prima nei murales della cittadella degli antichi vampiri.
    L’aveva visto nei libri.
    E una volta, ad Avernus… aveva incontrato un esponente della stessa specie, Kang’er’nek, quando, assieme a Xado e ad altri mietitori, vendette cara la pelle per fermare un orribile rito demoniaco che, se portato a termine avrebbe permesso alle creature della dimensione prigione di controllare tutti gli abitanti della città.,
    Quegli umani… erano ibridi. Si stavano tramutando in hylden! Bastava solo che venissero posseduti da quelli intrappolati nella dimensione prigione e…
    - Dum de dum… trallalà…
    Una sinistra cantilena risuonò improvvisamente nell’aria.
    Asgarath assalì. Comprese che non era da solo in quel posto orribile.
    Chiunque ci fosse dietro a tutto quello, stava per incontrarlo.
     
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    Atto IX Siamo tornati!




    In fondo alla grande camera vi era un altro laboratorio di alchimia e medicina, ancora più attrezzato di quello che aveva visto nell’obitorio.
    Il druido rimase sconcertato dalla presenza di macchine avveniristiche e futuribili, come mai ne aveva visto prima di allora, e di grandi scatole metalliche dagli schermi su cui campeggiavano moli di scritte, di dati e di diagrammi.
    Al confronto, il laboratorio dell’obitorio era quello di un dilettante alle prime armi.
    Da dove veniva tutta quella tecnologia? Non era umana.
    La risposta era proprio lì: fra i monitor, infatti, si trovava una figura rattrappita e adunca, china su un tavolo in cui stava trafficando con degli strumenti di laboratorio, canticchiando, a modo suo, allegramente.
    Asgarath si avvicinò sempre di più.
    L’hylden si accorse della sua presenza ma non si voltò.
    - Non mi sembra che oggi avessimo appuntamento,direttore Lenzer.
    Il druido evocò la mietitrice di fuoco.
    - Non credo di essere quel che tu pensi che io sia, Hylden.
    Sentendo ruggire la spada fiammeggiante, lo scienziato smise di fare quel che stava facendo e si voltò verso di lui.
    - Hai ragione, tu non sei Lenzer. Sei un mietitore, uno di quelli che vivono ai Pilastri, vero? Fammi indovinare… Bleed? No, lui è il guerriero, tu sembri… Ah, certo. Chiaro. Bleed è un formidabile guerriero ma non saprebbe distinguere un acido da una base. Fammi indovinare. Avete udito quel che stava avvenendo qua a Langskar, e sei stato mandato ad indagare, nevvero? – disse l’Hylden, e un ghigno compiaciuto gli si dipinse nel volto emaciato.
    - Inutile negarlo, vile. Con chi ho il dispiacere di parlare?
    - Gal’Shi’Zan, per servirti. – rispose l’hylden con un malevolo inchino. – Ma gli amici mi chiamano Shi’zan.
    - Non credevo che voi hylden sapeste cosa fosse l’amicizia.
    - In verità, conosciamo anche l’amore, ma la mia controparte, Gar’Nah’Lek, è ancora intrappolata nella dimensione dei demoni.
    - Ah, mi dispiace proprio…
    - Sì, immagino. – Shi’zan ridacchiò. – Suppongo che, prima di ucciderti tu voglia sapere che sta succedendo qua… Beh potrei anche renderti partecipe della mia ricerca, ma credo che tu l’abbia capito da solo, no?
    - Sei stato tu a creare questa piaga mostruosa, vero?
    - Modestamente! Ho preso il virus della comune influenza e raffreddore che colpisce quei patetici trogloditi, e l’ho trasmutato.
    L’hylden si avvicinò ai monitor e passò la mano su alcuni sensori. Apparvero alcune immagini del virus ingrandito, che mostravano la sua struttura molecolare.
    - Vedi? Devi sapere che dentro alle cellule, nei nuclei, si trovano dei filamenti depositari di tutte le informazioni che fanno di una creatura ciò che è. – disse, additando un simbolo a lato, raffigurante una struttura a doppia elica.
    - Grazie a quei codici, un albero è un albero, un umano è un umano e così via…
    - Chiaro. E tu sei capace di manipolare questo… codice di ogni forma di vita?
    - Precisamente.
    Asgarath scosse la testa disgustato.
    - è… abominevole. Ti stai sostituendo a…
    - A chi? A un dio? E quale? Quello che i tuoi antenati veneravano e che gli ha scagliati contro di noi, solo per la colpa di non esser stati della stessa idea e di aver le nostre credenze?
    - Non dire sciocchezze. Quello non è un dio. Gli antichi vampiri sono stati ingannati dalle sue menzogne. Voi sembrate sapere quale fosse la sua vera natura. Perché non gliel’avete rivelato?
    - Sciocco. Secondo te, erano disposti ad ascoltare? Ci hanno attaccato per primi. La prima volta, fecero un massacro. Uccisero tutti, anche le nostre donne e i nostri giovani. Ma ci riprendemmo in fretta. All’incontro successivo, li ripagammo con la stessa moneta…
    - Potevate sempre trovar un’altra soluzione, invece di risponder all’odio con l’odio…
    - Beh, adesso è un po’ tardi per pensarci, non credi? – ghignò la creatura.
    Asgarath osservò il laboratorio.
    - Questa struttura…non è umana.
    - Oh, questo è un piccolo avamposto della mia specie, che venne costruito durante la guerra contro gli antichi alati. In realtà questo era poco più che un magazzino e un centro di rifornimento per le nostre truppe. Sai, all’epoca noi dimoravamo ad Avernus…
    - Avernus… questo spiega quel che trovai tempo fa sotto le sue catacombe, e l’origine di quei cunicoli. Spiega anche perché lì le energie del regno dei demoni sono così forti…
    - Beh, sai, costruimmo quei tunnel per facilitare le nostre comunicazioni… venivano usati anche per evocare le creature della dimensione in cui poi, ironicamente, siamo stati esiliati.
    Una volta soggiogati, i demoni sono ottimi cavalli da guerra. Abbiamo vinto parecchie battaglie per merito loro.
    - Ci sono altri posti come questo, a Nosgoth?
    L’hylden sorrise.
    - Parecchi, nei posti più impensabili. Ma non verrò certo a dire a te della loro ubicazione. Mi sto spazientendo mietitore, e la mia ricerca deve andare avanti. Ti concedo altri cinque minuti di conversazione.
    - Va bene. Parlami di te, Shi’zan. Come hai fatto a… ad assumere quella forma?
    - Ah, questo corpo? Beh, mi sono semplicemente impadronito di un corpo umano, un alchimista di Avernus che già di suo era dedito a riti demoniaci, e che quindi, è stato facile da influenzare e controllare. A quel punto, sono andato dal nostro amato generale…
    - Hash ‘ak’gik? E come sta?
    - Abbastanza infuriato. Ma la sua rabbia è solo pari alla soddisfazione di aver tolto di mezzo il vostro Guardiano del Conflitto. La prossima volta, capitolerete di sicuro, è solo questione di tempo!
    - Non penso che gli permetteremo di aver un’altra occasione…
    - Vuoi sentire la fine della storia, o vuoi iniziare già le danze?
    I due iniziarono a girar l’uno attorno all’altro, studiandosi.
    - Continua.
    - Come dicevo, sono andato da lui, e mi diede questo incarico. Allora ho visitato gli antichi insediamenti della mia specie. Trovai un laboratorio segreto, di cui non ti dirò la posizione. Non c’è rimasto molto da usare dopo millenni di disuso e rovina, ma ho trovato quel che mi serviva: un campione del nostro genoma.
    - Che poi hai introdotto nel virus, creando questa chimera mostruosa?
    - Già, bravo druidino. Il virus mutato si propaga molto bene nell’acqua, quindi è bastato avvelenare gli approvvigionamenti del villaggio attraverso il sistema idrico del suo mulino per colpire la popolazione. in questo, ho avuto l’aiuto del direttore Lenzer.
    - Perché mai il direttore di un ospedale avrebbe dovuto venire a patti con te? Non si è allarmato a veder la tua vera forma?
    - Alla prima domanda posso rispondere con… denaro? Prestigio? Gloria? La promessa dell’incolumità per sé e per i suoi cari? Oppure per il semplice fatto che gli ho fatto credere che la mia ricerca vi avrebbe spazzati via tutti? Lui pensa che quel che sta succedendo agli umani sia solo una prova, e che abbia creato questo per colpire voi vampiri e mietitori. Che ingenuo. La non vita vi protegge dai virus… Da noi.
    - Per la prima volta, sono quasi grato di essere un immortale.
    Gal’Shi’Zan rise di gusto.
    - Per rispondere alla tua seconda domanda…
    L’Hylden mosse una mano, e fu avvolto da una nube lucente.
    Quando si dissolve, aveva l’aspetto di un comune umano, un chierico sarafan.
    - Come vedi, noi possiamo assumere tante forme. È per questo che non riuscirete mai a fermarci! Noi possiamo divenire chiunque e colpire dovunque! Quanto al virus… Non si può dire che io non abbia spirito di sacrificio, sai… l’ho provato prima su questo corpo, per esser sicuro che funzionasse!
    - E il tuo ospite non è morto? .
    - Gli ospiti non sempre muoiono. Se fosse morto, me ne sarei cercato un altro. Ma è andata bene. Così ho preparato il reagente, che penso che tu abbia visto nei serbatoi all’ingresso, e me lo sono iniettato.
    Asgarath guardò i corpi distesi sui tavoli della grande camera adiacente, e indicò i tubi dai quali il liquido veniva immesso nei loro corpi.
    - Suppongo che sia quella roba, vero? Quindi è a questo che ti serviva sparger l’epidemia? Sei un demonio!
    - Sì, adulami pure. Sono molto compiaciuto del mio lavoro.
    - Usano quelli umani come cavie per creare ibridi? A che gioco state giocando?
    - Non l’hai ancora capito? Impossessarsi degli umani è limitante per la mia genia: i loro corpi sono fragili e non reggono a lungo alla possessione, inoltre, questo limita i nostri poteri e il nostro potenziale.
    Purtroppo, i nostri antichi corpi sono andati perduti da millenni, quindi l’unica era crearne di nuovi.
    Il virus uccide gli umani. Per i morti, c’è poco da fare. Ma come forse hai visto, sono ottimi come fonte per organi e innesti che possono tornar utili per migliorare gli ibridi e mantenerli in vita…
    - Però… non tutti muoiono…
    - Alcune persone, sembra che siano in grado di guarire al virus, proprio come è successo al mio corpo. Sono loro che mi interessano. I sarafan hanno condotto i guariti all’ospedale, con la scusa di far analisi per trovar un rimedio al morbo, e Lenzer poi ha fatto in modo di farmeli pervenire.
    Una volta sedati e tenuti in animazione sospesa, gli inietto il reagente, e ha inizio la loro mutazione… E così, finalmente, abbiamo a disposizione nuova carne! Presto torneremo, più forti che mai!
    - Terrificante… - disse Asgarath , guardando sgomento le cavie sui tavoli.
    - Ma utile. Che mai sarà la vita di qualche misero umano di fronte alla nuova era di gloria che porteremo a Nosgoth? Creeremo un mondo nuovo! Un mondo senza di voi, con gli umani ai nostri piedi! E il bello, è che nessuno si accorgerà mai di niente! Una volta che l’Alleanza spirerà come un mormorio sommesso, non ci sarà più nessuno che ci impedirà di raggiungere il nostro scopo…
    Asgarath non riuscì più a trattenersi. Balzò addosso all’Hylden, lo afferrò per il collo e lo sollevò da terra.
    - Dovrai passare sui nostri corpi immortali!
    - Su questo non ho alcun problema! – L’hylden mosse le braccia e scagliò un potente glifo di forza che allontanò Asgarath
    - Sai, può anche risparmiarti la fatica. Il primo carico di corpi mutati è già partito. E, ovviamente, non ti dirò dove la mia specie prenderà di nuovo forma…
    Poi, attaccò.

    Il druido si rialzò di scatto con una capriola. L’Hylden svanì nel nulla, cosa che stupì il druido.
    Riapparve alle sue spalle in un bagliore verdastro e gli assestò un fortissimo calcio che lo mandò a sbattere contro uno dei tavoli. Un teletrasportatore… splendido…
    Asgarath si trattenne dal contrattaccare, ma intanto inziò a caricarsi di magia a sua volta.
    L’Hylden si teletrasportò di nuovo. Apparve al suo fianco, pronto a piantargli gli artigli nell’addome ma non ci riuscì: il glifo di forza di Asgarath gli esplose a bruciapelo, respingendolo e facendolo tombolare per il salone con un grido.
    Prima ancora che potesse riaversi, Asgarath lo tempestò di fiamme azzurre, che si abbatterono su di lui come un maglio, ardendo le sue apostate carni.
    L’Hylden gridò davvero di dolore stavolta, e faticò a reagire e ad alzarsi, colto di sorpresa da quella magia sconosciuta e così pericolosa per lui.
    Asgarath incalzò le fiamme e mentre continuava a scagliarle corse verso di lui.
    Ma, seppur avvolto dalle fiamme azzurre e mezzo ustionato, l’Hylden alzò le mani in aria ed emise dalle mani un bagliore accecante. Il Glifo di luce.
    Accidenti. Se Asgarath fosse stato un vampiro alle prime armi, la sua missione si sarebbe conclusa in quell’istante.
    Invece, ne rimase solo abbagliato. Ma questo permise all’hylden di teletrasportarsi via.
    Asgarath cercò di orientarsi, ma il bagliore era stato talmente forte che ancora gli bruciavano gli occhi.
    L’Hylden lo canzonò, da qualche parte attorno a lui.
    - Sei già stanco, druido?
    - Urgh… Ho… appena iniziato! Appena ti prendo…
    L’Hylden rise.
    - Sai… devo ammettere che ti ho sottovalutato, credevo che non esistesse una magia così potente contro la mia specie… - disse con una voce sofferta
    - Ma anche io ne ho una! – l’Hylden riapparve alle sue spalle e lo tempestò di fiamme verdastre, scagliate dalle sue mani, un fuoco glifico che era veleno e che corrodeva tanto il corpo quanto l’anima.
    Asgarath gridò di dolore. Cercò di voltarsi, di reagire, di evocare la sua magia, ma quell’attacco era davvero terribile e lo privava di ogni difesa. Se fosse rimasto, avrebbe finito col farsi distruggere.
    Si costrinse dunque a dissolvere il corpo fisico, fuggendo nel regno spettrale.
    Shi’zan rise trionfante.
    - Ma come? Te ne vai già?
    Era stato più facile di quanto pensasse… se questa era la forza dell’Alleanza, Nosgoth era già nelle loro mani.

    Nel regno spettrale, il mondo vorticava furiosamente, e il veleno delle fiamme stregate consumava il druido. Dannazione, questo era potente, assai più di quello che gli avevano inflitto gli emissari di William a Natcholm.
    Il druido comprese che doveva trovar qualche modo di contrastare quel veleno spirituale, e fare anche in fretta, prima che dissolvesse la sua anima. Così, appena i capogiri si attenuarono, si tirò in piedi e divorò due anime spaurite di alcune cavie morte nel processo di ibridazione, che in quel momento aleggiavano davanti a lui.
    L’effetto psicotropo del veleno si attenuò e la stanza smise di girare.
    Si sentì abbastanza in forza da reggersi in piedi. Si trascinò quindi per quell’antica enclave, cercando altro sostentamento.
    Trovò un paio di sluagh nel corridoio e non esitò ad abbatterli e a cibarsene per rigenerarsi ulteriormente.
    Giunse quindi alla stanza dove avvenivano le vivisezioni. Vi era un portale al suo centro esatto, e un paio di sluagh che vi giravano attorno. Purtroppo, avevano fatto piazza pulita di quasi tutti gli spiriti. Ne restavano solo alcuni che aleggiavano vicino alla volta della grotta, e che erano sfuggiti alla loro bramosia tenendosi prudentemente alla loro portata dopo aver assistito alla fine inclemente dei propri simili.
    Asgarath abbatté gli sciacalli con la reaver spettrale e si ritemprò. L’effetto del veleno finalmente, svanì. Ritemprato dalle forze, si apprestò ad usare il portale.
    Stava per ritornare alla camera di ibridazione, ma si fermò.
    No, no no. Doveva usar la testa. Non poteva far altri errori, o non avrebbe avuto modo di salvarsi dalla magia del suo nemico. Gli doleva ammetterlo, ma era chiaro che Gal’Shi’Zan conosceva tanti incantesimi quanti ne conosceva lui. Non avrebbe potuto sconfiggerlo con un semplice duello.
    Asgarath rifletté e comprese che alla fine, la cosa migliore da fare, era attendere.
    Così, si nascose dietro la colonna, e non si mosse di lì, sperando che l’hylden non fosse paziente quanto lui.

    Passarono i minuti, e divennero mezz’ora, e il druido non fece ritorno. Gal’Shi’Zan era perplesso. Possibile che l’avesse già distrutto? Mannò, il suo corpo e il suo spirito non erano esplosi… No, no no, il druido era passato nel regno spettrale volontariamente per sottrarsi alla sua magia, era chiaro. Purtroppo non era un evocatore, ma solo uno scienziato e un fabbro dei glifi e come tale non poteva mandargli dietro un demone per finirlo. Quelle cose le sapeva fare la sua consorte, ma lei era ancora prigioniera… Ah, se solo fosse stata con lui.
    L’Hylden si stufò e si spazientì. Decise di andare a cercar il mietitore per finirlo di persona, anche se non era uno stupido e riconosceva una trappola quando la vedeva.
    Il suo avversario era immortale, ma lui… aveva un talento che il suo nemico non aveva.
    Si teletrasportò quindi al corridoio dove si trovavano i serbatoi del fluido glifico, all’ingresso dell’ antico avamposto, ma non vi era nessuno. Provò a chiamare il druido e a canzonarlo, ma gli rispose solo il silenzio.
    Allora provò a teletrasportarsi nella camera di vivisezione. Si aggirò fra i tavoli e i cadaveri, e anche lì non vi era anima.
    - Asgarath, dove sei? Non farmi perdere tempo! Fatti avanti e affronta la tua fine con dignità!
    Niente nemmeno lì. L’hylden ebbe una intuizione.
    Si teletrasportò dietro alla colonna di roccia e menò un artigliata davanti a se, poi scagliò un’ondata di fiamme.
    Ma quando il fumo e le scintille del glifo del fuoco si dissolsero, vide si sbagliava, il druido non era lì.
    - Ma dove accidenti…
    - Qui.
    Gli arrivò un proiettile cinetico dall’alto, che lo fece tombolare sul pavimento.
    L’hylden ringhiò, ma prima che potesse rialzarsi, un getto di fiamme azzurre lo travolse, facendolo nuovamente gridare di dolore. La sua pelle, già ustionata precedentemente, accusò pesantemente il colpo. Il druido però non attaccò. Si calò dalla volta, della grotta a cui si era aggrappato con gli artigli dopo aver scalato la colonna rocciosa, approfittò del suo disorientamento e fuggì via.
    L’hylden era talmente furibondo, che appena si riebbe dall’attacco si tirò in piedi e gli venne dietro. No, non si sarebbe teletrasportato. Sarebbe stato troppo facile. Voleva raggiungerlo e farlo a pezzi con le sue mani!
    Si limitò a scagliare un Glifo di Pietra che fece tremare tutta l’area del complesso.
    Asgarath era lontano e non ne venne investito, ma accusò comunque la scossa sistema e questo lo fece rallentare, cosa che permise all’Hylden di guadagnare terreno.
    Gal’Shi’Zan scagliò il suo fuoco stregato contro il druido, ma lui si riparò dietro una svolta del corridoio.
    L’Hylden lo braccò, ma non appena svoltò a sua volta venne colpito all’addome da un altro proiettile che lo mandò a sbattere contro il muro opposto.
    - Adesso, basta!
    Si teletrasportò di fronte al druido, tagliandogli la strada, mentre cercava di scappare per la strada di ingresso.
    - Dove credi di andare?
    “In flama hygnitis” mormorò Asgarath
    - Eh?
    Il druido scagliò un globo caricato di energia elettrica su un lampadario a globo che rischiavano la zona spandendo la sua luce verdastra. Il globo esplose e una scarica di saette investì l’hylden, facendolo sussultare di sorpresa.
    L’hylden barcollò stordito dalla scossa di elettricità mista ad energia glifica e questo permise ad Asgarath di caricare un pirogramma. Ma non lo scagliò verso di lui.
    Colpì invece il vetro del serbatoio di liquido verdastro che si trovava affianco al nemico.
    La palla di fuoco esplose con fragore, facendo a pezzi il vetro, e il suo contenuto mefitico si riversò su Gal’shi’zan.
    Costui gridò di dolore, mentre il liquido glifico gli intaccava le carni.
    Asgarath si tenne a distanza di sicurezza, aspettando che il fluido finisse di riversarsi sul pavimento, e riprese a martellare l’Hylden di fiamme azzurre, con la mietitrice di fuoco sguainata.
    - Arrenditi, Shi’zan. Non te lo dirò un’altra volta!
    - M… mai! – ringhiò l’hylden. Cercò di contrastare le fiamme col suo fuoco stregato, ma il fluido venefico e il fuoco di Bél combinati erano micidiali, e la sua difesa crollò dopo pochi secondi. .
    - Consegnati all’Alleanza! – Asgarath diresse il fuoco verso le sue gambe.
    - Io… Graaaanrgh!
    Le fiamme e il veleno iniziarono ad bruciarlo così violentemente da ridurre le sue gambe a due moncherini inutilizzabili
    - B… basta!
    - Non ho capito, bastardo.
    - Bastaaa! Mi arrendo!
    Asgarath indebolì le fiamme azzurre, ma continuò comunque a colpirlo, per esser sicuro che non facesse scherzi. Balzo su di lui evitando il lago acidò e menò due unici, rapidi fendenti della mietitrice di fuoco.
    Gal’Shi’Zan urlo di dolore e perse i sensi, mentre le sue mani vennero recise di netto e le sue braccia bruciate dalla spada.

    Quando si risvegliò, si trovava nella camera di ibridazione. Era legato ai tubi glifica.
    Asgarath li aveva sconnessi da una cavia e ne aveva fatto delle corde improvvisate con cui immobilizzarlo, e lui ciondolava come un salame.
    - Gnnnngg…
    - Ben svegliato, hai dormito un bel po’… - disse Asgarath a braccia conserte.
    - P… Perché mi hai risparmiato?
    - Mah, forse perché non ho ancora finito con te.
    L’hylden rise e lo squadrò con uno sguardo bieco.
    - Hai intenzione di torturarmi? Morirò, piuttosto che tradire la mia specie e rivelare i nostri segreti!
    - Anche se penso che sarebbero molto ben graditi ai miei fratelli per sconfigger William, personalmente, non so che farmene dei tuoi segreti, Shi’zan.
    - E allora che accidenti…
    - Tu hai creato un abominio innaturale che rischia di metter a repentaglio la vita di tutta Nosgoth. Inoltre hai messo in pericolo la vita delle persone a cui tengo. Ma sono sicuro che sarai fare ammenda dei tuoi errori.
    - Che…che intenzioni hai?
    - Oh, andiamo, Shi’zan, un astuto serpente come te non farà fatica ad immaginare. Voglio una cura, hai capito?
    L’hylden lo guardò esterrefatto.
    - Una..,cura? Tu vuoi una cura?
    - Non vorrai farmi credere di aver creato una cosa così difficilmente controllabile senza aver prodotto qualcosa per contrastarla!
    L’hylden sbarrl gli occhi, poi scoppiò in una sonora risata.
    - Sprechi il tuo tempo. Perché mai avrei dovuto crearne una? Per graziare dei poveri villici? No, druido, il mio compito era quello di procurare nuovi corpi ala mia razza, e quello stavo facendo. Non c’è cura. I tuoi amici moriranno. – disse, e sorrise davvero di gioia a vedere l’espressione inorridita del mietitore.

    Atto X Verità svelate



    Nell’oscuro magazzino sotto il lazzaretto, Gheor iniziò a dare segni sempre più evidenti di impazienza. Aveva perso il conto del tempo che assieme a Larsa batteva quell’area del sotterraneo, cercando un indizio, o una traccia che facesse capire che fine avesse fatto la strana creatura che l’aveva aggredito e che era stata intercettata dalla sua compagna.
    - Sei sicura di non essertela sognata? – sbottò il soldato, sempre più stufo.
    - Ti ho detto che gli ho visto la testa esplodere con i miei stessi occhi sotto i colpi delle mie frecce!
    - Sarà morto allora, non vedo perché perdere tempo quaggiù…
    - No… Non credo che fosse un vampiro. E quelli come lui non muoiono tanto facilmente! È qui ne sono sicura…
    In quel momento, un rumore sospetto fece rizzare ad entrambi le orecchie… come di pietra che scorreva su pietra.
    Una sezione del muro, che a causa dell’oscurità non avevano notato, prese a scorrere su se stessa, ruotando verso l’interno.
    I due osservarono il passaggio segreto aprirsi incerti sul da farsi.
    La loro indecisione però svanì di colpo, quando videro l’essere incappucciato sbucare dal passaggio segreto, buttarsi fra di loro e scagliare un’onda d’urto che li fece sbattere entrambi fra gli scaffali circostanti.
    Prima ancora che avesse il tempo di rialzarsi, la creatura svanì nel nulla, così come era apparsa.
    Larsa fu la prima a rialzarsi. Ingiunse ad Gheor di dare l’allarme e di avvisare subito il comandante.
    Poi si avventurò nel passaggio segreto. Vide la leva che lo attivava dall’interno e la bloccò, impedendogli di richiudersi.
    Montò la guardia, aspettando trepidante che Gheor tornasse con il comandante Harold e i due zeloti che aveva come guardaspalle.
    Quando arrivò il comandante, non poté far altro che constatare la loro scoperta.
    - Era ora. Se non fosse che so bene di cosa sono capaci i mietitori, avrei già richiamato le forze. Forza, tutti con me!
    - Ma saremo abbastanza, comandante? – chiese Gheor, perplesso.
    - Non sottovalutare me e le mie guardie. Non siamo semplici soldati, conosciamo anche alcuni incantesimi di difesa. Larsa, va’ in avanscoperta, tu, Gheor, guardaci le spalle.
    Detto ciò, i sarafan entrarono nel passaggio segreto.
    Giunsero presto alla biforcazione, e trovarono quello strano androne semibuio e irreale, rischiarato dai globi stregati.
    - Ma… Che cos’è questa roba? – disse un soldato, guardando il serbatoio in frantumi.
    - Sembra che qua ci sia stata una battaglia…
    - State attenti a non metter i piedi in quel liquido. – ordinò il comandante – anche se sembra rappreso, può esser tossico.
    I soldati eseguirono l’ordine e oltrepassarono quella stanza con grande cautela.
    un serbatoio in frantumi, l’ambiente semibuio
    Raggiunsero quindi la biforcazione.
    Hardold decise di dividere le forze: mandò i cacciatori di vampiri a destra con un soldato, mentre lui e l’altra guardia del corpo imbucarono la strada a sinistra.
    Quando raggiunsero il laboratorio di ibridazione, terrore e sgomento si dipinsero nei suoi occhi.
    Corpi di uomini tenuti forzatamente in vita, collegati a tubi luminescenti colmi di fluidi, si stagliavano dinnanzi a loro su asettici letti metallici; in fondo, un’altra camera, da cui provenivano degli strani bagliori intermittenti…
    - Ma… dove diavolo siamo capitati? – domandò il soldato, esterrefatto.
    Harold si sforzò di mantenere il sangue freddo.
    - C’è qualcosa lì.
    Si avvicinarono, e videro la creatura appesa, senza mani, con le gambe mutilate, intrappolata nel groviglio di cavi.
    L’essere li guardò impassibile e con sdegno, con un odio tale da metterli seriamente a disagio.
    - Tiratemi giù subito. – ingiunse, con un tono gracchiante e particolare.
    I Sarafan esitarono, titubanti.
    - Tiratemi giù. – intimò ancora l’hylden, e i suoi occhi brillarono ancora più ardentemente di prima.
    Ammaliati da quello sguardo, i soldati stavano per obbedire ma…
    - Lasciatelo lì dov’è. – disse il mietitore, facendo capolino dalla stanza contigua.
    Il comandante pose lo sguardo sul druido dinnanzi a sé, e lo stupore fu tale che si riebbe dall’ipnosi.
    Si massaggiò gli occhi, tirò qualche accidenti alla creatura verdastra intrappolata dai cavi e scrollò il soldato.
    Tornati in sé, impugnarono entrambi le armi e si misero in posizione di guardia, pronti ad attaccare.
    Il mietitore però, li osservava silenziosamente. Fra le sue mani, ardeva una strana lama luminosa che spandeva una luce rassicurante.
    Sotto quel chiarore, non sembrava nemmeno la creatura demoniaca che sarebbe dovuta essere.
    - Comandante, mi dispiace di aver aggredito i vostri cacciatori e di aver seminato scompiglio per il vostro villaggio, e non è mia intenzione attaccarvi!
    - Ma… che diavolo sei?! Cosa sta succedendo qui? Chi è quell’essere demoniaco?
    L’Hylden distolse lo sguardo stizzito, ignorandoli spudoratamente. Stupidi e inutili umani…
    - Quell’essere si chiama Gal’Shi’Zan. È un antico essere appartenente ad una razza chiamata hylden, ed è in combutta col direttore Lenzer. Sono stati loro a creare il morbo che ora sta appestando Langskar, e che rischia di diventare una minaccia per tutta Nosgoth.
    - Eh? Come fai a saper il nome del direttore?
    In quel momento, Gheor, Larsa e l’altro guerriero fecero capolino nella stanza, e il loro sguardo era terreo e inorridito.
    - Comandante Harold! – disse la donna – l’altro corridoio conduce ad una stanza piena di cadaveri fatti a pezzi e… Oh, per i Nove, ma che cosa è questo? È ancora peggio di quello che c’è dall’altra parte!
    Alla vista delle cavie, Gheor trattenne a stento un conato.
    Harold guardò Asgarath.
    - Non so cosa tu stia tramando, mietitore, ma dammi un buon motivo per cui non devo ordinare loro di aprire il fuoco contro di te, e alle mie guardie di caricarti! – disse la voce metallica del comandante, distorta dall’elmo.
    - Non si usa concedere un ultimo desiderio ad un condannato? Vi chiedo solamente, di ascoltarmi. Sono sicuro che anche voi avete delle persone care là fuori che ora sono segregate in casa, altre che stanno combattendo con questo male, e altri ancora che sono già morti. Se volete che ne muoiano altri inutilmente, e vengano vanificati i loro sacrifici, allora aggreditemi pure. Potete scegliere: potete commettere gli errori già fatti in precedenza, oppure essere i primi ad iniziare una nuova strada. Non vi obbligherò nelle vostre scelte. Vi chiedo solo di ascoltare quanto ho da dire.
    .
    Il druido spense la lama lucente, in modo da dimostrare la sua buona fede.
    Non si saprà mai se Harold fu colpito da quelle parole, o dal gesto del druido, o mosso dalla curiosità, oppure se fosse semplicemente stufo di quella situazione logorante che aveva portato lui e tutto il villaggio sull’orlo della disperazione, ma concesse ad Asgarath la parola.
    E il druido iniziò a raccontare tutta la verità, perché era stufo di inganni e insabbiamenti…
    Raccontò l’antica storia di Nosgoth, chi erano gli Hylden, l’origine e la funzione dei Pilastri e dei primi vampiri, e dell’ordine sarafan, e poi raccontò del ritorno di quegli empi esseri, che erano riusciti a prender il controllo dei vertici dell’ordine.
    La resurrezione di William, la grande battaglia sanguinosa che era stata combattuta ai piedi dei Pilastri mesi prima, e che era costata migliaia di vite umane e vampire, la corruzione dei pilastri, la strana oscurità che aveva avvolto il mondo e quel morbo, tutte conseguenze della vendetta degli Hylden.
    Nell’udire quel racconto, i sarafan furono davvero combattuti.
    Larsa e Gheor, risentiti per come il mietitore si era preso gioco di loro, erano titubanti ad ascoltarlo.
    - William… un demone? È la cosa più stupida che abbia mai sentito! – schernì il balestriere.
    - Comandante, dobbiamo davvero stare a sentire queste sciocchezze? – domandò la donna.
    Harold rifletté parecchio. Guardò i mercenari, i soldati, il druido, e l’essere intrappolato dei cavi.
    Guardò quell’ambiente disumano e le persone orrendamente deformate dalla mutazione, che erano simili a grottesche parodie che rassomigliavano alla creatura intrappolata.
    - Mi auguro davvero che la verità non sia diversa… - sbottò il comandante.
    - Quali pensi che sia?
    - Beh… non ne vedo molte al momento. Ma non vorrei che tu in realtà fossi in combutta con quella creatura verde, e che ora stia cercando di carpire la nostra fiducia per chissà quali empi fini.
    - In questo caso, mi spieghi perché mai avrei dovuto mutilare e imprigionare il mio complice?
    Harold scosse la testa.
    - Effettivamente… Va bene, va bene. Lo ammetto: in altre circostanze, non avrei esitato a prendermi la testa tua e di quell’essere, per spedirle a William con i miei omaggi. Ma il villaggio si trova in una grave situazione, e da Meridian non sono arrivati gli aiuti sperati. La carovana che è giunta qua, contiene solo un decimo delle cose e del personale che avevo richiesto per fronteggiare la gravità della situazione. I medici e gli alchimisti mandati da William lavorano di controvoglia e non sanno che pesci prendere.
    - Non avete considerato che forse, le alte sfere dell’ordine Vogliono che l’epidemia continui a dilagare?
    Harold grugnì. In tanti anni di carriera militare, quella era la prima volta che si trovava a metter in discussione tutte le sue convinzioni. Fino al giorno prima, se gli avessero detto che si sarebbe trovato in quella situazione, avrebbe riso in faccia all’interlocutore… Per poi rompergliela a suon di pugni. Ma non poteva negare l’evidenza dei fatti, e la presenza di quel luogo orribile sotto l’ospedale, che sfidava ogni logica e comprensione umana.
    - Facciamo così. Ti concederò momentaneamente il beneficio del dubbio, spettro dei pilastri. C’è un solo modo per dormire la questione! – rivolse ai due cacciatori. - Gheor, Larsa, portate subito qua il direttore Lenzer! È un ordine!
    - Ma…
    - Obbedite! Voglio proprio sentire cosa ha da dire lui alla vista di tutto questo…

    Passò circa mezz’ora.
    Asgarath e Harold passarono il tempo in silenzio, come anche i due sarafan con lui. Nessuno parlò, ma era evidente il nervosismo causato da quella situazione assurda.
    Ogni tanto, il mietitore gettava un occhio su Gal’Shi’Zan, tanto per esser sicuro che non combinasse scherzi, ma fra il dolore dato dai moncherini carbonizzati e lo sfinimento, l’Hylden sembrava essersi addormentato. Esser tornati fisici aveva anche dei difetti, tutto sommato.


    Finalmente, i due cacciatori, assieme ad altri sarafan, tornarono portando con sé Lenzer in catene.
    - Come mai incatenato? – chiese Harold.
    - Ha tentato di fuggire non appena abbiamo spiegato la situazione, signore. – disse uno dei guerrieri.
    - Ah, ma davvero? Lenzer, che cosa hai da dire?
    - Io…Io sono innocente! – balbettò l’uomo, un anziano alchimista dalla lunga barba grigia. – Non ho mai visto quel demone prima d’ora, lo giuro! – disse indicando l’hylden.
    - Logico, visto che si è presentato a te sotto altre spoglie. – Gli rispose Asgarath. – Ma allora, perché hai tentato la fuga? E com’è che non provi orrore alla vista di questo posto? – domandò
    Lenzer non sapeva cosa rispondere.
    - Sarà mica che forse sei già stato qua?
    Harold si avvicinò al vecchio e incombette su di lui.
    - Lenzer, faresti meglio a svuotare il sacco. È chiaro che nascondi qualcosa. Se sarai sincero, cercherò di esser clemente con te… Per quanto sarà possibile. Sai, l’accusa di genocidio premeditato è abbastanza pesante…
    - Io… Io, e va bene! Circa due mesi fa sono stato avvicinato da un certo Galshin, proveniente da Avernus. Diceva che stava mettendo a punto una nuova arma contro i vampiri e i mietitori che vivevano ai Pilastri, ma che per poterla utilizzare, doveva prima esser testata su delle cavie…
    - Un’arma? E che tipo di arma?
    - Un… un agente patogeno di qualche tipo. Mi condusse in questo luogo, e mi mostrò le sue ricerche. Fui davvero meravigliato alla vista di questa stanza e della sua tecnologia.
    - E che cosa avrebbe fatto il virus, esattamente? – domandò il druido.
    - Può… Può esser facilmente manipolato per colpire, selettivamente, gli umani, i vampiri, o i mietitori, provando un male inguaribile. Per esser sicuri che funzionasse, mi convinse a testarlo sulla popolazione del villaggio.
    - Cosa? Ma, allora… Il mietitore sta dicendo la verità! Traditore! – una delle guardie del corpo di Harold levò l’alabarda verso l’alto.
    Se il comandante non l’avesse fermato con un manrovescio del guanto d’arme con cui lo sbatté malamente a terra, l’avrebbe sicuramente decapitato di netto.
    - Moderati, Gerard, so che tuo cugino era fra i battaglioni caduti nella sanguinosa guerra combattuta ai piedi dei Pilastri, ma non è così che lo vendicherai, ricordati che in questo villaggio siamo io e il borgomastro ad amministrare la giustizia e a decidere chi e quando giustiziare!
    Il soldato si rialzò faticosamente.
    - P… perdonatemi, comandante.
    Asgarath scosse la testa.
    - Galshin… Gal’Shi’Zan. Che mancanza di fantasia. Dovete sapere che gli hylden sono capaci di assumere diverse forme. Non è stato arduo per lui adescare Lenzer.
    Il druido si rivolse al maestro alchimista.
    - Direttore, ti rendi conto che l’hylden ti ha ingannato? Guardati attorno! Come hai potuto davvero credere alle sue menzogne? È chiaro che conosci ben poco della nostra natura: Vampiri e mietitori sono non morti per antonomasia. Noi non ci ammaliamo di affezioni fisiche, e non contraiamo morbi.
    - Ma… ma aveva detto che questo sarebbe stato diverso… l’energia glifica di cui è infuso vi avrebbe avvelenato lentamente, una volta trovato il modo di inocularvelo.
    - Mmm, beh, questo effettivamente può esser vero. – disse Asgarath, preoccupato per le implicazioni di quella frase. Chiaro che l’hylden non era stato sincero nemmeno con lui.Tremava al pensiero delle implicazioni di quella possibilità.
    – Va bene. Ammettiamo che questa possa esser un’arma con cui colpire i non morti in futuro, ma è chiaro che non è questo il caso. Come puoi vedere attorno a te, il morbo è stato creato ad un solo scopo: permettere la trasmutazione degli umani che sono riusciti a sopravvivere all’infezione, in modo da creare ibridi fra gli Hylden e la vostra specie.
    - Ma… Perché?
    - Come ho già spiegato ad Harold, lui fa parte di un’antica razza che venne esiliata agli inizi della storia per i suoi crimini da creature angeliche che poi purtroppo sono cadute in disgrazia e si sono estinte. I Pilastri furono una loro creazione, e il loro scopo non è solo quello di dar potere ai Guardiani e di mantenere l’Equilibrio di questo mondo. Sono un sigillo dimensionale che serve a tener lontana da Nosgoth la sua vile razza. Gli Hylden non possono manifestarsi fisicamente, sono spettri senza corpo, ma questo non impedisce loro di adescare e impossessare la gente che cede alle loro lusinghe. La possessione però, è un processo che porta i corpi ospiti ad una corruzione che finisce con l’ucciderli rapidamente.
    Per poter quindi portar a termine i loro piani di dominio, essi hanno bisogno di nuovi corpi, adatti ad ospitarli. Ecco perché è stato creato questo virus.
    Lenzer sgranò gli occhi, e l’orrore si dipinse nel suo volto.
    - Per i Nove… C… che cosa ho fatto…
    Asgarath si avvicinò a lui.
    - Piangere non serve a niente, vecchio. Pensa a rimediare a questo disastro piuttosto! L’hylden ha condiviso con te parte delle sue ricerche vero?
    - Beh… sì.
    - Sai come si configura il patogeno per colpire una specie o l’altra?
    - Mi… mi ha fatto veder qualcosa, una volta. Lavorammo assieme sulla ricerca.
    - Saresti capace di creare una sostanza capace di impedire al patogeno di replicarsi e al corpo umano di sconfiggerlo?
    - Beh, sì, ma ci vorrebbe il sangue delle persone guarite. Dubito che quelli possano esser di qualche utilità. – disse, indicando con lo sguardo gli ibridi.
    Harold guardò Asgarath incuriosito.
    - Sembra che tu abbia un’idea, spettro.
    - E sembra sciocca detta da un essere come me, ma… Collaboriamo insieme.
    Manda qua i tuoi scienziati, e alchimisti, convoca i chierici, e lascia che assieme uniamo tutte le nostre conoscenze e competenze per venirne a capo. Assieme a Lenzer, potremmo produrre una cura quanto prima!
    - Ma tu, che ci guadagni?
    - Salvare Nosgoth da questa piaga, e tutte le creature che vi abitano, vive o morte che siano, è già una ricompensa più che sufficiente per me.
    - E di lui che ne facciamo? – disse Harold, indicando l’Hylden.
    Asgarath strattonò la creatura, che si ridestò dal suo sonno.
    - Sveglia, Shi’zan.
    - C..,che accidenti vuoi, ancora, druido? – domandò stizzito.
    - Suppongo che tu non abbia alcuna intenzione di aiutarci a rimediare all’orrore che hai fatto, vero?
    - Te lo puoi scordare!
    Asgarath sguainò la mietitrice, stavolta infiammata.
    - E’ la tua ultima occasione. Dunque?
    - C… Credi che distruggermi faccia qualche differenza? Noi Hylden siamo immortali! Mia moglie troverà il modo di tornare quando lo faràaaaaaaahhhiaaaaa
    Asgarath gli piantò la spada infuocata nel torace, passandolo da parte a parte. La lama iniziò a consumare la sua anima e i bagliori verdastri che brillavano negli occhi dell’hylden iniziarono ad affievolirsi.
    - Hai fatto la tua scelta. Addio, Shi’Zan.
    L’Hylden digrignò i denti e urlò follemente di dolore, poi si afflosciò inerme.
    Asgarath ritrasse la lama e la fece svanire.
    - Beh, ora non ci darà più noie.
    - Perché l’hai ucciso? Poteva esserci utile! – domandò Harold, seccato.
    - Dimmi, comandante, voi avete strutture in grado di contenere un essere del genere, nelle vostre prigioni?
    - Mmm, non ne sono sicuro. E non possiamo certo informare i nostri superiori a Meridian della sua cattura… Se i vertici dell’ordine sono in mano ai suoi simili… – ammise Harold.
    - Allora, comprendi che questa era l’unica possibilità.
    Harold scosse la testa.
    - Ora però, possiamo contare solo su noi stessi. Non so se sarà sufficiente a porre rimedio a quello che quell’essere ha combinato.
    - Non sottovalutare le nostre abilità. La fine di questa storia, è ancora da scrivere. Oh, accidenti…
    … - Asgarath si mise una mano sulla fronte, costernato.
    - Che c’è.., spirito?
    - Poffardiamine! Mi son dimenticato di Ian!

    Atto XI una cura!



    Era quasi mezzogiorno.
    Un piano più in alto, il corpo di Ian giaceva freddo e inerme sopra il tavolo in cui venivano eseguite le autopsie.
    Bardati di tutto punto, con guanti e maschere, e protetti da due sarafan dotati di esoscheletri ed elmi bardati, Greg e Lothar, circondavano il capo chierico, che li fissava dalle orbite vuote della maschera beccuta.
    - Siamo pronti?
    - Sì, signore, tutti gli strumenti sono a posto.
    - Allora, iniziamo, bisturi.
    Il medico stava per effettuare l’incisione sul petto dell’uomo, che era stato spogliato precedentemente dei vestiti fino alla cinta, quando avvenne.
    La porta di ingresso alla stanza, si spalancò di colpo, entrò una figura incappucciata rapida come una furia, che balzò addosso ai due infermieri
    Prima ancora che avessero il tempo di reagire, vennero messi fuori combattimento dai suoi pugni.
    Il capo chierico cercò di reagire ma ricevette un calcio in mezzo all’inguine che lo fece cadere a terra senza fiato.
    Asgarath si precipitò da Ian e svitò il tacco destro della sua scarpa.
    Prese una fiala contenente un liquido verde, l’antidoto al veleno ingerito dal vecchio, gli strinse il naso e gliela fece bere a forza, poi si mise a comprimergli ritmicamente il petto.
    - Avanti, vecchio. So che sono in ritardo ma ti devi dare una svegliata!
    In quel momento, arrivò anche Lenzer, con in mano una siringa e altri due medici, che misero un mantice meccanico attorno alle vie aeree del vecchio e sostituirono Asgarath nelle manovre di rianimazione, sia perché erano assai più esperti di lui in questo, sia perché i suoi artigli avrebbero potuto lacerare il vecchio.
    - Spero davvero che questa roba funzioni. – disse il direttore iniettandogliela nel braccio di Ian.
    Asgarath guardava Ian scuro in volto, pregando disperatamente che avvenisse un miracolo.
    Passò un interminabile quarto d’ora, e tutti stavano incominciando a perdere le speranze, quando Ian finalmente venne scosso da tremiti violenti. Il vecchio trasalì, sbarrò gli occhi, con un rantolo, e si mise respirare convulsamente.
    I medici attesero che si fosse ripreso a sufficienza, tenendolo giù e tranquillizzandolo.
    All’inizio lui cercò debolmente di dibattersi, ma poi, vedendo che il druido era vicino a lui e che lo teneva per una mano, si tranquillizzò e si riaddormentò, sfinito.
    Ci volle un po’, di tempo perché Ian migliorasse: dopo il suo risveglio, Lenzer e i medici lo fecero caricare su una lettiga dagli infermieri e lo fecero trasferire in una stanza isolata di un seminterrato del lazzaretto.
    Nelle ore successive Ian dimostrò segni di ripresa notevoli: la febbre era scesa notevolmente, e il vecchio riuscì anche respirare presto anche autonomamente.
    Per tutto il tempo, Asgarath attese all’esterno della stanza, vegliando dinnanzi alla sua porta. Pronto ad aiutare qualora ve ne fosse bisogno.
    Verso le due del pomeriggio, portarono al vecchio un po’ da mangiare, offendigli del brodo di carne e verdure.
    Asgarath si offrì di servirglielo, e i medici lo lasciarono fare.
    Giunse da Ian, che ormai respirava senza il polmone meccanico.
    - Asgarath… Non avrei pensato di rivederti.
    - Mangia, Ian. Voglio che ti rimetta in forza e che guarisci il prima possibile. – disse il druido, iniziando ad imboccarlo.
    Il vecchio non se lo fece dire due volte.
    - Hai… trovato la cura, quindi?
    - E anche qualcosa che non mi sarei mai aspettato. – il mietitore gli raccontò a grandi linee quello che gli era successo.
    Ian lo ascoltò senza interrompere, consumando il pasto.
    Quando ebbe finito, si accasciò sul letto, sfinito.
    - Beh, spero che Lenzer abbia imparato qualcosa da questo. Credi che la cura funzionerà?
    - L’abbiamo elaborata personalmente tutti quanti, io, Lenzer e gli alchimisti, unendo tutte le nostre arti e conoscenze. Lenzer stesso ci rivelò, che all'inizio dell'epidemia, aveva contratto il virus, ma che l'aveva sconfitto grazie alle sue arti, o forse grazie a Shi'zan stesso. Ebbe solo sintomi lievi, e si rimise completamente.
    Così, per far ammenda dei suoi crimini, ha donato generosamente il suo sangue, e questo è stato fondamentale, perché ci ha permesso di estrarre gli antigeni dal suo siero.
    Non avrei mai creduto che la tecnologia degli Hylden potesse esser usata per qualcosa di buono.
    Sai, ho saputo che l’hanno provata anche su altri malati gravi, dopo di te. Anche loro stanno iniziando a riprendersi. Dovrete fare parecchie iniezioni, ma se tutto va bene, guarirete presto.
    - Sono felice di sapere questo. – disse Ian. Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva davvero sollevato.
    - Fra l'altro, Lenzer ti porge anche le sue scuse. E' pronto a riscattare e a reintegrare il tuo nome e il tuo ruolo nel villaggio... Sempre se vorrai perdonare lui e i sarafan.
    Ian restò a bocca aperta a udire questo.
    - Mah, quando mi ristabilirò deciderò il da farsi. Prima voglio vedere come si comporteranno. Se riprenderò a far il mio mestiere, però, sarà solo per il giuramento che ho fatto: prendermi sempre cura della gente fino alla fine del mio tempo. Che ne è stato delle cavie? – gli domandò poi.
    Asgarath scosse la testa. – Purtroppo non si poteva far niente per loro. Harold e i suoi uomini le hanno disconnesse dai cavi a cui erano collegate, e hanno posto fine alle loro sofferenze col fuoco.
    Quando ce ne siam andati con l’antidoto dal laboratorio, abbiamo anche voluto esser sicuri che nessuno lo usasse per altri scopi, quindi abbiamo fatto franare l’ingresso del passaggio.
    - Certo, capisco. Peccato, però. Sarei stato davvero interessato ad esaminar quel luogo.
    - Scordatelo, Ian. Dammi retta: i segreti degli Hylden è meglio che rimangano tali.
    - Sì… hai ragione.

    Atto XII Leggende



    Dopo quel colloquio, Asgarath lasciò Ian alla sua convalescenza.
    Si eiettò nel regno spettrale e si diresse verso la piazza del villaggio. Notò che la situazione era tornata alla normalità: gli spiriti erano scomparsi, e vi erano solo poche anime sparute e qualche sluagh. Anche le abitazioni non erano più distorte come prima.
    Chiaramente, la distruzione del laboratorio hylden aveva posto fine alle distorsioni energetiche provocate dalle macchine di Gal'Shi'Zan, liberando gli spiriti delle persone uccise dal morbo.
    Asgarath riprese quindi materia, e andò all'appuntamento convenuto con le autorità.
    Venne ammesso nella guarnigione dei sarafan, nell’ufficio di Harold e lì si incontrò con Lenzer, col comandante e col borgomastro di Langskar, che nel frattempo era stato informato di tutto quanto.
    Alcune guardie delle truppe di Harold si stanza al mulino dell’acqua si rivelarono essere gli untori che avevano lavorato per Lenzer e che spargevano il morbo nel mulino.
    Grazie alla testimonianza del direttore vennero subito arrestati e imprigionati.
    Anche lui venne condotto nelle segrete, ma alla luce del suo aiuto e della sua redenzione, la pena di morte gli venne condonata, e ricevette una condanna più mite.
    Rimasti soli, i tre discussero quindi su come poter far a guarire e immunizzare gli abitanti di Langskar il più rapidamente possibile, in modo che la vita ritornasse alla normalità quanto prima.
    Decisero che avrebbero prodotto una soluzione ingeribile dell’antidoto e che l’avrebbero rilasciata direttamente nell’acquedotto, revocando la quarantena.
    In tal modo sarebbero stati gli stessi cittadini a curarsi, man mano che attingevano alla fontana.

    Quella sera, coperta dalla sua pelliccia, Emia osservava il sole che tramontava dietro le montagne dell’Erebus, tingendole di cremisi.
    Era esausta. Per quanto facesse uso delle sue arti magiche, senza l’antidoto Katie non sarebbe vissuta ancora molto tempo. E le sue forze non erano illimitate, ogni volta che usava la sua magia per bloccare il virus, sacrificava un po’ della sua forza vitale. Se avesse continuato, sarebbe crollata presto, ma se non l’avesse fatto, la donna sarebbe morta. Per la prima volta in vita, sua, la fanciulla comprese il terribile dilemma che aveva subito Kain, millenni prima, di fronte alla scelta epocale: sacrificio, o condanna del mondo?
    Stava riflettendo su questo, quando vide delle figure con in mano delle fiaccole e delle alabarde, che sfidavano il vento e il gelo, apparire in cima alla vallata.
    Li guardò meglio, e vide che erano… guerrieri sarafan?
    Un brivido di terrore la prese. Ricordava ancora bene quando lavorava per loro e quando aveva rischiato di esser seviziata e uccisa. Se non l’avesse salvata Bleed…
    Corse dentro casa e avvertì i due fratelli.
    La nascosero al piano di sopra, poi uscirono fuori armati di forconi e rastrelli, andando incontro ai soldati.
    - Che cosa volete? – gridò Louis nell’oscurità, adirato.
    - Siete gli O’Connor, giusto? – disse il capo della spedizione, dall’elmo cornuto e dalle vesti verdi.
    - E se così non fosse?
    - Beh, il posto corrisponde alla descrizione del druido. Mi chiamo Gerard, e sono il braccio destro del comandante Harold. Vengo qua per conto del druido Asgarath. Una sua amica di nome Emia è all’interno della vostra fattoria, giusto?
    A quelle parole, Louis comprese finalmente. Sospettava già che il monaco che l’aveva aiutato alle porte del villaggio fosse un mietitore, ma ora ne aveva conferma… Ma allora, Emia… Era anche lei un membro dell’Alleanza?
    I primi istanti fu perplesso dal dubbio, ma poi scosse la testa. Che fosse viva, vampira o altro, poco importava. La ragazza si era comportata bene con loro e si era prodigata in ogni modo per salvare sua madre, e questo gli bastava.
    - Se avete intenzione di farle del male noi…
    - Farle del male? Sei fuori strada ragazzo. Non siamo qua per nuocerle, ma per condurla a Langskar. Asgarath l’aspetta. Ha bisogno del suo aiuto e delle sue competenze per sistemare la situazione al villaggio.
    - Eh??? – Loius li guardò senza capire.
    - Sappiamo che vostra madre ha contratto il virus e che sta molto male. – disse il soldato, tirando fuori dalla sua otre, un’ampolla in cui brillava una pozione dorata.
    - Si avvicinò al giovane, e gliela offrì.
    - Questo è l’antidoto al morbo. Dateglielo, e guarirà in men che non si dica.
    Louis e Jeff li osservarono sconcertati.
    Louis non riusciva a creder a quel che udiva, Jeff, balbettava frasi incorenti.
    Louis prese l’ampolla, la osservò, e un sorriso si dipinse nel suo volto.
    Gridò di gioia.
    - Jeff, porta qua Emia, presto! Presto!
    Il fratello non se lo fece dire due volte e corse verso la casa.

    Passarono due settimane.
    La vita a Langskar era ormai tornata quasi alla normalità. I Sarafan del posto avevano avuto modo di riflettere su molti dei loro pregiudizi sui mietitori, il che non era da poco. Il borgomastro fu gentilissimo e molto ospitale, sia Asgarath che con Emia. Se fosse dipeso da lui, li avrebbe trattenuti per chissà quanto.
    Per quanto gradissero il suo ravvedimento, a loro non interessavano più di tanto le celebrazioni. Partirono appena possibile, ma prima di tornare ai Pilastri, fecero visita alla fattoria degli O’Connor, che avevano ricominciato a svolgere il loro onesto lavoro di contadini. Trovarono Katie da sola, perché Louis e Jeff eran andati nel bosco vicino a raccogliere un po’ di legna per il fuoco.
    La donna abbracciò affettuosamente Emia e sorrise al druido.
    Più tardi, tornati i figli di Katie, chiacchierarono amabilmente attorno al fuoco, e si trattennero fino al giorno successivo.
    Louis li guidò attraverso le montagne per parte del viaggio, e questo permise loro di passare per scorciatoie con le quali evitarono i Windighi, fino a raggiunger il luogo, nei pressi di Cooraghen, dove avevano lasciato i cavalli.
    Da lì, si salutarono, e ognunò tornò alla sua dimora.

    Dopo altri due giorni, Asgarath ed Emia erano finalmente giunti ai Pilastri.
    - Tutto sistemeato. – disse il druido a Bleed, ricevendolo dinnanzi alle colonne.
    Bleed fu davvero sollevato nel vederli, ma fu anche molto preoccupato ad osservar la stanchezza dipinta sul volto di Emia.
    Lei lo salutò timidamente, poi chiese di andare a riposare.
    Bleed acconsentì, preoccupato.
    - Che cosa è successo? – chiese ad Asgarath.
    - Vedi, fratello. È una lunga storia… - rispose il druido, tenendo un libro sottobraccio.
    - E quel libro?
    - Questo? Oh, è un regalo!
    Glielo mostrò.
    - Annali di Mistwitch?
    L’amico aprì una pagina, e Bleed vide una illustrazione che raffigurava un antico druido, dalla folta barba e dai capelli castani, sulla trentina d’anni, che brandiva uno scettro e una spada dalla lama vitrea color smeraldo, entrambi ardenti di fiamme azzurrine.
    - Come ti dicevo, mio caro… è una lunga storia!

    MISSIONE COMPIUTA. :D

    Edited by *Asgarath* - 20/4/2020, 10:03
     
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    CITAZIONE (Glifo dell'Acqua @ 5/9/2020, 21:45) 
    Missione per Abdiel


    OLEZZO MARCESCENTE



    Abdiel, sei stato convocato ai Pilastri per prestarci i tuoi servigi., disse Bleed osservando il Mietitore arrivato al suo cospetto. Come al solito si ergeva davanti ai Pilastri, mentre quasi a volersi nascondere nella penombra di una volta laterale, Emia attendeva il suo turno per portare al suo Sire l'ennesimo messaggio arrivato da uno degli informatori esterni alla Cattedrale dell'Anime.

    Ci è stato riferito che qualcosa di strano sta accadendo da qualche parte, in un punto imprecisato, dell'enorme foresta che separa Avernus dall'antica Villa di Vorador. Le informazioni sono preoccupatamente scarse, ma voci riferiscono che nelle ultime settimane hanno cominciato ad udirsi lamenti provenire dal folto della foresta e, nelle mattine dopo una notte di pioggia, la brina mattutina porta con se un pesante odore di marcio, come l'alito di un cadavere. O almeno così lo descrivono chi l'ha sentito ... Prima l'avrei considerato il frutto di menti malate, ma dopo quello che abbiamo scoperto vicino Meridian, non posso prendere più nessuna voce tanto alla leggera.

    Vai ed indaga e s'è vi è un pericolo per Nosgoth che ritieni in grado di debellare ... estirpalo dalla nostra realtà.


    Così dicendo, il Paladino fece un gesto di assenso e di commiato al Mietitore e allungò una trifida zampa verso Emia che, affrettandosi, gli porse altre pergamene scritte da chissà chi, chissà dove.



    LdR 3

    PROLOGO

    Le ali angeliche oscillavano nella notte irradiate dal mare di stelle sovrastante, il santuario attendeva l'offerta del boia. Irruppe senza fretta dalla cupola che permetteva alle colonne di svettare fino a trapassare il cielo notturno con quel marmo annerito a pochi passi dallo sgretolarsi. Una pila di teste deformi contraddistinte da lineamenti grotteschi cuciti insieme da chissà quale forsennata divinità , venne lasciata cadere sul pallido piedistallo.
    Gli occhi del caduto si posarono sulle torreggianti colonne difronte a lui, un bagliore verdastro investì la stanza, fiamme ascetiche consumavano le offerte da lui portate.
    La cenere si dissolse nel vento, trascinata oltre il santuario. Abdiel osservava il tutto, la mietitrice a mezzaluna nel suo pugno, sospinto a pochi metri dal suolo dalle fulgide ali. Chiunque l'avrebbe scambiato per una qualche apparizione divina, un emissario venuto dall'alto come presagio di cambiamento, invero però era solo un guerriero venuto a lasciare il suo omaggio, rammemorazione dell'ultimo viaggio.
    "Non importa quanti doni lasci, quanto sangue versi. L'unica effige del mio valore è questa lama, diversa da qualunque altra nata dal suo medesimo stampo. Un'emblema modellato da me. "
    Si alzò nuovamente in volo, superando la cupola.

    Un puntino in cielo che ardeva come una fiamma celeste, attraversò la foresta per sostare nei pressi di un laghetto vicino. L'acqua rifletteva la sua figura a metà fra il mostruoso ed il serafico, alle sue spalle una minuta selva di alberi accoglieva il bagliore delle ali. La testa rivolta verso l'alto, se gli fosse rimasta aria nei polmoni avrebbe sospirato.
    Un altro incarico, un’altra testa da portare come prova della carneficina nella speranza d’intravedere un bagliore di volontà divina. Un segno, un piccolo indizio su come agire in futuro, una guida. Non aveva nulla di tutto ciò. Che magari stesse adempiendo ad una volontà superiore alla sua in modo così impeccabile, da non necessitare di alcun segno d’approvazione?
    Il marmo sui pilastri era scuro, andava a corrodersi, avviandosi verso il colore della pece, della corruzione. Squarciare il cuore del male sembrava essere inutile.

    CAPITOLO I

    La fanghiglia si estendeva a vista d’occhio, agguantando ogni cosa con artigli di melma sudici e lerci. Ossa lasciate a marcire su un letto putrescente, lanterne conficcate nella terra illuminavano il cammino con luce fatua e spettrale. Un luogo tetro, evitato da chiunque meno da chi cercava il gelido abbraccio delle fine ultima. Il sentiero a grossi tratti non sprofondava nella palude, la quale ne adunghiava solo i fianchi, affogando raramente le sue dita cadaveriche sul tracciato.
    Rimanevo adagiato su un’altura in pietra, osservando il moto di bolle verdastre che dalle acque paludali si espandevano e crescevano fino a scoppiare. In quei frangenti, riuscivo a sbirciare oltre il sudiciume guardando al moto dei corpi rianimati che sguazzavano in quel fetido bacino attendendo una vittima da smembrare e trascinare nelle acque.
    Quei ghoul grigiastri di melma e ossa appartenevano al passato di Termogent, ancora incubi dimenticati dal mondo, spazzati via dall’ultima ascesa dei vampiri, tornavano a calpestarne la superficie.
    L’oscurità avviluppava ogni cosa, persino il raggio di luce più radiante non avrebbe potuto trafiggere le cime degli alberi che troneggiavano oltre il mio sguardo. Mossi un passo, cominciando la discesa.

    Metri e metri, poi la ruvida e rocciosa pietra abbandonò il percorso lasciando spazio al pantano. Sentì il suo tocco viscido sfregarsi attorno alla caviglia mentre il piede vi affondava all’interno. Difronte a me ciò che era apparso grande quanto un puntino insignificante, ora svettava con boria. Camminare in quel ricettacolo di morte e pericolo, sacrificio necessario per trovare il responsabile di quell’imprecisata violazione dell’ordine naturale. Sebbene per quella foresta non c’era stato un mutamento poi così trasgressivo.
    Non ci volle molto prima che alle mie spalle il buio inghiottì figure che prima mi apparivano nitide, lasciando solo distorte e lugubri sagome d’incubo. Selve di rovi ed aculei bloccavano il cammino, agitavo verso di loro la lama fantasma, tagliuzzandole più e più volte per aprirmi un varco verso il cuore della foresta.
    Sentii una morsa, viscida come la melma che stavo calpestando, simile a quella di un serpente che stringeva le sue spire attorno alla mia gamba. Roteai la lama in quella direzione, l’ondulare della mietitrice a mezzaluna trafisse qualcosa e la presa si allentò fino a sparire. Abbassai lo sguardo, non trovandovi nulla se non una pozza nera come catrame. Quasi fosse stata una creatura vivente, prese a strisciare trascinandosi difronte a me. Il liquido stava concentrandosi in un solo punto, mentre una figura solida si levava davanti ai miei occhi. La sua mano, quello schifoso agglomerato di fanghiglia tenuto insieme da chissà quale stregoneria, ecco cosa avevo appena mozzato. Gli occhi, due punti vitrei su un volto vuoto, privo di lineamenti caratteristici, solo un nulla di forma ovale che lasciava gocciolare frammenti del suo essere ai miei piedi.
    Agitai ancora la lama,creature fatte nel suo medesimo stampo presero a fuoriuscire dal letto della palude. I miei fendenti ne laceravano i corpi, stracciando lembi di carne scura dalle loro carcasse, lembi che una volta smembrati e lasciati al suolo si convertivano in quella pozza scura tornando poi a camminare sulle proprie gambe. Un purgativo ciclo di morte e rinascita, familiare.
    Lì sentii addosso, unghie graffianti che laceravano le mie braccia, stringendomi per trascinarmi nel fondo, alcuni anche armati di grossi coltelli cosparsi di ruggine e melma. Istinto di sopravvivenza o collera, un fuoco prese a divampare nel mio petto. Le mie mani bifide si accesero, lampi azzurri saettarono con furore, bruciando la pelle lercia delle creature. La presa sul braccio destro si affievolì a tal punto, da permettermi di liberarlo e conficcare l’artiglio nel petto di uno di loro. La deflagrazione che ne seguì frantumò quell’esile massa di limo su gambe, i resti carbonizzati piovigginarono qualche secondo, senza mai rialzarsi come avevano fatto in precedenza.
    I miei artigli inebriati dalla folgore maciullarono ogni mostruosità che fuoriusciva dall’acquitrino, rimandandola nel lembo putrescente che l’aveva procreata. Unghie e mannaie cedevano il passo, cadendo come foglie soffiate via da brezza invernale. Rimasi solo.

    Con il silenzio vennero le domande. Quelle creature di cui ora rimanevano solo sfoglie bruciate, le quali lentamente affondavano in quel paludare orrore che inghiottiva ogni cosa sulla sua superficie, erano guidate da una qualche volontà o soltanto dei gusci vuoti che attaccavano a vista chiunque si avvicinasse? Non avevo percepito nessuno spirito abbandonarli al momento del trapasso, forse non ne avevano alcuno... Oppure, non erano morti. Schiavi della palude, costretti a sorgere ed affrontare ogni intruso che calpestasse quella terra, imprigionati per l’eternità. Un vincolo che l’incatenava alla terra rendendoli uno degli orrori di Termogent.

    Non solo quei ghoul mangiatori di ossa, nel fervore della lotta le numerose spine che costellavano la vegetazione mi avevano trafitto, strappando non solo indumenti ma lacerando carne e tessuti. Il sangue scorreva da entrambe le braccia, dai bicipiti fino alle mani, inzuppate in un vischioso mare azzurro. Rimasi a fissarlo quasi ipnotizzato, portai il palmo ad un braccio tastandolo. I rovi erano ancora nella carne, decine di minuscole punte da cui zampillava sangue a fiumi.
    Non ebbi il tempo di pensare a come comportarmi, un nuovo scocciatore si palesò difronte a me, più pericoloso degli infanti che avevo appena rimandato nel lezzo lembo della propria madre.
    Spirito vagante cosparso di stracci che ghignava assorto nell’oscurità, attorno alla sua figura saettavano lampi di energia azzurra. Possibile? Un vampiro del mondo spettrale incarnato in quello della materia? No. Le sue scariche di energia si distinguevano da quelle che alcuni vampiri erano ancora capaci di generare, nonostante i millenni sembravano avere cancellato quella conoscenza.
    Sfrecciavano di fianco a me, inseguendomi come cani sciolti ogni volta che tentavano di schivarle.
    Percepii l’arrivo del primo globo di energia dal dipanarsi del palmo della creatura, le dita ossute spalancate e puntate verso di me erano percosse dai medesimi bagliori bluastri che lampeggiavano nei suoi occhi spiritici. Era lento, appena mi scansai cambiò la sua direzione come guidato da intelligenza propria. L’urto proiettò sul mio corpo un’energia trascendentale, aprendo ancor di più le ferite che mi ero procurato.
    Sul secondo globo ebbi un approccio più, deciso. Feci roteare la lama spettrale sul suo corpo luminescente, la forma grezza della mezzaluna nascente cozzò con la sfera luminosa, disperdendola.
    Fu più lento di me, scaricai su di lui due lampi di energia scacciandolo da questo piano d’esistenza. Vidi la sua figura scheletrica arrancare su stessa e poi venire inghiottita dal nulla. Lo spirito, protesi verso di esso il braccio conducendolo alla mia gola. Non mi sentii rinvigorito come quando divoravo l’anima di un vampiro del piano spettrale. Quella creatura doveva essere una forma inferiore di non-morto da come si era sgretolata. Altri non dissimili da lui si palesavano in lontananza, avanzando. Bene.

    CAPITOLO II

    La mietitrice pregna del potere della tenebra ora era come un mantello che mi rivestiva, nascondendomi agli occhi delle numerose creature che abitavano le stagnanti acque di Termogent. Alle mie spalle ancora i cadaveri puzzavano di carne marcia incendiata. Nel proseguire avevo rinvenuto alcuni scheletri lasciati ad avvizzire fra mosche e vermi. La cartilagine sulle ossa era insolita, sembrava essere stata corrosa da qualche liquido che le aveva dato lineamenti informi e ruvidi.
    Ammantato dall’oscurità mi muovevo in silenzio, ignorando le creature che strisciavano confuse nelle pozze marce, per seguire la scia di morte.

    La putrefazione attorno a me aumentava, stavo avvicinandomi al cuore della foresta. Persino le piante spinose caratteristiche della zona cedevano all’aria marcescente che andava ad aumentare dopo ogni passo. Fiumi di sangue misto ad acido putrido scorrevano sul terreno, corrodendolo.
    Il responsabile stava acquattato ai piedi di una quercia dai rami secchi e scuri, con l’ennesimo cadavere stretto fra le mani rivestite di un tessuto osseo che fuoriusciva dalla sua carne. Il suo corpo era umanoide, gambe ciclopiche simili a quelle di un quadrupede. Braccia, capaci forse di stritolare l’acciaio ed un viso arcuato che ruggiva il suo odio al mondo.
    Dal corpo ossuto cadevano gocce verdastre che al contatto col terreno scavavano nella superficie finché non si consumavano. Non so come, ma si accorse di me.
    Le zanne spalancate puntavano proprio a me, il suo grido di battaglia echeggiava nella mia direzione.
    Protese la mano e balzò. Il suo colpo fu micidiale, demolì il tronco su cui ero appoggiato riducendolo in una matassa di schegge vaganti, ero riuscito ad eluderlo spostandomi di qualche metro a destra.
    Non tastava l’ambiente col naso, eppure avanzava come se potesse sentire l’odore della mia anima di spettro sulla sua pelle.
    Rotei la lama su di lui, scagliando un fendente dritto sul capo. Ciò che accade fu insolito, mi aspettavo di vedere la sua testa tranciata a metà ed il corpo cadere deceduto di conseguenza. Invece, fu come se la mezzaluna nascente avesse cozzato su una lastra di metallo. Gli artigli della creatura mi furono subito addosso. Mi allontanai in tempo, sfiorarono appena la carne. Nonostante ciò, un’imponente squarcio bruciava sul petto. Era come se fossi stato appena sfiorato da una mannaia.

    L’enorme braccio simile ad un albero rinsecchito si protese, mi sentii ghermire in una morsa d’acciaio finché, non fui scaraventato altrove. Con la schiena urtai qualcosa di ruvido, polveroso... Granito? Alle mie spalle una delle perdute costruzioni sparpagliate nella foresta, davanti a me, quella mostruosità abnorme ruggiva il suo odio. Il taglio sul petto, si allargava come se stesse divorando la carne. Decisi di rintanarmi in quella costruzione.

    Il pavimento era in legno, marcito da tempo. Le pareti in pietra si estendevano a vista d’occhio. Una rampa di scale portava ai piani inferiori, corsi in quella direzione.
    Qualcosa scattò, rumori meccanici attraversarono la piccola stanza, mi scansai appena in tempo. Dal pavimento fuoriuscivano enormi spuntoni ricoperti di ruggine, notai in quel momento che la pavimentazione era costellata di numerosi fori. Sulle pareti correva una linea scavata nel legno, possibile, lame circolari? Il tempo ne aveva avvilito l’aspetto ma la funzione principale continuava imperterrita. Quel posto era un luogo di morte, un’antica camera di tortura sotterranea.
    Mi portai avanti di qualche passo, quando la creatura mi raggiunse sbriciolò le punte acuminate che avevo evitato solo passandogli sopra. Le seghe circolari cominciarono a ronzare, il suo passo pesante echeggiava nell’aria. Vidi il luccichio di frammenti d’acciaio scaraventati in ogni dove accompagnato da uno stridio spaventoso di metallo che cozzava contro altro metallo. Le aveva sbriciolate.

    L’incredulità venne presto oscurata dalla sofferenza, la ferita sul petto continuava a bruciare. Sentivo la vita venire meno, stavo per cedere.
    Utilizzai la lama di fuoco per illuminare la zona davanti a me, un’immensa pozza d’acqua scura coperta di melma, pilastri quasi sgretolati sorreggevano quel sotterraneo, dovevo prestare attenzione. Una singola trappola avrebbe potuto smembrarmi, non sapevo quali forze operavano ma preferivo mantenere integra la carne.
    Da dietro ad un pilastro, forse quasi incuriosito da quelle fiamme uno spettro non dissimile da quelli che avevo affrontato alle porte della foresta si palesò a me. Lo caricai prima che lui potesse lanciare qualsiasi offensiva, scaraventandolo altrove.
    L’ombra gargantuesca che m’inseguiva raggiunse quell’antro, mi nascosi ritraendo la lama. Da dietro al pilastro potevo sbirciare l’incontro del gigante con quella sorta di lich. Lo prese fra gli artigli, la testa infilata fra i denti. Il sangue azzurro cominciò a scorrere fra le sue zanne, sembrò quasi sentirsene rinvigorito. Non era della mia anima che sentiva l’odore, ma del mio sangue, il sangue azzurro di uno spettro. Presto ne avrebbe voluto altro.

    Lo vidi aguzzare le narici, tastando gli odori attorno a se. La melma ed il fetore di cui era intrisa quella stanza lo confondeva, non era qualcosa a lui familiare, non riusciva a distinguere il resto. Si voltò verso il pilastro.
    Corsi via, rallentato dalla morsa delle acque melmose. I suoi passi ciclopici non affogavano nel liquido, tranciando la distanza che lo separava da me con estrema facilità.
    Fui io a rallentare quella cosa, cariche di fulmine impregnate nei miei artigli posati al suolo si trascinarono fino a lui, lasciando che la sofferenza ghermisse il suo corpo.

    Man mano la melma si trovava sempre in quantità minore, finché non scomparse completamente, lasciando solo un pavimento di pietra. Sebbene riuscissi a distinguere le pareti accanto a me, davanti c’era solo un’immensa pozza scura. Alzai lo sguardo, una porta acuminata spessa qualche pollice e larga l’intero varco pendeva dal suolo, catene arrugginite la sorreggevano, ma non riuscivo a trovare il meccanismo per abbassarla. Poco importava.
    Un colpo, poi un altro. Un rapido susseguirsi di fendenti spezzò il ferro logoro, mi gettai dall’altro lato. La porta cadde solo per metà, rimanendo sospesa in modo obliquo. Avevo rotto solo uno dei due supporti che la sorreggevano, ma gli anni di abbandono fecero il resto. L’altra catena non poteva reggere da sola il peso del cancello, si spezzò, lasciandolo franare prima che la bestia riuscisse a varcarlo.
    Dalle grate lo vidi cozzare contro la porta, picchiando con le braccia erculee sulla superficie ferrosa. Nemmeno lui poteva piegarla.

    M’incamminai nell’oscurità, enormi catene uncinate pendevano dal tetto, le loro ombre proiettate dal fuoco della mietitrice apparivano come macabri fantasmi rintanati in quell’antro di morte.
    Tastai il mio petto, non sapevo dove quel corridoio nero come la pece mi avrebbe portato, era necessario riposare le membra. La carne doveva rigenerarsi.

    CAPITOLO III

    Arrivai alla fine del cunicolo, uscendo dai sotterranei di un’altra abitazione diroccata. Il mondo appariva ora diverso rispetto a quando avevo mosso il primo passo in quella palude di ghoul e mostri.
    La vegetazione, disposta in modo macabro come a voler elargire una sorta di santuario. Rose dai petali neri fiorivano su un’intricata fitta di rovi, correndo in modo circolare attorno a quel luogo. Solo un punto restava scoperto, quello che mi permetteva di passare ed entrare nel sacrario, l’ingresso sotterraneo di quell’edificio in rovina.
    Una sorta di sarcofago scavato nella pietra stava al centro, avvolto da quelle medesime rose scure, quasi a volerlo sigillarle. Scrutai l’uscita dall’altra parte ed avvicinandomi, notai una particolarità sulla roccia. I rovi da cui era avvolta erano stati spezzati, come se quella sorta di sepolcro si fosse spalancato di recente. Raggirandolo, sentii un movimento provenire alle mie spalle. Il sarcofago era stato scoperto, dall’interno.
    Mi voltai la collera nel cuore e la lama alla mano, la cosa sorta da quella sacrario non era però un mostro come quelli che avevo incontrato, ma qualcosa di meno ributtante.
    Una donna dagli splendidi e fluenti capelli scuri come quelle rose, gli occhi verdi e le labbra di un rosso intenso. Indossava un abito lungo anch’esso rosso, il quale le cadeva fino ai piedi.
    Per riflesso involontario ritrassi la lama prima ancora si fosse manifestata del tutto. Mi sentivo quasi ipnotizzato da quella visione.
    “Uno spettro a cui è rimasto ancora un barlume di volontà” La sua voce melodiosa si confondeva con l’amarezza di quelle parole. Al movimento delle sue labbra carnose, vidi i canini aguzzi che sporgevano. Una vampira.
    Ripresi in mano la ragione
    “Questo spettro ha più di un effimero barlume di volontà” Mi allontanai di qualche passo.
    “Ed è per questa volontà che vieni a violare il mio sepolcro, demone”
    “Violare... È una semplice casualità se sono qui, me ne andrò appena avrò estirpato il cancro che avvelena questa terra”
    “Ed è questo male che ti ha condotto qui? Ghoul e spettri per un mangiatore d’anime.. Se non sei venuto a banchettare è una battaglia persa in partenza. Finché gli uomini verranno a morire qui, quelle creature continueranno a esistere.”
    Ero quasi disposto a scommettere che ne erano morti di più fra le sue cosce che nella palude... Mi trattenei tuttavia, non avevo voglia di azzuffarmi con una vampira. Sarebbe stato uno spreco squarciare a metà un così bel viso.
    Mi voltai, incamminandomi. Lei sembrò notare qualcosa in quel momento, forse per una qualche divinazione o per le vesti logorate dalla battaglia.
    “Il demone di ossa...” M’incuriosii, la donna sapeva qualcosa.
    “Se sai come uccidere quella cosa...”
    “Non lo so” M’interruppe lei , appoggiandosi sul bordo del sarcofago. “ Ma se proprio devi, procurati almeno un antidoto contro il suo veleno, a me no che tu non voglia diventare una pozza di carne putrefatta”
    Involontariamente le ali confluirono sulla mia schiena, irradiando l’area circostante. Vidi la vampira sussultare difronte a quella luce.
    “Di certo non sarò io a diventare una rivoltante pozza di carne e ossa, vampira”
    I suoi occhi erano immobili, non sembrava volere distogliere lo sguardo “Forse... Potresti avere qualche possibilità” La vidi sorridere.
    “Potrei aiutarti ad aumentare queste possibilità, non ho a cuore quella creatura, non sarai affatto rincuorata dalla sua fine se questo è la scopo che ti porta qui... se sei disposto ad accettare il prezzo che questo aiuto richiederà... Non ti chiedo molto..”
    Si avvicino, le sue dita esili si passarono sul mio viso.
    “C’è un altare che appartiene ad un demone, egli un tempo concedeva artefatti che inibissero i miasmi delle creature che abitano Termogent, posso mostrati dov’è, chiedo solo una cosa in cambio... ” Le sue mani ora erano appoggiate a me, mentre il capo sprofondava nel mio petto
    “Poche gocce del tuo prezioso sangue di spettro, il sangue che può alimentare la magia dei vampiri. Solo i fantasmi abitano questa foresta ormai, il loro sangue è debole, il tuo è forte. Fammene dono, mio angelo caduto, una piccola frazione. Solo questo ti chiedo” Le sue labbra morbide si avvicinavano al mio collo, sentivo aria gelida soffiare sulla pelle.

    Le afferrai la mano senza troppi complimenti, guardandola in quei suoi occhi verde spettrale.
    “E perché dovrei condividere il mio sangue quando posso trovare l’altare da solo?”
    La brutalità della mia azione non sembrò toccarla, invece sorrise.
    “E’ tutto a vantaggio tuo, angelo caduto. Se pensi possa essere doloroso, posso alleviare la sofferenza, renderla piacevole”
    Le sue mani ora mi stringevano in una docile morsa nel mentre la testa rimaneva appoggiata alla mia spalla.
    “Solo poche gocce..” La sentii sussurrare mentre le sue labbra si avvicinavano alle mie.

    CAPITOLO IV

    L’entrata scura di una grotta perduta ad ovest della foresta, stava sopra una ripida altura difficile da raggiungere, quella vampira avrebbe fatto meglio a non mentirmi.
    Buio e umidità erano onnipresenti, le fiamme della mietitrice riuscivano a rischiarire il cammino solo entro qualche metro. Appariva completamente disabitata, depredata da ogni vita.
    Luci verdastre presero a balenare in lontananza, ero vicino.
    Il santuario non appariva diverso da quelli che avevo visto in passato, pareti cosparse di incisioni ed una grottesca statua sul fondo della stanza. Gli occhi scavati nella pietra sembrarono quasi illuminarsi appena varcai la soglia.
    “Ah, vampiro trapassato, hai deciso di portare la tua carcassa nella mia forgia...”
    “Se sono qui è per un motivo preciso demone, c’è una creatura che infesta questo luogo. Una gargantuesca mostruosità di zanne e cuspidi dure come acciaio affilato. Dimmi cosa vuoi in cambio di un artefatto che possa affrontarla.”
    “Condividi con me il tuo sangue di morto, versalo sul mio altare e avrai l’aiuto che cerchi”
    Una frase che suonava maledettamente familiare. Con la punta dell’artiglio squarciai la vena sotto il palmo, lasciando esaudendo il desiderio del fabbro. La stanza fu attraversata da una strana luminescenza verdastra, il tributo era stato versato ed accettato.
    “La creatura non è di questo secolo, ha origini più antiche. La recente corruzione dei pilastri l’ha risvegliata dal suo sonno centenario, i secoli trascorsi a riposo l’hanno fortificata. Alimentata dal veleno paludare che scorre in questa foresta, il corpo è mutato nella forma grottesca che hai conosciuto mentre lo spirito stagnava nel mondo spirituale, contaminato da forze che non appartengono a questo mondo o quel piano d’esistenza. Quando l’anima è stata richiamata nel corpo, la fame che aveva conosciuta nell’oblio è giunta con lui.
    Se ti prenderà non si limiterà a maciullare la tua carne, dissanguerà il tuo corpo, sbranerà la tua anima e la divorerà.
    Per il sangue che mi hai offerto ti concedo questi tre artefatti, i miei antitossina. Usali quando il suo veleno ti colpirà, lo cancelleranno dal tuo corpo”

    Mi avvicinai, controllando gli artefatti. Tre teschi rimpiccioliti trafitti da bastoni di legno, un liquido verdastro pendeva dal cranio. Non sapevo precisamente come avrei dovuto utilizzarli, di certo non volevo sacrificare altro sangue solo per chiedere una banalità del genere. Una semplice questione di principio. Li presi con me, lasciando il santuario.

    Avrei dovuto affrontare quella cosa nel mondo della materia, le alte fronde ed i numerosi rovi sparpagliati per la foresta intaccavano la mia capacità di volare. Il terreno era estremamente più pulito, sebbene quella creatura sarebbe stata avvantaggiata.
    A braccia consorte mi sedetti su un masso, pensieroso. Ero conscio del pericolo, avevo le risorse per affrontarlo. Gli antitossina, se quell’artefatto poteva davvero cancellare veleni e miasmi dal corpo di un vivente o di un non-vivente, quali ripercussioni avrebbe avuto su una creatura originata dalla stessa putrefazione. Ne avevo solo tre, la mia immortalità era a rischio contro quella cosa, valeva davvero la pena rischiare tanto?

    CAPITOLO V

    Aggrappati alla mia cintura due catene che terminavano con enormi uncini cosparsi di ruggine, accuratamente allacciati a mò di corda. Gli antitossina stavano anch’essi affianco alla mia cintura, speravo solo di non perderli nello scontro. Il mantello era stato fatto a brandelli, la schiena era scoperta.
    Il cancello crollato nella suicido sotterrano dove avevo lasciato il demone era rimasto intatto, riuscivo ad intravedere delle ammaccature sul metallo, aveva provato a sfondarlo.

    Nonostante il buio notai una crepa nella parete a sinistra, mi avvicinai, sbirciando al suo interno. C’era un passaggio, i macigni erano franati dalla parete coprendolo, nella fretta di seguire il corridoio non l’avevo notato la prima volta. Uno ad uno rimossi tutti gli ostacoli, in pochi minuti riuscii ad attraversare quella soglia. Portava ad una stanza umida, sangue secco su un tavolo in legno di ciliegio dove vi erano appoggiati vari coltelli mentre altri strumenti di tortura stavano appesi ai muri. Anelli per incatenare prigionieri alla parete ed altri, numerosi, fori sul pavimento proprio dove avrei dovuto proseguire. Di nuovo trappole, dovevo essere cauto.
    Quei sotterranei dovevano snodarsi in cunicoli che collegavano varie zone della foresta, seguendo la puzza di marcio avrei trovato quell’abietta mostruosità del passato.
    Arrivai al corridoio principale, il medesimo che avevo attraversato per sfuggirle la prima volta. L’acqua appariva diversa, alla melma che stagnava sulla sua superficie si era aggiunto dell’altro. Qualcosa di marcio, sapevo che cosa l’aveva originata.
    I miei passi fecero più rumore del dovuto. Il demone se ne stava rannicchiato in un angolo, pazientando, pazientava per quando sarei ritornato. Caricò furiosamente, scansai i suoi enormi artigli che si conficcarono nella pietra. Del liquido scuro cominciò a scorrere dal rivestimento osseo che copriva le sue mani, i miasmi venivano liberati nell’aria.
    Balzai oltre, la lama spettrale si avvicinava alla gola della creatura, spostò la testa ed impattò contro il rivestimento del capo. Una piccola goccia di sangue nero schizzò via, ed un taglio così minuto da essere appena percettibile ad un occhio meno attento si era aperto sullo sternocleidomastoideo. I sospetti sull’anatomia di quella bestia sputata fuori dall’ombelico dell’inferno erano corretti, il rivestimento osseo era come un’armatura, temprato nelle profondità della terra dallo stesso acido che gli scorreva nelle vene. Dovevo colpirlo dove era aperto.
    La corazza naturale rivestiva gran parte della sua pelle, come un guscio invulnerabile che mi era impossibile distruggere. Sorrisi, quasi schernendo quella rivelazione che avevo accuratamente previsto. Ritrassi la mietitrice, impugnando le due catene, il mostro continuava ad avvicinarsi scagliando laceranti fendenti. Il corridoio era estremamente ampio, ma a furia d’indietreggiare sarei finito con le spalle al muro ed inevitabilmente tranciato.
    Un fendente, arrivò a mezz’aria dal suo braccio destro, un altro dal basso col sinistro. Ogni tanto alternava colpi casuali ma il suo schema principale mi era chiaro. Notai un’apertura, un’occasione.
    Il fulmine più potente s’impatto sul suo viso, una scarica di furiose saette lo percosse costringendolo ad indietreggiare. Scattai, impugnando l’uncino. Gli occhi, nessuna armatura a coprirli. Conficcai la lama ricurva nel bulbo e con mia somma soddisfazione lo sentii gridare al mondo la sua sofferenza.
    Con uno slancio arrivai dietro di lui, stringevo i numerosi anelli della catena con la mano destra mentre la sinistra srotolava l’altra catena uncinata. Con un solo movimento la conficcai nel suo collo dalle spalle, un colpo fortunato.
    Cominciai a tirare, la sua forza rendeva giustizia a quella stazza. Non avrei potuto eguagliarlo se non fosse stato per un insignificante particolare. Ogni volta che cercava di fare leva in avanti per liberarsi, gli uncini sprofondavano ancora di più nel collo e nella testa, le sue dita inoltre erano troppo grandi e tozze per afferrare gli uncini. Rischiava di ammazzarsi da solo. Nonostante ciò non voleva smettere di fare resistenza, se l’avesse fatto la testa sarebbe stata apportata di lama per pochi secondi, sufficienti a decapitarlo. Man mano che il tempo passava sentivo le braccia indebolirsi non solo per la fatica ma anche per il veleno nell’aria, era come se la mia anima venisse meno. Si fermò, rimase immobile nella sua posizione attuale, riprendendo fiato senza però smettere di opporsi. Un solo slancio facendo forza sul ginocchio erculeo, fu capace di alzarmi qualche metro da terra. Sarei stato scaraventato oltre se non fosse che riuscii ad afferrare le protuberanze della sua corazza. Ero sulla sua testa.
    Si agitava selvaggiamente, scontrandosi contro le pareti, caricando ogni cosa. Non avrei resisto allungo a quella tensione, troppo tempo ero stato a contatto con l’ambiente contaminato ed ora le mie forze venivano meno. Decisi si sacrificare uno degli antitossina del demone. Lo strinsi nel pugno col rischio di venire sbalzato via, un minuscolo bagliore quasi inesistenze attraverso il mio corpo. Mi sentii rinvigorito, completamente libero dal veleno di cui ero stato inebriato.

    Nella sua corsa sfrenata la creatura mi condusse all’esterno, una pioggia torrenziale incombeva su tutta la foresta. Un’arma a doppio taglio, avrebbe lavato via le tossine da sopra la creatura permettendomi di resistere più a lungo ma io avrei rischiato di scivolare.
    Per tutto il tragitto avevo cercato di conficcare la mietitrice nella gola del mostro, mi era tuttavia quasi fatale rimanere aggrappato con una mano sola. Ogni volta che tentavo mi sentivo sbalzato, costretto ad aggrapparmi nuovamente con entrambe le mani.
    Attraversammo un antro di palude che per mancava di alberi veniva inondato dalla pioggia, la creatura scivolò ed io assieme a lui. Mi ritrovai in terra, quell’unico occhio che gli era rimasto, mi fissava carico di odio.
    Tempestivamente le ali sorsero portandomi via dal suo artiglio. In quella zona potevo affrontarlo dall’alto, ottenendo il vantaggio che altrove mi era proibito.

    Il mostro tastò il terreno, afferrando grossi macigni con entrambe le braccia. Mi fu facile scansarli da dove ero, ma il bastardo utilizzò qualcosa in più. Pochi secondi dopo aver scansato l’ultimo, un getto verdastro arrivò a me, riuscendo a lacerare il mio braccio sinistro dalla spalla in poi. Acido che bruciava la pelle, scavando nella carne fino alle ossa. Seguirono altri getti simili a ripetizione. Dovevo allontanarmi.
    Capii cosa cercava di fare, spingerli nei dintorni degli alberi cosparsi di rovi, dove i miei movimenti in aria sarebbero stati estremamente limitati. Era conscio che per affrontarlo dovevo tenere una certa distanza, ma non potevo allontanarmi troppo per colpirlo.

    In lontananza scrutai l’antica residenza del vampiro Vorador, un’idea mi balenò in mente. Sapevo come vincere.
    Scesi a terra, lui si avvicinò sradicando la vegetazione ovunque lo bloccasse. Cominciai a correre in direzione della magione vampiresca, il sentiero era già battuto. Ogni tanto durante il tragitto mi davo una spinta con le ali, prendendo le dovute distanze. Con i fuochi fatui che bruciavano all’esterno della villa mi fu impossibile perdere l’orientamento.

    Scattai verso il tetto, venendo seguito dalla bestia che scalò immediatamente le pareti. Il tetto della villa era uno spazio ampio, privo di vegetazione per decine e decine di metri, perfetto.
    Erto su entrambe le gigantesche gambe, la sua bocca si spalancò rivelando le numerose file di denti. Il suo attacco arrivava dall’alto, lanciato verso il basso.
    Non cercai d’intercettarlo, lo schivai semplicemente sbattendo le ali. Come una furia impazzita i suoi fendenti cercarono di squarciarmi susseguiti da rigetti acidi. Impugnai nuovamente la mietitrice puntando alla gola, lacerai una parte della spalla che non era coperta dalla corazza. Un attimo, ebbi un solo attimo. Lanciai gli antitossina che mi erano rimasti nella sua gola.
    Lo vidi arrancare, mentre i miasmi di morte attorno a lui si facevano meno intensi, quella particolare aura di morte si faceva meno intensa.
    La mezzaluna nascente pregna del potere elementale della tenebra, era l’arma perfetta ad abbatterlo una volta per sempre. Roteai la lama verso di lui, ancora stordito da quello che scendeva nella sua gola. Il fremito dello scontro accese la lama di energia oscura, numerosi squarci neri come la notte viaggiarono in direzione del mio obiettivo, precedendo la letale lacerazione della mia arma.
    La capacità ereditata dalla forgia di tenebra, quella di generare globi oscuri. Così come la spada si era evoluta il potere della forgia si era adattato alla sua nuova forma.

    Numerose crepe apparvero sull’armatura ossea del demone, avrei spezzato la sua vita trafiggendone il petto. Alzai la mietitrice al cielo richiamando l’impregnatura primordiale. Come quasi quest’ultimo rispondesse alla mia volontà, alla volontà di Termogent che chiedeva vendetta per la terra appassita a causa al tocco del demone, un raggio di luce falciò la tempesta irradiando la figura della mietitrice.
    La lama fantasma sprofondò nel petto della creatura, il suo fiato si fece rauco. Un ultimo sforzo per il mio braccio dolorante... Scavai nella sua carne, fino a tranciare il cuore.

    Un altro incarico concluso... Qualcosa di particolare però accadde. Lo spirito famelico abbandonò la carcassa. Era immenso, un enorme globo di energia spirituale. La fame s’impadronii di me. Divorai ogni singolo frammento di quell’essere, risucchiando fino all’ultimo filamento di energia.
    Il corpo senza vita arrancò prima di bruciare, dissolvendosi. Rimase solo una cosa, le sue ossa, il mio trofeo. Non capii perché, ma le ossa del demone cominciarono a sbriciolarsi, divennero polvere. Accarezzai quella nube che andava a disperdersi, in quel momento mi tornò alla mente quando con la mia sola volontà avevo plasmato la mietitrice, creando la mezzaluna nascente.
    Sentii di riuscire ad influenzare quei resti come avevo fatto in passato con la mia lama fantasma.
    La polvere cominciò ad arrancare su di me, prendendo forma solida. Le mie braccia e gambe furono bardate da una corazza ossea di cuspidi non dissimile da quella del demone. La forma tuttavia era più.. elaborata. Gli aculei erano disposti in modo ordinato, e l’armatura si adattava perfettamente al mio corpo.

    Alle mie spalle , la vampira che avevo conosciuto nel remoto cuore della foresta stava lì immobile. Non sapevo quanto avesse osservato. Forse poco e nulla, magari il rumore dello scontro l’aveva attirata lì ed era appena arrivata.
    L’aria era ancora umida per via del temporale, presto le nuvole si sarebbero diramate, lasciando che il sole del mattino inondasse la zona. Ella sembrava avere visto questa possibilità, era ammantata da una vestaglia rossa e nera, un cappuccio le copriva i lunghi capelli.
    “Sono sorpresa... Ma del resto, non potevo aspettarmi di meno da un glorioso angelo caduto”
    “Non sono un angelo, sono lo spettro errabondo di un vampiro. Dovresti saperlo”
    “E chi l’ha detto che un vampiro non possa essere un angelo? Un angelo della notte, un vendicatore alato, perché no... L’angelo della morte, colui che strappa la vita”
    Le sue parole mi rimandavano alle origini di quella che per breve tempo era stata la mia specie, angeli.. Angeli caduti in disgrazia. Non erano poi così false le sue parole.
    Mi accarezzo ancora il viso, la sua mano giovane e liscia era gelida come l’aria che attraversava tutta Termogent. Le labbra rosse si avvicinarono a me.
    “Sarei quasi tentata di proporti un’alleanza, ma questi giochi di potere ormai sono passati con il delirio che accompagna Nosgoth. Hai almeno un nome da lasciare ad una povera fanciulla? ”
    “Abdiel” Mi limitai a rispondere
    “Abdiel... Mio angelo caduto” Si strinse ancora attorno a me “Nonostante tutto, sei stato un amante capace”

    Tornai alla cattedrale , stranamente soddisfatto. Di solito massacravo vampiri e mostri, ma questa volta era stata vagamente diversa. Più insolito però fu ciò che accadde al ritorno nella Cattedrale.
    Nelle camere della cattedrale, dove era possibile usufruire delle sentinelle di pietra per ogni scopo, ne risvegliai una per provare l’effettiva robustezza della mia nuova corazza.
    Durante lo scontro, fui invaso da una strada energia, una forza malefica che crebbe fino ad artigliare ogni fibra del mio essere. L’armatura prese a mutare, si espanse fino a rivestire completamente il mio corpo. Sentivo la sua forza ultraterrena inebriarmi, le pesanti armi della sentinella non riuscirono a toccare la mia carne, la pietra s’infranse sotto la ferocia delle cuspidi di ossa. Il macigno che faceva da testa si staccò e rotolò via, frantumato in centinaia di pezzi.

    Quella indossata dal demone non era altro che una forma grezza. Come il metallo che giace nelle profondità della terra in attesa di essere modellato, io avevo fatto mia quella corazza prodigiosa dandole una nuova forma ed uno scopo molto più elevato del cacciare e sbranare ignari spiriti perduti.
    Una domanda tuttavia sorgeva, dovevo tenere per me questa consapevolezza o condividerla?
    Io ero diverso da chiunque altro, poiché non risvegliato dalla mano del primo servitore dei pilastri, colui che eresse la cattedrale. E ancora come per la mia mietitrice, questo nuovo dono mi rimandava all’ennesimo quesito. Quello che avevo conquistato era qualcosa di unico, ma data la sua natura sarebbe stato accettato o guardato con disappunto?
    Angelo caduto, portatore di morte... Angelo della morte. Ali maestose sulla mia schiena, la falciatrice d’anime nella mia mano destra... Ed ora, bardato con un’armatura di diaboliche ossa germogliate dalla profondità della terra. Forse lo ero davvero, il becchino dell’equilibrio, l’angelo della morte.
     
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    IL CULTO DELLE OMBRE - PARTE SECONDA



    Andando avanti ed indietro, d'innanzi ai Pilastri, Bleed soppesava i pensieri tentando di capire l'impossibile con le troppe poche informazioni in suo possesso. Così dopo alcuni minuti di vano rimuginamento ed elucubrazioni mentali si fermò e, mentre una mezza dozzina di ghoul si erano messi in fila aspettando il proprio turno per riferire sui lavori di perfezionamento della Fortezza delle Anime, si rivolse alla dama spettrale.

    Dunque non c'è altro modo di porre fine a questa faccenda se non agendo direttamente. Abbiamo bisogno di più informazioni, non possiamo permetterci passi falsi in questa fase critica di Nosgoth. Ma, al tempo stesso, non possiamo permetterci di sottostimare il problema che un culto di questo genere potrebbe creare in futuro.

    ... dopo un rassegnato sospiro guardando i ghoul, Bleed continò ...

    Mi spiace affidarti un incarico tanto gravoso ma al momento sei l'unica che può intervenire. Torna ai villaggi, cerca maggiori informazioni. Cerca di scoprire il loro segreto, di capire se possiamo in qualche modo impossessarcene. Se però riterrai essere una potenziale minaccia per l'Alleanza, ti autorizzo a fare tutto quello che è in tuo potere per metter fine al Culto ed alle sue macchinazioni.

    E così dicendo, il Paladino diede le spalle alla dama e prestò attenzione ai ghoul che intanto erano quasi raddoppiati.



    LdR 2.5 -> 4


    Into Darkness



    Capitolo 1
    (Soundtrack sound_glyph_)

    C’era uno strano silenzio nell’aria, un’immobilità che non faceva presagire nulla di buono. Il cielo plumbeo incombeva pesante su quella foresta di alberi contorti e ingrigiti, i cui rami scricchiolavano come animati di vita propria, considerando la bava di vento che appena appena mi accarezzava il volto. Quella foresta avrebbe terrorizzato qualsiasi essere umano, ma i miei sensi erano all’erta per ben altri motivi: non riuscivo a scrollarmi di dosso l’impressione di essere spiata.
    Avevo lasciato la Cattedrale dell‘Anima da nemmeno un paio di giorni, dopo aver studiato la mappa di Nosgoth: Cedric aveva parlato di una città nei pressi del Lago delle Lacrime, ma ve n’erano ben tre. Avevo deciso di procedere verso la città più vicina, Nachtholm sperando di trovare qualche indizio. Lì avevo sì reperito delle informazioni, appostandomi sulle strade principali e origliando le conversazioni delle persone che entravano e uscivano dalla città, ma non esattamente quello che mi aspettavo di trovare. La popolazione non sapeva nulla del Culto, o almeno nessuno ne parlava, ma frequenti erano stati i commenti perplessi circa la presenza improvvisa di vampiri nelle acque del piccolo lago che circondava la città. Rahabim che, stando ai racconti dei pescatori, non si avventuravano mai fuori dalla superficie dell’acqua, nemmeno per cacciare. Comportamento a dir poco insolito per quelle creature... così avevo deciso di investigare, non sapendo se le cose fossero collegate o se stessi solo perdendo tempo.
    All’improvviso l’aria stagnante si animò e una ventata mi portò alle narici l’odore dell’acqua assieme ad un aroma di putridume, alghe ed erba marcita. Il lago doveva essere vicino! Affrettai il passo e ben presto mi trovai davanti l’argentata distesa davanti. L’acqua sciabordava quieta sulla riva, mentre un leggero velo di nebbia aleggiava al largo. Qualche decina di metri lontano da me, un airone dall’aria emaciata si ergeva immobile tra i giunchi, scrutando le acque scure in disperata attesa di qualche pesce da catturare. Uno scoppiettio e rimestio d’acqua mi fece volgere lo sguardo davanti a me: onde concentriche e qualche bolla increspava la superficie laddove qualcosa era brevemente affiorato. Il lago versava in condizioni un po’ meste, ma non vi era nessuna traccia di Rahabim. La mia perplessità crebbe considerevolmente. Non era un comportamento normale per quei vampiri... tra l’altro, la stagione non era mite abbastanza da giustificare la paura della luce solare, senza considerare che recentemente il clima era peggiorato, come tutta Nosgoth dopotutto. Ma anziché approfittare, i vampiri sembravano essersi rintanati in profondità. Da quello che sapevo, quel clan di Rahabim proveniva dalla tana sita nel Lago delle Lacrime, la mia destinazione. Forse potevano sapere qualcosa circa il Culto delle Ombre, ma come raggiungerli? Stetti lì a riflettere, mentre lasciavo scorrere il mio sguardo sulla vastità del lago. In lontananza una gavia ammarò silenziosamente sulle acque scure e si rassettò le piume. Appena distolsi lo sguardo, un rumore improvviso, come di qualcosa risucchiato nell’acqua mi riportò al punto dov’era la gavia... e lì rimasi basita: l’uccello non c’era più. Dopo qualche attimo qualcosa riemerse in superficie e galleggiò pigramente.
    Avanzai decisa verso l’acqua e mi tuffai. Il gelido abbraccio del lago mi avvolse mentre fendevo la sua superficie nel tentativo di raggiungere il cadavere della gavia il più in fretta possibile: nessun predatore azzanna la preda per poi lasciarla andare via quasi intatta... Doveva essere stata dissanguata da un Rahabim. Una volta arrivata sul posto, mi trovai circondata di piume che veleggiavano alla deriva sulla superficie. Mi tuffai immediatamente sott’acqua e nuotai verso il basso cercando di vedere dove potesse essersi nascosto il vampiro. Dopo pochi metri il buio iniziò ad avvolgermi e non riuscivo più a distinguere le mie mani davanti a me. Evocai la Mietitrice e mi concentrai su di essa. Desiderai con tutta la mia mente di fendere l’oscurità e una calda luce dorata mi avvolse il braccio destro. Avevo scoperto quel potere relativamente da poco e ancora faticavo a padroneggiarlo, per cui sperai che tale luce mi accompagnasse fino alla fine della mia ricerca e non mi abbandonasse delle oscure profondità di quel lago. Avanzai cauta, mentre il mio sguardo cercava di filtrare attraverso le acque smeraldine e foreste di alghe. Banchi di pesci guizzavano spaventati al mio passare, ma del vampiro nessuna traccia. Incominciai a dubitare dell’intera faccenda, pensando nuovamente di star perdendo tempo prezioso, quando all’improvviso una grossa sagoma si mosse più avanti. La luce della Mietitrice non aveva ancora penetrato quel punto del lago, ma avevo chiaramente percepito il movimento. All’improvviso, mani artigliate mi agguantarono per le spalle e mi strattonarono via, mentre dietro di me eruppe un gorgoglio da cui distinsi a malapena le parole “Vattene via!”.
    Mi voltai di scatto ma fui ricompensata solo da una scia di bolle e da un’altra sagoma scura. Non sapevo come comunicare a quella creatura che volessi solo informazioni. Poi capii. Con un atto di volontà dissipai la lama spettrale che avvolgeva il mio braccio e ripiombai nell’oscurità. Dopodiché alzai le mani, sperando di comunicare un gesto di resa al mio sfuggente interlocutore.
    Un altro gorgoglio, questa volta meno minaccioso, e poi le parole “Cosa vuoi?”.
    Indicai la superficie e la mia bocca mimando l’atto di parlare, dopodiché mi mossi lentamente verso l’alto, sperando che la creatura mi seguisse. Appena eruppi la superficie dell’acqua, mi voltai freneticamente in giro: del vampiro nemmeno l’ombra. Sentendomi ingannata da quella poco cooperativa creatura, mi immersi nuovamente e nuotai con vigore verso il basso. All’improvviso andai a sbattere contro un grosso essere viscido e squamoso che ringhiò. Mi ritrassi e osservai meglio alla pallida luce che filtrava dall’alto: eccolo lì, il Rahabim, i suoi piccoli occhi rossi che mi scrutavano sospettosi, la fila di piccoli denti affilati che scintillavano candidi dalla sua bocca da squalo semiaperta in un gorgoglio di avvertimento. Indicai nuovamente la superficie e mimai l’atto di parlare. La creatura sibilò e disse: “Ti sto ascoltando, muoviti.”
    Fissandolo con gli occhi stretti, come a volergli intimare di non giocarmi scherzi, mi voltai nuovamente verso la superficie. Riemergendo iniziai a parlare al vento.
    “Sono Naeryan Voltamn, Mietitore della Cattedrale dell’Anima e sono giunta fin qui in cerca di informazioni. Dal momento che tu e il tuo clan non sembrate essere una minaccia per gli umani che vivono qui intorno, non ho motivo di attaccarvi. Ti puoi fidare.”
    Per qualche secondo l’unica compagnia che ebbi fu lo sciabordio dell’acqua e il mormorare del vento. Poi delle bollicine eruppero sulla superficie del lago accanto a me e un rantolo vagamente simile ad una risata emerse dall’acqua.
    “Fiducia..? Che parola sopravvalutata...”
    La voce andava e veniva, cambiando sempre origine, mentre mi guardavo attorno, cercando di capire dove fosse il vampiro. All’improvviso una pinna fendette l’acqua alla mia destra e intravidi la sagoma del Rahabim girarmi attorno, come uno squalo fa con la propria preda.
    Non mi lasciai intimidire e proseguii col discorso.
    “So che il tuo clan si è spostato qui solo di recente e che l’unica tana di Rahabim più vicina è quella sita nel Lago delle Lacrime. Io sto cercando una città, vicino alle sue rive, dove si annida un culto tra gli umani che venera delle ombre. Tu ne sai qualcosa?”
    Un sibilo furioso, l’acqua attorno a me esplose e delle zanne si serrarono come tagliole ad un soffio dal mio braccio. D’istinto rievocai la Mietitrice e tirai dei colpi a casaccio attorno a me.
    “Non. Nominare. Quelle. Cose!” fu il gorgoglio furioso che emerse poco distante da me.
    Potevo nuovamente vedere la pinna che svettava fuori dall’acqua e poco sotto la superficie il muso del vampiro contratto in una smorfia di rabbia mista a...paura? I suoi occhi rossi mi fissavano implacabili.
    “Non non vogliamo avere più niente a che fare con quelle cose... Vattene e lasciaci in pace!”
    “Allora avevo ragione! L’esodo del tuo clan c’entra qualcosa col culto delle ombre! Dove si trova? Qual è la città? Dimmi il nome!” esclamai, concitata dalla mia scoperta.
    Il Rahabim mi fissò per qualche secondo, come per valutare la convenienza nel darmi quell’informazione. Infine, nuotò lentamente all’indietro, i suoi occhi rossi sempre fissi su di me, verso il fondo del lago. “Vasserbunde” fu il suo ultimo gorgoglio, prima che svanisse.


    Capitolo 2
    (Soundtrack sound_glyph_)

    Ero in marcia da un paio di giorni attraverso lo Spectral, sia per riposarmi sia per evitare le numerose pattuglie Sarafan che pullulavano attorno a Steinchenchroe. Avevo pensato molto alle parole del Rahabim ed ero arrivata alla conclusione che fossero vere. Vasserbunde era una città incuneata tra i costoni delle montagne e l’estremità più orientale del Lago delle Lacrime, dove i suoi affluenti confluivano in una stretta gola a formare il primo tratto di quel vasto lago. Il ragazzo di Akhastos in effetti aveva sì nominato una città nei pressi del lago, ma non avevo considerato Vasserbunde tra quelle, forse proprio per la sua posizione così estrema. Eppure ora aveva tutto senso: Vasserbunde era una città i cui abitanti avevano una forte devozione nei confronti dei propri avi e il Culto, secondo Cedric, aveva proprio fatto leva sui cari defunti nei villaggi a sud di Meridian. Inoltre, non lontano vi era la Necropoli sede di un vasto clan di Melchiahim: in base a quanto mi aveva raccontato Bleed, Tiziel aveva incontrato dei Melchiahim immuni alla luce e capaci di evocare palle di fuoco e tutto ciò grazie ad un Melchiahim stregone, Shax, legato in qualche modo a questo culto. Ma non sapevo che un gruppo di Rahabim vivesse lì, separato dal grande e pericoloso clan che viveva nell’Abbazia Sommersa. In ogni caso, sembrava il posto perfetto per indagare.
    Arrivata alle sponde del lago, dopo aver accuratamente evitato sia i Sarafan che l’accampamento degli zingari passando attraverso lo Spectral, riemersi sul piano materiale. Avevo intenzione di attraversare il lago a nuoto per evitare di perdere tempo ed ero quindi sulla riva, pronta ad immergermi, quando con la coda dell’occhio vidi un palo di legno liscio e senza segni spuntare tra i giunchi poco distante. Mi avvicinai e scansando il fogliame scoprii una vecchia zattera adagiata sulla riva, o meglio ancorata, seppur con uno strumento che assomigliava più ad un rampino che ad un’ancora. Il posto sembrava deserto, così decisi di prenderla in prestito. Sollevai il rampino e lo adagiai al centro della piattaforma di legno e spinsi l’imbarcazione verso l’acqua. Balzai a bordo e impugnai il remo, iniziando a pagaiare. Un velo di nebbia copriva l’orizzonte laddove sapevo esserci la Cittadella dei Vampiri. Una specie di strana sensazione mi colse, un miscuglio tra nostalgia e curiosità: la storia della nostra razza e di una Nosgoth più pura giaceva là, tra le mura di quella fortezza celata ad occhi mortali ed immortali, un sarcofago che proteggeva quel tesoro prezioso per l’eternità. Con un sospiro mi concentrai sulla missione e diressi il mio sguardo verso la mia meta: la città di Vasserbunde era visibile, arroccata su un promontorio sovrastante il lago.
    In mezz’ora arrivai sull’altra sponda e, dopo aver fissato in sicurezza la zattera alla riva, mi inerpicai su per il sentiero.
    La città era mediamente fortificata, con delle alte mura pattugliate da sentinelle, che parevano però opera recente. I mattoni e la malta sembravano avere non più di qualche mese e si notava che la costruzione era un’opera dettata dall’imminente bisogno, con meno cura dell’estetica. La necessità di difendersi da una minaccia, sì, ma quale? Da quel che sapevo, non mi risultava che Vasserbunde avesse particolari nemici nei dintorni... In ogni caso, quelle sentinelle sembravano troppo vigili: per intrufolarmi avrei dovuto attendere il favore delle tenebre. Alzai lo sguardo verso il cielo plumbeo e cercai di indovinare che ore fossero. Ultimamente il clima di Nosgoth era diventato inospitale e una cappa tetra avvolgeva il mondo in un nero sudario. Cambiai così idea, scoraggiata dalla prospettiva di dover attendere parecchie ore prima del tramonto e provai nuovamente lo Spectral. Abbandonai la materia e mi ritrovai nella familiare eco distorta della realtà. Notai subito l’assenza di anime vaganti e di sciacalli spazzini; mi guardai attorno più attentamente e non riuscii a scacciare l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava. Non vi erano pericoli visibili, eppure lo Spectral non era il solito: riuscivo a percepire un qualcosa, al limite tra l’intuito e l’immaginazione, che faceva vibrare l’aria negativamente...
    Scrollai il capo e mi diressi verso la pesante cancellata che bloccava l’ingresso alla città: visto che ormai ero nello Spectral, tanto valeva che mi avvantaggiassi. Poggiai i palmi contro il ferro e con un atto di volontà spinsi il mio spirito attraverso di esso. Riemersi nella via principale della città, quella che l’attraversava come una grande dorsale. Avanzai a passo spedito, con lo sguardo che guizzava da un lato all’altro per cogliere indizi.
    Le case in pietra e legno sembravano decorose, eppure avevano un senso di trascuratezza che non sapevo spiegarmi. Più mi avvicinavo al centro della città, più la luce diminuiva: eppure ero ben lontana dalle alte mura... Alzai lo sguardo al cielo e rimasi di sasso: una nube nera incombeva greve, talmente bassa da sfiorare i tetti delle abitazioni. Un’unica struttura si ergeva al di sopra delle altre: un campanile svettava come una lancia nel cielo, perforando la nube col suo simbolo d’argento. Non dovetti pensare molto a dove lo avessi già visto: l’immagine di un ciondolo che pendeva dalle mani bifide di Bleed mi invase la mente, una runa incisa nel legno, quella runa.

    Capitolo 3
    (Soundtrack sound_glyph_)

    L’aria vibrava, un vago cupo ronzio che faceva tremare il piano spettrale. Non avevo mai visto una cosa simile e non riuscivo a capire qual era l’interferenza -perché di questo ormai ero convinta che si trattasse- ma soprattutto da dove provenisse... Ero ormai davanti alla cattedrale sita al centro della città, in una vasta piazza costellata di statue. Una ventina di metri prima dell’imponente portone, vi era una fontana riccamente decorata di immagini angeliche e di uomini in preghiera. Non vedevo portali da nessuna parte, così iniziai ad esplorare il dedalo di strade e calli nei pressi della piazza. Poco distante, mi imbattei in un vicolo cieco che dava su una specie di cortile recintato, ricoperto di edera. Una statua solitaria era sita al suo centro: una donna ammantata che guardava con pietà il vuoto ai suoi piedi. Uno scintillio bluastro aveva colto il mio sguardo. Mi diressi verso il portale e mentre passavo sul piano materiale alzai lo sguardo verso la statua e quel suo viso così particolare, compassionevole e triste al tempo stesso.
    Riemersi e mi nascosi dietro la statua, temendo di essere avvistata, ma mi resi presto conto che la zona era deserta. Le campane avevano appena finito di suonare, l’eco dell’ultimo rintocco ancora si propagava nell’aria e la gente si era accodata davanti alla cattedrale per entrare. Mi diressi nuovamente verso la piazza e attesi qualche eventuale ritardatario. Mi avvicinai alla porta, provando ad ascoltare la messa, ma non sentii nulla. Così adottai la stessa strategia che avevo attuato nei villaggi nella provincia di Meridian e mi tramutai in fumo. Veleggiai ad altezza suolo fino alla prima colonna utile e ritornai corporea. Ancora silenzio. Sbirciai cauta e rimasi stupita: la cattedrale era vuota... Dove diamine erano finite tutte quelle persone che avevo visto sciamare in massa?? Pensai al passaggio segreto nella chiesa di Akhastos e mi diressi verso l’altare. Mi fermai subito, non appena lo sguardo mi si posò su ciò che giaceva oltre l’altare: un’imponente adorna cancellata nera si apriva su un tunnel dal quale fuoriusciva una lieve brezza di aria stantia miscelata a strani incensi e profumi. Un vago scalpiccio era udibile persino da quella distanza.
    Possibile che le catacombe di Vasserbunde fossero così ampie da contenere tutta quella gente?
    Avevo una brutta impressione...
    Avanzai verso il cancello e lo attraversai, facendomi fagocitare dalla terra. Dopo pochi metri, la galleria si interruppe, sboccando su un largo e profondo pozzo. Alcune fiaccole appese alle pareti ardevano di fiamme violacee, illuminando la gigantesca scalinata a spirale che si perdeva nelle viscere della terra. Dal fondo del pozzo si levava una strana nube nerastra, che impestava l’aria come fumo. Dall’alto non proveniva quasi nessuna luce, nonostante il foro sulla volta della cupola che sovrastava quel pozzo. Mi feci coraggio e iniziai a discendere la scalinata.
    Ben presto raggiunsi una piattaforma da cui si dipanavano quattro ponti di pietra verso altrettante gallerie. Sopra ad ogni entrata vi era una pietra di volta con incisa un’epoca. A parte lo scoppiettare delle fiaccole, non si sentiva nessun rumore, così proseguii verso il basso. Vasserbunde era una città costruita su di una vena rocciosa: potevo solo immaginare lo sforzo di scavare quelle catacombe nella roccia. Ma la popolazione era antica quanto orgogliosa e aveva deciso di affidare all’eternità della roccia le salme dei suoi antenati. Quelle cripte contenevano tutta la storia della città.
    La discesa sembrava infinita e quella specie di miasma nerastro che ovattava l’aria diventava sempre più fitto mano a mano che mi inoltravo nelle viscere della terra.
    All’improvviso, oltre all’eco dei miei passi sulla dura pietra, sentii dei flebili rumori. Accelerai il passo e mi ritrovai in fondo alla scalinata, sommersa nelle tenebre punteggiate da piccole lanterne che emanavano una strana luce. Mi avvicinai e notai che erano dei cristalli montati nell’intelaiatura metallica che “trasudavano” una luce a metà tra il grigio e l’azzurrognolo. Sul fondo, un’enorme galleria si apriva d’innanzi a me, protetta da un portale di ferro massiccio. Un battente era rimasto socchiuso e così mi intrufolai all’interno. Proseguii lungo il tunnel, che all’apparenza sembrava scavato grossolanamente nella terra, costellato da stranissime formazioni geologiche che s’innalzavano contorte dal pavimento per ricongiungersi con le stalattiti che pendevano dall’alto. Il tunnel iniziò a seguire un andamento serpentino e irregolare, alternando piccole grotte ad altre gallerie che si diramavano in modo sempre più confusionario. La via era marcata da quelle inquietanti lanterne per cui sapevo di non potermi perdere, ma avevo sempre più l’impressione di starmi addentrando nella pancia di qualche colosso antico. Iniziai a sentire lo sgocciolio dell’acqua, probabilmente qualche faglia sotterranea, e piccole pozze si intervallavano sul pavimento. L’aria era pesante e soffocante, quel maledetto fumo nerastro era ovunque e si muoveva come nebbia senziente. All’improvviso percepii un vociare attuttito, ma ritmico, quasi un salmodiare. Proseguii di corsa e infine emersi in una vasta grotta costellata da quegli strani plinti di roccia, avvolti da spirali di miasma nero. Lì vi si era radunata la popolazione di fedeli chiamati a messa e quale inquietante e strana messa si stava svolgendo! Cantavano in una lingua sconosciuta, a tratti aspra a tratti sibilante, tutti avvolti da mantelli neri, oscillando sul posto come un banco di alghe accarezzate dalla corrente marina. Al centro della grotta, vi era la più imponente e contorta di tutte le stalagmiti, che assomigliava più alle radici di un albero che a roccia. Tra gli anfratti della “colonna” vi era uno strano oggetto che non riuscivo ad inquadrare. Il tanfo di acqua marcia era ancor più soffocante del miasma nero e tutta la superficie della grotta era scivolosa. I fedeli però non sembravano badarci e continuavano a salmodiare come in trance rivolti verso il plinto centrale. L’ oscurità era troppo fitta per riuscire a distinguere oltre, così aggirai la folla e cercai di avvicinarmi il più silenziosamente possibile all’altare centrale. L’acqua però fu traditrice perché non potevo proseguire senza infrangerne la superficie coi miei passi. Mi stavo per tramutare nuovamente in ricciolo di fumo quando le preghiere si interruppero bruscamente e una vibrazione fortissima smosse l’aria. Riconobbi nuovamente quell’interferenza e mi stupii che fosse così marcatamente percepibile persino qui, nel regno materiale. Mi volsi verso il centro a guardare e ciò che vidi mi lasciò completamente senza fiato.
    L’oggetto misterioso era finalmente visibile: un globo di energia che assomigliava ad un turbinio infinito di nuvole nero pece in tempesta stava vibrando mentre lo spazio-tempo si distorceva. Capii subito che quella doveva essere la famosa “sfera” di cui mi aveva parlato Cedric, fulcro del potere del Culto. Il globo iniziò ad espandersi e qualcosa si scorse al suo centro: una piana spoglia, terra arida, rocce contorte, nere, stalagmiti che come artigli si protendevano dal suolo e pura tenebra che avanzava. All’improvviso la folla trattenne il fiato mentre il capo setta si avvicinava urlando concitato a braccia aperte verso la sfera. Fumo nero iniziò ad uscire dalla sfera e finalmente capì: era un portale, uno squarcio nel tessuto dello spazio-tempo. Un’ombra colossale emerse dallo squarcio e il miasma invase l’intera grotta. La gente urlava ma non di paura, di estasi, buttandosi in ginocchio e inchinandosi d’innanzi al nuovo venuto. L’ombra vibrò ed emerse un verso così profondo da far tremare le pareti di roccia. Il capo setta cadde in ginocchio, mentre i primi fedeli si rialzavano e concitati come una mandria scalmanata di bambini, imploravano l’ombra di essere scelti. L’imponente colosso di tenebra alzò un arto fumoso e un indice scagliò delle fiammelle nere in cima alla testa dei prescelti. Questi lanciarono delle grida di felicità e corsero verso la sfera. Un altro arto si levò e fiamme nere li avvolsero, distorcendo i loro lineamenti mentre compivano il passo.
    Ero talmente assorta dalla scena che non mi ero resa conto di star avanzando. All’improvviso mi mancò il terreno sotto i piedi e incespicai in una pozza più profonda di acqua. Un urlo, questa volta sconvolto e di rabbia, incrinò l’aria e il capo setta iniziò a indicare freneticamente nella mia direzione. Ero stata scoperta!

    Capitolo 4
    (Soundtrack sound_glyph_)

    Una mano d’ombra mi agguantò, stringendomi in una morsa ferrea. Lo sguardo del colosso d’ombra fu subito su di me, mentre arcane parole venivano emesse dalla più gelida e dura delle voci. Io non riuscivo a capire cosa stesse dicendo l’essere, ma ne percepivo la potenza, antica e malevola. All’improvviso la stretta divenne più forte e sentii le energie abbandonarmi, come risucchiate in un pozzo senza fine. Il panico crebbe dentro di me, assieme alla confusione e all’impotenza. Le urla dei fedeli mi assordavano e contribuivano al mio stato di confusione. Cercavo disperatamente di menare fendenti con la mietitrice ma il mio braccio era troppo stretto al mio corpo per poterlo muovere. L’ombra avanzava inesorabile verso di me. D’impulso mi venne in mente di proiettarmi nello Spectral ma mi fermai una frazione di secondo prima di farlo: se quest’ombra era simile a quelle che facevano la loro comparsa su Nosgoth, allora sarebbe stato inutile: l’ombra mi avrebbe atteso inesorabile anche nel regno spettrale. Avrei soltanto accelerato le cose...
    Le urla cambiarono registro e suonarono più di allarme che di aggressività. Non riuscivo a capire, mi sentivo così intontita e indebolita, soggiogata da quello sguardo insondabile, più nero di uno squarcio nel vuoto. All’improvviso ci fu un fuggi fuggi generale e sentii l’acqua lambirmi le cosce. Gli echi delle urla lasciarono lo spazio allo scroscio dell’acqua. Cosa stava succedendo?
    L’ombra mi aveva quasi raggiunto: sembrava godere nel prosciugarmi lentamente. L’oscurità era diventata opprimente, quasi impenetrabile. L’acqua mi era arrivata ormai al livello del torace.
    Un barlume di coscienza era tutto quello che mi era rimasto, ma ebbi un’illuminazione: la profondità raggiunta dalle catacombe era considerevole, era più che possibile che scendesse fin quasi al livello del lago. I corridoi che conducevano a questo tempio segreto erano infatti costellati di pozzanghere e questo, unito all’allargamento in corso della grotta, poteva significare una cosa sola: il lago era soggetto a maree e quando arrivava l’alta marea tutto veniva sommerso. Ecco perché i fedeli erano scappati: dovevano evacuare le catacombe per evitare di annegare. Probabilmente la mia interferenza aveva rubato tempo prezioso e i fedeli nella concitazione del momento avevano dimenticato gli orari delle maree.
    Ora sapevo che dovevo resistere a tutti i costi: nello Spectral l’acqua era sottile come aria e non mi avrebbe permesso di fuggire da quel posto. Capii cosa dovevo fare: con le ultime energie rimaste, mi tramutai in un ricciolo di fumo e mi lasciai portar via dalla corrente. Sentii il muggito di rabbia della creatura, mentre ripresi forma solida e non persi tempo a nuotare il più in fretta possibile verso l’imboccatura da dove fluiva tutta l’acqua. La corrente era forte e non avevo più molte energie a disposizione; sentivo l’ombra alle calcagna, presto mi avrebbe preso...
    Con uno sforzo erculeo riuscii a superare l’imboccatura, intravedendo un cunicolo stretto e contorto, scavato nella roccia dal fluire dell’acqua: la mia via di fuga! All’improvviso delle mani gelide mi artigliarono le gambe, trattenendomi. Avevo disperatamente bisogno di anime, ma ricordavo che nello Spectral vicino a quell’area erano tutte scappate. Compresi con angoscia che se volevo evitare di rimanere prigioniera nello Spectral alla mercé di quell’entità dovevo assolutamente mantenere la mia forma fisica. Menai dei fendenti con la mietitrice verso le mani d’ombra, squarciandole, eppure la loro presa non cedeva minimamente. Andai in preda al panico e nel disperato tentativo di mantenere un corpo, mentre lo sentivo sfaldarsi inesorabilmente, agii d’impulso, senza riflettere: balzai verso l’ombra e cercai di assorbire delle particelle di energia spirituale. Compresi la follia del mio gesto l’istante successivo: mi allontanai di scatto, tossendo e scuotendomi, mentre sentivo echeggiare una cupa risata. L’ombra mi parlò.
    “Stolta creatura, ora sei mia.”
    La sua risata continuò imperterrita mentre i suoi artigli mi rilasciavano e si diresse verso la sfera.
    All’improvviso il suono si distorse e pian piano scomparve, mentre precipitavo verso la nuda roccia sotto di me. Atterrai con un tonfo echeggiante e lì mi appallottolai, sentendomi come avvelenata dalla tenebra assorbita. Restai lì, stordita, a riprendere lentamente le energie.

    Dopo quella che parve un’eternità, mi rialzai cautamente e barcollai in avanti. Mi sentivo sempre uno strano peso al centro del mio essere, contaminata da qualcosa che mi indeboliva, però ora sembravo stare meglio: la spossatezza che mi aveva colto era stata cancellata dalle energie dello Spectral. Seguii il tunnel, arrampicandomi e lasciandomi scivolare nelle tortuose anse della roccia. Dopo diversi minuti vidi finalmente più luce filtrare nell’etere e con un’ultima arrampicata riemersi in superficie, o meglio sul fondale del lago. La distesa si estendeva a perdita d’occhio, una prateria di sabbia, alghe e rocce di ogni tipo. Molto distanti da dove mi trovavo, potevo intravedere le deformi sagome di un paio di sciacalli e di un arconte perlustrare il fondale in cerca di anime perse. Con estremo sollievo vidi a metà strada un portale e mi lanciai in corsa verso di esso. Gli spazzini percepirono il movimento e iniziarono a dirigersi verso di me, ma ero tranquilla di poter raggiungere il portale in tempo. Con un balzo atterrai al centro del punto di contatto tra i piani e mi materializzai.

    Capitolo 5
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    Il mio corpo si sollevò per la spinta dell’acqua. All’improvviso, una miriade di colori nuovi avvolse i miei sensi. Contrariamente all’altro lago, molto scuro e quasi impenetrabile, qui la devastazione che affliggeva Nosgoth miracolosamente non era ancora giunta: l’acqua limpida faceva filtrare quel poco di luce solare che vi era in superficie, rivelando tutta la magnificenza di quel mondo segreto, attraverso una marcata tinta azzurro-verdastra. Il sole, già... Doveva essere passato parecchio tempo da quando ero entrata in città. Mi chiesi che fine avesse fatto l’ombra, ma soprattutto se ora i fanatici mi stessero dando la caccia. Un piccolo banco di pesci mi guizzò vicino e per un momento misi da parte i cupi pensieri. Osservai estasiata tutta quella fauna locale a me sconosciuta. Pesci di ogni forma e dimensione, dai colori iridescenti (erano forse trote quelle?) a quelli più mimetici, color fango; praterie di strana erba e arbusti flessuosi ricoprivano a chiazze il fondale irregolare, costituito da rocce e da avvallamenti sabbiosi. Nuotai senza meta per un po’, godendomi questa esperienza ben poco comune ai mortali. Piccoli crostacei zampettavano furtivi da un nascondiglio all’altro, mentre il pulviscolo nell’acqua accarezzava loro la schiena, fluttuando trasportato dalla corrente. Strani gusci colorati giacevano qua e là sul fondale; feci per sollevarne uno e ritrassi la mano sorpresa, facendolo cadere a terra: la superficie era insolitamente ruvida e tagliente. Ero così distratta da tutte quelle novità che per poco non evocai la mietitrice quando un bolide scuro mi sfrecciò accanto. Stupita, cercai di capire che cosa fosse: di forma allungata, nuotava molto rapidamente, cambiando repentinamente direzione in un modo che mi sorprendeva. L’essere pareva dare la caccia ad un banco di pesci poco distante, che, non appena lo vide, esplose in una miriade di schegge scintillanti per poi raggrupparsi compatto e scappare. Con uno scatto e una torsione del corpo, l’essere sfiorò il banco e vi si allontanò all’improvviso, rallentando. Finalmente potei vederlo chiaramente: un quadrupede peloso, dal corpo flessuoso e longilineo e dal buffo muso che stringeva nelle fauci baffute un pesce, mi passò vicino mentre ritornava in superficie, non senza lanciarmi uno sguardo curioso con i suoi vispi e neri occhietti. Una lontra, ma certo! Mi ritrovai a sorridere intenerita dalla bestiola quando all’improvviso mi colse una spiacevole sensazione, come di uno strattone all’anima. Mi tornò di nuovo quella specie di nausea, come se fossi avvelenata nello spirito e ricordai le ultime parole dell’ombra: “ora sei mia”, che cosa voleva dire? Quale maledizione mi aveva lanciato per contaminarmi così?
    Mi irrigidii all’istante: un oggetto acuminato era premuto sulla mia schiena.
    “Guarda, guarda cosa abbiamo qui! Un parassita dell’Alleanza venuto a contaminare le acque di casa nostra” gorgogliò una voce spavalda dietro di me. “Legatela!”
    Una nuova ondata di nausea mi travolse, facendomi rabbrividire e indebolendomi.
    “Non provare a fregarci, sparendo come siete soliti fare voi demoni blu: non usciresti comunque dal lago perché saremmo sempre qui a darti la caccia e chiameremmo i Sarafan che, a costo di dragare le acque, ti catturerebbero con qualche arma glifica” ribatté un’altra voce, sottolineando la veridicità delle sue parole con una maggior pressione della lancia al mio fianco, mentre una corda veniva attorcigliata inesorabilmente attorno a me.
    “A proposito di Sarafan, va’ ad avvertire il capo: digli cosa abbiamo trovato e fagli chiamare quell’umano, Taron. Questa cattura ci frutterà un gran bel favore da parte dei Sarafan: adoro vedere quegli umani in debito con noi, ahaha!”
    Con uno strattone mi fecero voltare e mi ritrovai tre paia di occhi rosso rubino che mi fissavano maligni, mentre denti aguzzi si schiudevano in un sorriso predatorio che mal si abbinava a quelle facce da pesce.
    Decisi di stare al loro gioco e mi feci trasportare verso la riva est del lago. I miei occhi dardeggiavano verso la costa, studiandone i profili e le discese ripide, alla ricerca di più dolci pendii di sabbia o superfici rocciose abbordabili. Una volta trovato il punto ideale contavo di dissolvermi nello Spectral e non tornare più nel Material se non dopo aver messo diverse centinaia di metri tra me e il lago. Per far ciò avrei dovuto abbandonare il sostegno dell’acqua e fuggire partendo dal fondale. Sapevo infatti che i miei carcerieri avrebbero mantenuto la loro promessa e sicuramente avrebbero allertato la vicina guarnigione di Sarafan di istanza a Steinenchroe. Così attesi.
    Il momento propizio sembrò palesarsi sotto forma di un declivio di origine probabilmente morenica, frastagliato ma di pendenza non impegnativa. I Rahabim dinnanzi a me erano occupati a parlottare tra loro, mentre nulla sapevo di quelli dietro di me, ma non osavo guardare per evitare di insospettirli. Decisi di cogliere l’attimo: abbandonai il corpo fisico, ma non prima di sentire un grido gutturale alle mie spalle e il penetrante bruciore della lama della lancia nelle mie carni. Ricaddi duramente a terra e mi rialzai stordita: c’era decisamente qualcosa che non andava in me, persino il recupero di energie nel Regno Spettrale era in qualche modo ostacolato. Mi guardai attorno e, individuata la mia via di fuga, mi preparai mentalmente ad una scalata più faticosa del previsto.

    Capitolo 6
    (Soundtrack sound_glyph_)

    L’eco dei miei passi rimbombava tra le pareti della gola rocciosa che stavo attraversando. Le mie condizioni erano peggiorate e il senso di spossatezza stava minando il mio spirito oltre che la mia sanità mentale. La mia anima immortale non era più abituata alle fatiche prolungate e persino il nutrimento che mi procacciavo nello Spectral non sembrava lenire quel disagio. Era chiaro ormai che la fonte del male che mi affliggeva giaceva nel mondo delle ombre e conoscevo solo una creatura che pareva padroneggiarne i poteri: Shax il Melchiahim. E così avevo viaggiato fino alla necropoli sede del suo clan, nella speranza di potergli parlare. Ora che vi ero arrivata mi resi conto di quanto ingenua fosse stata la mia idea, in quanto ero sicura che i vampiri non mi avrebbero certo accolto a braccia aperte. Mi diressi verso il portale più vicino e mi materializzai.
    Il fetore di stantio ammorbava già l’aria mentre le mura del cimitero erano ancora lontane all’orizzonte. Marciai imperterrita verso i grandi cancelli arrugginiti e deformati e varcai la soglia sgusciando tra i battenti socchiusi. Il tanfo era ancora più acre e percepii all’istante un cambio di luminosità, come se una grande nuvola avesse inghiottito completamente quel poco di sole che timidamente faceva capolino ogni tanto a Nosgoth. Guardai in alto e vidi una specie di coltre di fumo che si estendeva sopra tutta l’area del cimitero. Avanzai incuriosita, ricordandomi improvvisamente che Shax aveva dotato tutti i suoi compari dell’immunità ai raggi solari. Troppo tardi mi ricordai per cos’altro erano famosi i Melchiahim di Shax.
    Una gragnola di palle infuocate sibilò sopra la mia testa, sfrigolando nell’aria ed esplodendo fragorosamente a terra. Polvere e frammenti di cocci e granito volarono ovunque mentre mi tuffai in cerca di riparo. Dal mio nascondiglio, un sepolcro sormontato da una statua di cui erano rimasti solo i piedi e poco altro, non riuscivo a vedere i miei aggressori, ma potevo sentirne il ringhio e vociare confuso. Altre palle di fuoco piovvero a pochi metri da dov’ero nascosta: mi trovavo in un empasse inutile. Balzai fuori e corsi in avanti a zig zag nel tentativo di spiazzare i vampiri, ma loro si limitarono a sparare sempre più palle di fuoco, confidando nella legge dei grandi numeri: prima o poi una sarebbe andata a segno. Scartai repentinamente a destra e rotolai a terra, mentre un’esplosione di fiamme a un metro da dove mi trovavo io lambì i miei vestiti, bruciacchiandoli.
    “Fermatevi! Sono una Mietitrice dell’Alleanza e sono qui per parlare con Shax!” Urlai, sperando che la mia voce potesse superare il fragore delle esplosioni.
    Il suo nome fu inaspettatamente una parola magica. Sentii un comando secco venir pronunciato da una voce affilata come un coltello e all’improvviso la pioggia di fuoco cessò. Non potevo credere alle mie orecchie, così, ancora interdetta, impiegai un po’ prima di sbirciare dai piedi sbreccati della statua.
    “Chi è così impudente da venire nella casa del mio clan e proferire il mio nome? Fatti avanti, creatura...”
    Dal mio nascondiglio potevo vedere un gruppo di vampiri schierati in parte sui cornicioni in rovina di un grosso mausoleo e in parte davanti al suo ingresso, impavidi e feroci. D’un tratto mi parve ancora meno saggia la mia mossa di cacciarmi nella tana del lupo, sperando che non mi sbranasse...
    Mi alzai e uscii allo scoperto. Fui accolta da sibili furiosi e sui palmi di molti vampiri comparvero globi di fuoco.
    “E’ una strega dell’Alleanza!”, “Bruciamola! Bruciamola!”, “Serpe velenosa!”, “Mio signore, non lasciare che la menzogna delle sue parole si insinui nelle tue orecchie!”
    Vidi scattare un braccio e udii un ringhio secco. Una figura ammantata si fece avanti, camminando spavaldo e arrogante in mezzo alle fila dei suoi lacché.
    Il suo sguardo non tradiva la minima incertezza circa la mia presenza: era chiaro che mi riteneva una preda o poco più, così sciocca da finire dritta nella sua tana. La sua espressione era al contempo stupita e divertita, un sorrisetto di scherno appena accennato turbava il suo grugno ferale.
    “Sono Naeryan, una Mietitrice dell’Alleanza e sono venuta per colloquiare con te Shax.” ribadii, con un tono più fermo, malgrado la debolezza che mi attanagliava. Non era saggio mostrarsi debilitati: se avevo una qualche chance di cavarmela, avrei dovuto affrontare a muso duro il loro capoclan, o altrimenti sarei stata come una bestia al macello.
    “Ma davvero? E cosa può volere una come te da uno come me? Di solito la vostra genia preferisce brandire quella incorporea lama alle parole...”
    Si avvicinava con passo lento, quasi indolente, perfettamente padrone della situazione. Man mano che si avvicinava potevo notare sempre più dettagli sul suo aspetto: la pelle macerata era tesa sopra le ossa spigolose del suo volto, mentre le sue guance erano lacerate e lasciavano intravedere una cerchia di zanne aguzze senza pari. Le fessure che aveva al posto delle narici gli conferivano un tratto ancora più affilato e demoniaco. Gli occhi rossi come brace ardente non si staccavano nemmeno per un attimo dalla mia figura, imponendomi la sua volontà e forza. Non dovevo farmi mettere le spalle al muro.
    “Beh, un cambiamento così inaspettato alla solita routine di sicuro non può mancare di solleticare il tuo interesse, Shax, specialmente quando la cosa potrebbe beneficiarti.”
    “Le tue parole sono quantomeno inverosimili... Cosa potrei mai guadagnare da quelli come te?”
    “Vendetta.”
    “Vendetta??”
    Il Melchiahim si arrestò, squadrandomi con un misto di incredulità e sdegno. “Ma di che cosa stai blaterando, spettro?”
    Mantenendo l’atteggiamento bluffante, simulai delusione e superiorità. “Oh mi deludi Shax... pensavo che il capoclan di un così nutrito gruppo di vampiri avesse a cuore la salvaguardia del clan stesso... soprattutto contro chi metodicamente ne eradica i membri.”
    “Certo, proprio come voi dell’Alleanza, vero? Allora posso dire ai miei di incenerirti fino al midollo?” rispose sarcastico il vampiro.
    Sbuffai, divertita “Oh ma ci sopravvaluti! Le nostre non sono che scaramucce: vi bacchettiamo un po’ quando oltrepassate i limiti, tipo uccidere troppi umani o allargare troppo il vostro territorio; di certo non ci puoi accusare di genocidio, cosa che invece accade un po’ più a sud e di certo non per mano nostra...”
    Nascosi la soddisfazione di aver fatto centro, quando vidi l’espressione di Shax irrigidirsi e il sospetto velare i suoi occhi.
    Il vampiro riprese a passeggiare senza meta per il vialetto, accarezzando con fare distratto le cime delle lapidi, scacciandone via alcune foglie secche.
    “E così la voce è giunta anche al vostro “potente ordine”... immagino stentiate a nasconderne la soddisfazione.”
    “Ben più di una voce, ti posso assicurare. Ho constatato di persona. E per quanto la cosa possa sconvolgere le granitiche certezze del tuo clan, no, non ci fa piacere. La vostra razza nei dintorni di Meridian si comporta bene, quasi in simbiosi con le comunità umane: si limitano a divorarne i cadaveri e a vagare solo nei cimiteri. Uno sterminio come quello messo in atto dalla setta locale è, in questo caso, non necessario. In più, nonostante l’apparente nobile motivazione che la setta ha adottato per giustificare l’eradicazione dei melchiahim in quell’area, non è che un pretesto per nascondere ben più gravi implicazioni da parte della setta stessa.”
    Shax continuò a passeggiare pensieroso, seppur la sua espressione mutò diverse volte durante la mia arringa. Infine, prevalse una specie di cupa rassegnazione e si voltò verso di me.
    “A quanto pare ti ho giudicata male, Mietitrice... ammetto che le tue parole hanno solleticato il mio interesse. Perché non ne discutiamo in un modo più consono?”
    Il vampiro allargò le braccia facendomi strada verso il mausoleo, ricomponendo quell’espressione suadente e al tempo stesso arrogante. Mi incamminai al suo fianco mentre, mani intrecciate dietro la schiena ed un’espressione seria, fece un cenno alla sua scorta. I melchiahim mi scrutarono con sospetto e palese antipatia, ma non osarono discutere l’ordine del loro capo e si scansarono in due ali davanti al cancello della decrepita struttura.

    Capitolo 7
    (Soundtrack sound_glyph_)

    Se l’apparenza poteva lasciare a desiderare giudicando l’esterno, l’interno fu decisamente una sorpresa: il capoclan era abituato ad un certo agio e lusso, compatibilmente con il luogo in cui si trovava, e candelabri d’oro e tappeti, seppur logori e rosicchiati dalle tarme, adornavano l’atrio e il corridoio che portava alla sua stanza personale. Lì, inglobato assieme al sepolcro, vi era un trono, chiaramente costruito successivamente, in parte di malta e cemento e in parte di ossa umane. Il macabro scranno era però ingentilito da un cuscino di raso rosso, macchiato e strappato, ma ancora morbido e confortevole, e da diversi gioielli incastonati negli spazi vuoti.
    Era chiaro che l’ambizione di Shax trascendeva il suo status di mangiacarogne: aveva grandi piani per il suo clan, soprattutto ora che aveva acquisito un vantaggio magico.
    Il vampiro si accomodò con fare tronfio sul suo trono e, solo dopo aver ascoltato la mia storia per intero, si prodigò a colmare le mie lacune. Il clan di Shax aveva vissuto spalla a spalla con i cultisti delle ombre per un certo periodo, approfittando delle nuove inclinazioni dei vicini umani per le tenebre e la morte. All’inizio il sodalizio aveva funzionato, ma ben presto gli umani avevano additato con ferocia i vampiri come sacrileghi divoratori delle salme dei loro morti e, ormai pregni delle menzogne tessute dalle ombre, si erano convinti che i loro cari defunti non avrebbero potuto più resuscitare se l’involucro che originariamente li aveva contenuti fosse stato distrutto. Sebbene all’inizio vi fosse quasi persino rispetto per i Melchiahim, tanto da spingere il capo setta a stringere un accordo con Shax e conferirgli amuleti incisi con rune di fuoco dal grande potere pur di dissuaderli dal visitare i loro cimiteri, alla fine ogni pretesa di civile convivenza fu gettata alle ortiche quando, a detta dei cultisti, i vampiri avevano avuto l’ardire di violare i sacri confini e penetrare nel regno delle ombre. Shax stesso fu il condottiero di quell’impresa, entrando per primo con un manipolo di fedelissimi attraverso il portale e carpendo il potere delle tenebre. Ma fragili equilibri furono violati quella notte e la furia delle ombre non tardò a scagliarsi contro il clan. Molti dei suoi furono come dissolti, corrosi da un male che li prosciugava di tutte le loro forze e ne accelerava la decomposizione. Furono costretti a fuggire, maledicendo e uccidendo qualsiasi cultista gli si parasse davanti.
    Il mio sguardo allarmato mi tradì e Shax comprese lo stato in cui versavo. Il suo muso si contrasse in una smorfia di ironia e la sua chiostra di zanne si dischiuse in una specie di macabro sorriso.
    “Non ti resta molto tempo, Mietitrice. Ora sai la fine che ti attende se non troverai un modo per sconfiggere Molonoth. Quel maledetto essere di tenebra è la causa di tutto: è ovvio che sta manovrando quegli stupidi umani come burattini, riempiendo loro la testa con false speranze e deliri di onnipotenza. Eppure non conosco il suo fine ultimo: probabilmente vorrà invadere Nosgoth di ombre, estinguendo la vita, essiccando ogni cosa al suo passaggio... quasi come noi vampiri, ma più su larga scala... ironico, vero? Non ho mai trovato una cura per la maledizione che scagliò al mio clan: quelli che furono toccati dal quel miasma nero non trovarono scampo. Io e pochi altri fummo fortunati... Se esiste una cura, probabilmente solo Molonoth la possiede. In ogni caso, preparati all’idea di un viaggio di sola andata... Non puoi nemmeno immaginare che razza di posto sia il regno delle ombre, solo i più corrotti ed empi possono traversarlo indenni.”
    Shax si alzò dal suo scranno e mi si avvicinò.
    “Bene, la mia parte l’ho fatta. Ti conviene informare i tuoi del nostro accordo, prima che si sorprendano troppo nel vederci prendere qualche...libertà. Ora tocca a te mantenere la tua parte del patto... Ti condurrò fino al luogo dove io stesso entrai nel regno delle ombre: vi sono diverse “fessure” dal quale quelle schifezze fuoriescono, quasi tutte ormai sotto il controllo dei “devoti” cultisti, ma sicuramente meno sorvegliate di quella di Vasserbunde. Dopodiché dovrai cavartela da sola... ”
    Mi mise una mano sulla spalla e avvicinò il suo orrido muso vicino al mio orecchio. “Buona fortuna, piccolo spettro, ti servirà...”

    Capitolo 8
    (Soundtrack sound_glyph_)

    Guardai debolmente il grande gufo volar via, una pergamena legata alla zampa, verso i Pilastri. La mia ultima speranza di poter salvare Nosgoth da questa minaccia oscura....
    Avevo delle teorie, ci avevo pensato a lungo, ma non potevo testarle prima di entrare nel regno delle ombre. Solo, non sapevo se ne sarei uscita... Mi guardai attorno, dolorosamente conscia di ogni cosa attorno a me. Da quando i Pilastri versavano in questo stato, Nosgoth si era ammalata, eppure, nonostante i segni evidenti del cancro che la divorava, si ostinava a sopravvivere. Ero ammaliata dalla sua forza, ispirata dalla sua tenacia. Sebbene le mie condizioni versassero in uno stato analogo, non potevo che ricordarmi di avere un dovere da compiere. Patti col diavolo, alleanze coi nemici, ormai tutto non aveva più importanza. Non c’era più una netta distinzione tra bene o male, non quando il confine stesso tra vita e morte era così labile. Non quando era a rischio tutto ciò per cui innumerevoli si erano sacrificati, credendo fermamente e fieramente in un futuro migliore, senza accontentarsi di briciole e di vani compromessi. Non quando era in pericolo la stessa identità di un popolo.
    Nonostante tutti i nostri sforzi, nonostante gli innumerevoli sacrifici dell’Alleanza per ripristinare Nosgoth e donare a tutti un mondo migliore, eravamo nuovamente ad un passo dall’estinzione.
    Ma la natura ha modi misteriosi di sopravvivere, laddove la vita di un singolo è solo una goccia nell’oceano, laddove la forza sta nelle moltitudini, le speranze di una nuova generazione sono affidate a semi al vento. Ma quali erano i semi di un non morto come me? Ideali, principi, speranze, sogni. L’Alleanza era questo, un’arca preziosa con l’unico scopo di preservare ciò che c’era di buono e farlo sopravvivere alla tempesta. A qualunque costo.
    Il mio fato mi era ignoto, eppure sapevo in cuor mio che sarebbe stato nefasto... Un’ultima occhiata attorno, come a voler imprimere ogni sensazione, ogni dettaglio, dentro di me. Era doloroso dover lasciar andare tutto ciò a cui tenevo, ma andava fatto. Mi voltai verso la fenditura alle mie spalle, un pozzo nero vibrante, incuneato nella roccia, esattamente come aveva detto Shax.
    Era tempo.
    Chiusi gli occhi e con un ultimo respiro avanzai nell’abbraccio gelido dell’oscurità.

    (Soundtrack sound_glyph_)

    Mi ritrovai in un corridoio oscuro, le pareti di roccia sembravano vive, nere come il carbone, trasudanti brina e fredde come soda caustica. Eppure non faceva propriamente freddo. L’aria era stantia e soffocante come se fosse stata rovente. La terra sotto ai miei piedi era aspra e ruvida, dura e secca. Continuai ad avanzare e riemersi in un antro e poi in una grotta più ampia, enormi stalattiti che si perdevano nelle viscere della terra. Qualcosa si agitava nell’aria ma non riuscivo a capire cosa, sembravano veli che danzavano al vento. Sembrava esserci un costante rumore di sottofondo, quasi come un respiro profondo, un sibilare di correnti d’aria, eppure tutto era fermo, statico. Seguii il sentiero nella roccia in convolute danze sotterranee finché non trovai un tunnel che si impennava verso l’alto. Mi inerpicai faticosamente verso la sommità e riemersi. Una desolazione spoglia giaceva d’innanzi ai miei occhi, buia e tetra. Strane formazioni erompevano dal suolo, ruvide, seghettate, contorte, come artigli di roccia o di osso... non era ben chiaro di cosa fossero composte. Il cielo era nero, avvolto da nubi nere. Non vi era luce, eppure in quella penombra riuscivo a cogliere vagamente i contorni delle cose, attraverso la nera foschia. All’orizzonte vi era un’unica cosa che si stagliava in modo imponente sul panorama, una specie di enorme vetta i cui confini si perdevano con quelli del cielo. Più che vederla, ne avvertivo l’imponente presenza. Non avendo altri punti di riferimento, decisi di proseguire in quella direzione.
    Camminai per quelle che sembrarono vite intere, incubi e visioni si alternavano davanti ai miei occhi, come in preda ad un delirio febbrile. Il tempo cessò di esistere, dilatato all’infinito, mentre il panorama sembrava ripetersi sempre uguale, la vetta sempre ugualmente distante. Mi sembrava di non essermi mai mossa da dov’ero, di star camminando in cerchio o verso un miraggio. Mi muovevo spinta unicamente dall’urgenza della mia missione, dallo scopo che mi ero prefissata, un pensiero fisso che guidava ogni fibra del mio essere: fermare l’ombra dall’invadere Nosgoth e distruggere tutto. Ma persino la mia anima mi era nemica. Ogni mio movimento mi sembrava rallentato, come se camminassi nella melassa; ogni arto pesante come piombo, come se il suolo mi attirasse a sé con una forza irresistibile. Echi e frammenti di ricordi balenavano nella mia mente in continuazione, come dolorosi coltelli, rammentandomi di tutto ciò che avevo abbandonato alle mie spalle. Ricordi felici o meno felici erano tutti indistintamente dolorosi, nemici della mia mente. Ogni cosa mi torturava, mentre la mia stessa essenza mi si rivoltava contro. Sentivo una forza tutto intorno a me, come una volontà, sondare di continuo la mia mente. Mi sentivo osservata, spiata, segretamente violata nei miei pensieri. Una malevolenza che trasudava persino dall’aria. Sentivo come un richiamo nell’oscurità, una forza terribile che mi trascinava a sé, di nuovo quella sensazione di essere arpionata al ventre...
    Piano piano si trasformò tutto in un inferno surreale, non sapevo nemmeno io dove mi trovassi, il mondo aveva cessato di seguire le leggi classiche e sprofondai nell’abisso di roccia e tenebre.
    Avevo infine raggiunto la montagna oscura.

    Capitolo 9
    (Soundtrack sound_glyph_)

    L’oscurità era infinita, ma al centro di essa vi era un nucleo pulsante. Sembrava uno specchio d’acqua, la sua superficie increspata da turbolenze invisibili. Tutt’attorno le vibrazioni erano imponenti e assai somiglianti alle interferenze che avevo sentito nello Spectral a Vasserbunde, solo molto più forti. Infine capii: un portale! IL portale! Probabilmente era quello l’altro lato della “sfera” incuneata nelle viscere della cripta del culto. Sentivo le forze che mi ottenebravano la mente allentare la presa. Riguadagnai un poco di lucidità e pian piano ricordai le parole di Shax: gli umani avevano trovato uno dei punti in cui naturalmente i confini tra dimensioni si assottigliano e avevano ideato un congegno magico capace di ampliarne ulteriormente gli effetti, aprendo il portale per il regno delle ombre. Se quell’artefatto fosse stato distrutto forse anche tutti gli altri portali si sarebbero indeboliti e sarebbero scomparsi.
    Mi avvicinai cautamente ma all’improvviso tutto scomparve nuovamente nelle tenebre. Le vibrazioni diventarono intensissime, insopportabili; mi sentivo andare in frantumi. Ormai non sapevo nemmeno più se avevo un corpo materiale oppure se fossi solo spirito. Nulla era comprensibile. Qui vigevano altre regole.
    Le tenebre si fecero solide e la sensazione alle mie viscere si fece più forte, troppo forte.
    Urlai, in preda ai dolori più atroci, sentendomi demolire e strappare, infrangere e lacerare.
    Una voce cavernosa, così profonda da scuotere le fondamenta della terra mi avvolse la mente.
    “Sei forte per essere resistita così a lungo. Ma ora il tuo viaggio finisce qua. ”
    “N-no....” dissi a denti stretti, tra un’ondata e l’altra di dolore.
    “Stolta creatura, non capisci che non hai più alcun potere? A breve scompariranno anche le ultime energie rimaste e di te non esisterà più nulla, nemmeno l’anima. Perché opponi ancora resistenza? Come puoi sperare di salvare il tuo mondo, piccola creatura? Hai visto la nostra forza... tu sei sola, noi siamo una legione.”
    Il mio tempo era agli sgoccioli, lo sentivo. Mi stavo dissolvendo. Era veramente la fine..? Dopo tutto quello che avevo fatto... avevo fallito? Nosgoth sarebbe stata inghiottita dalle tenebre e sarebbe diventata una copia di quell’incubo di dimensione... Potevo vedere i miei ricordi, ogni singolo ricordo, passarmi davanti agli occhi prima di essere inghiottito nell’oscurità. Ero sommersa dal dolore, ogni ricordo era un’agonia, perfettamente consapevole di tutto quello che avevo perso. Era quasi insopportabile. Forse l’oblio sarebbe stata una sorte migliore...
    “Sì, l’oblio lo è senz’altro. Lasciati andare, sprofonda nelle tenebre. Dormi.”
    All’improvviso mi sentii come galleggiare, anestetizzata dal dolore. Il mio cuore si era frantumato e ogni pezzo si dissolveva nel nulla, eppure mi sentivo come indifferente. Sì, dormire... forse veramente la morte era come un lungo sonno senza sogni. Nel mio caso però non ci sarebbe stato alcun risveglio. Ma alla fine cosa mi importava? Almeno non avrei sofferto... Cos’è la sofferenza se non si ha coscienza di sé? Se non esiste una consapevolezza...
    Sentivo l’ombra mormorare in sottofondo, ma ormai era come lontana, non mi interessava più. L’indifferenza era come un cuscino salvifico. Niente emozioni, niente dolore, niente ricordi, niente di niente, solo un punto nell’infinito, un punto statico, attorno a cui l’universo fluiva. Sentivo come uno sciabordare soffocato, un fluire di vento sommesso. La voce della mia mente taceva, non pensavo più a nulla. Mi stavo addormentando? Mi stavo.... addormentando...?
    Mi...
    Stavo...
    Addormentando...
    ....
    Mi....
    Io....
    ......






    L’ombra crebbe in potenza e dimensioni, riempiendo ogni angolo di quel posto. Aveva vinto.
    Si voltò verso il portale e chiamò a raccolta i suoi fedeli. Avrebbe invaso Nosgoth e risucchiato la vita a tutti quegli stolti essere brulicanti.

    ---------------------------------

    Il silenzio. La pace.
    Piccoli suoni turbavano la quiete, ma al tempo stesso ne facevano parte. Un luogo dove il tempo non esisteva, ciclico e imperturbabile. Un moto perpetuo e al tempo stesso così pieno di vitalità.
    Come una marea di luce, un eco multi-direzionale, lento e inesorabile come il respiro dell’universo.
    L’eutimia.
    Eppure qualcosa continuava a disturbare quella pace, come il rosicchiare sommesso di un topo.
    Fastidioso....
    Un guizzo. Un lampo. Il flusso accelerò. Gli echi mutarono, la luce fluttuò.
    Cosa...?
    .....
    All’improvviso mi sentii precipitare e al tempo stesso riemergere, come un nuotatore infrange la superficie del mare e inspira famelico l’aria... la prima boccata di vita....
    Ricordi scorrevano a velocità supersonica in un caleidoscopio vorticoso di emozioni contrastanti.
    Fui io nuovamente.
    Avevo dimenticato una cosa molto, molto importante. Non potevo dormire.

    Ogni emozione era preziosa, ogni ricordo essenziale. Nulla va sprecato, nemmeno il dolore. Ogni attimo di vita è un mattone, una pietra posta sulla scala della vita. Ogni esperienza è degna di essere vissuta. La vita è un ciclo, ogni cosa nasce, vive e muore; come l’alternarsi delle stagioni, così bisogna accettare che le cose accadano e poi scompaiano. Nulla è veramente perduto, semplicemente cambia forma, nell’eterno ciclo di trasformazione. L’eternità non è un concetto statico, ma dinamico, un ritmo immutabile.
    Il mio tempo era passato, ma avevo ancora una scelta: l’immortalità altro non è che diventare se stessi una pietra, l’ennesimo gradino di questa infinita scala, dove tutti sono uno e uno è tutti.
    Nel cerchio della vita non c’è mai una fine.

    Pura volontà plasmata in energia prese spunto dalle regole di questo mondo, così diverse da quello di origine, e si proiettò oltre, nella fibra stessa delle dimensioni, intessendosi ad essa.

    Epilogo
    (Soundtrack sound_glyph_)

    “Il desiderio di proteggere ciò che si ama, il desiderio di continuare a portare avanti la torcia ricevuta in eredità.
    Tutti noi abbiamo un’eredità, una che trascende la nostra stessa vita, che ci unisce col passato, presente e futuro. Un’eredità che ci proietta nell’infinito e ci dona l’immortalità.
    Tutti noi abbiamo un’eredità. E con essa anche un dovere, la responsabilità di tutte quelle vite che ci hanno preceduto e che hanno sacrificato con dolore e fatica la loro esistenza per costruire qualcosa che si espandesse oltre l’orizzonte delle loro limitato tempo.
    Cosa vogliamo fare del tempo che ci è stato concesso? Del prezioso dono della vita?
    Gli ideali sopravvivono, la materia si trasforma.
    Ogni creatura vivente nasce con uno scopo: perpetrare la vita. L’istinto per gli animali altro non è che la memoria genetica di centinaia di migliaia di creature prima di loro. Gli esseri più evoluti hanno la possibilità di tramandare molto di più tramite i racconti a voce e la scrittura, in un lasso di tempo estremamente ridotto.
    Le idee si propagano come semi di soffione, dilagano come un incendio in una foresta. Attecchiscono anche dopo anni, inesorabili come il germe di una ghianda. La vita trova sempre nuove vie.
    Ed è con queste parole che io vi faccio dono della mia eredità, confidando che continuerete a difendere i valori che incarna l’Alleanza e a proteggere Nosgoth. Vi ho dato tutte le informazioni necessarie per compiere il vostro dovere, ora è tutto nelle vostre mani.
    Non desistete, perdurate. Lasciate che ogni avversità diventi un gradino sul quale innalzarvi. Continuate a costruire la scala, affinché tutti coloro che mi hanno preceduta e tutti coloro che verranno dopo di me possano finalmente toccare le stelle....”

    Il grido di un falco echeggiò nell’aria.
    La figura ammantata poggiò la pergamena sul tavolo e si affacciò alla finestra.
    Era una tiepida giornata quella, fresche folate di vento profumate di erba soffiavano sommesse, arrivando persino a lambire i fogli, ormai stropicciati dopo frequenti letture.
    La coltre di nubi grige che avvolgeva il cielo di Nosgoth si era allentata e pallidi raggi di speranza discendevano sulla terra, come angelici messaggeri.
    Sì, sarebbe tornato il cattivo tempo prima o poi, ma anche solo per quell’attimo di sole, ne valeva davvero la pena.
     
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