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.SPOILER (clicca per visualizzare)Dopo mesi chiedo scusa e finalmente sono pronto a postare la prima parte della missione del fato.
Sette volte Sette
Il giorno sembrava non passare più, oramai erano ore che su quella lastra di marmo non prendevo più pace. Avevo ucciso un mio pronipote e avevo scoperto la verità sulla mia stirpe.
Nella mia vita da umano avevo così amato i raggi solari mattutini, ed ora erano l’incubo di noi creature delle tenebre, mi sembrava impossibile rimanere ad aspettare il tramonto, segnale per gli umani di tornare dai campi, di interrompere il lavoro: il giorno è finito, bisogna tornare a casa.
Ore passate nel nervosismo e nella confusione.
Dovevo scoprire di più, dovevo sapere qualcosa... Possibile che il mio incontro con le mie origini fosse avvenuto già ad Uschteneim?
Se fosse stato così non me ne sarei stupito, il dolore è ancora molto forte...e se in passato mi avesse procurato un’amnesia non ci sarebbe stato nulla di anomalo.
Spero solo che la cosa non si ripeta. Ero riuscito a prendere un po’ di sonno dopo ore.
Le immagini che vidi nei miei incubi erano sfocate, il fuoco della fortezza di Meridian, la mia figura che veniva torturata da strani demoni, un mantello che si alzava dopo una forte raffica di vento, una vampata e poi un urlo di dolore.
Mi svegliai di soprassalto con la testa che mi girava.
Qualche minuto dopo una figura si palesò sulla soglia ed entrò nel mio alloggio, mi inchinai al Signore del Conflitto.
Un altro Seven a quanto pare era comparso ad Uschteneim.
Ero perplesso a riguardo, come faceva a saperlo? Era ovvio che avesse informatori ovunque, ma era strano, poi a pochi giorni di distanza da quella strage... e poi in quel momento così duro per me.
Se era vero, doveva essere un mio discendente, dovevo recarmi nella mia città.
Dopo essere tornato anni fa alla Cattedrale, non avevo messo più piede nel posto che mi aveva visto crescere.
Era la settima missione che svolgevo per il Senzacuore, il mio cognome, i sette Sarafan, tutto coincideva, la numerologia giocava con la ruota e con il mio destino.
Scesi le scale che portavano all’atrio principale dopo aver preso il mio mantello porpora, mentre la fodera della Claymore urtava contro la mia schiena ad ogni passo.
Avevo abbandonato l’Artiglio di Enoch dopo lo scontro con Lord Seven, ero troppo stordito e confuso in quel momento e lo lasciai conficcato nel corpo di quel maledetto Cenobita che portava dentro di se il mio stesso sangue.
Kainh grazie a quell’amuleto che ero riuscito a prendere in quel sotterraneo forgiò un’arma così maestosa e potente che avrebbe rimpiazzato la mia vecchia lama in maniera efficace.
Indossai il cappuccio e mi recai all’uscita della Cattedrale, il vento soffiava forte mentre il cielo diventava scuro come la pece... a quell’oscurità si unì un boato in lontananza, cominciava a piovere, potevo resistere per un bel po’ grazie all’armatura e al mantello ma avrei dovuto cercare un riparo, altrimenti quelle piccole gocce avrebbero avuto su di me lo stesso effetto di una lapidazione.
Uno stormo di pipistrelli neri attraversò le montagne di Nosgoth raggiungendo il cancello di entrata al villaggio della superstizione e dell’inganno.
I tetti innevati mi sorridevano maliziosi, mentre la foschia si faceva largo tra i picchi delle montagne con fare arrogante.
Uschteneim. Finalmente.
Un enorme stato di abbandono si presentava davanti a me all’entrata del villaggio.
Le mura di ingresso avevano delle crepe vistose, alcune passerelle erano crollate, la torretta di sorveglianza distrutta, sembrava fosse stata fatta a brandelli dalle intemperie.
Eppure era presente una piccola guarnigione Sarafan, lo stendardo per quanto rovinato era ancora affisso, ma non vi era nessuno in quel momento. Non ero qui per loro, ma se mi avessero ostacolato non mi sarei fatto problemi ad affrontarli.
Il cancello di ingresso era spalancato, non temevano nulla...ma a pensarci... l’unica cosa che dovesse temere Uschteneim in quest’epoca era la propria popolazione.
L’ignoranza e i pregiudizi viaggiavano di pari passo con la superstizione.
Da secoli.
I miei passi si fecero largo tra le persone che nonostante fosse già sera affollavano le vie del paese.
Gli abitanti mi guardavano quasi con disprezzo chiedendosi chi io fossi e parlottando tra di loro, mentre il lanternaro avvolto in un poncho e con il viso coperto da un cappello a tesa larga si ritirava dopo aver acceso con la sua fiammella le luci del villaggio.
Alla fine Uschteneim era stata davvero una bella città, in quel periodo lontano della mia vita.
Un polo commerciale. Finché non fu distrutta per la terza volta dai mercenari Sarafan.
Le cose a quel punto cambiarono.. -
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Una missiva misteriosa venne recapitata nelle stanze personali di Samah'el Khan, nel pieno della notte, da un ghoul.
“Notizie- per – te – vampiro” balbettò l'abbietto e informe essere prima di tornare claudicante sui suoi passi.
Poi, non appena fu sulla soglia, il nonmorto si arrestò di colpo, voltandosi con un'espressione di rabbia verso se stesso.
“Dimenticavo- Sei desiderato. Nelle sale del Senzacuore.”
Dopo che finalmente quella contorta figura morta lo lasciò in pace nelle sue stanze, Samah'el Khan mise gli occhi sulla lettera che gli era stata consegnata, cosa che non aveva ancora fatto, poi capì.
La missiva, recava il sigillo del clan dumahim ed ai lati era sporca di sangue, e dopo averla letta si recò così nella sala del trono.
“Benvenuto, Samah'el”
“Non...ti...sfugge...nulla...Guardiano” tagliò corto il mezzodemone, saltando i convenevoli
Kainh lo guardò dal freddo del suo azzurro sguardo di ghiaccio.
“Difficile che accada. Non sarebbe una cosa rassicurante se qualche notizia sfuggisse alle spie della Cattedrale non pensi?”
“No....Sai che...devo...andare...da lei?”
“Non credo di potertelo impedire Samah'el”
La missiva era firmata da Veive, e recava un invito nel suo presunto regno ; da un lato il vampiro era incuriosito e dall'altro attratto terribilmente da quel richiamo.
“Vai dumahim. Non posso di certo impedirti di ritornare, ma sii cauto e stai in guardia. Le vampire vecchie di secoli non sono sempre quelle che pensiamo, nemmeno se crediamo di conoscerle molto bene”
Samah'el Khan
Adepto
Sei stato convocato da Veive per mezzo di una lettera a te indirizzata.
Cosa voglia veramente, non posso saperlo ma di certo tu saprai già muoverti in quel luogo e lo scopo di questa missiva.
Per quanto una madre possa essere amorevole con i suoi figli, stai in guardia dalle sue parole.
Sono convinto che ritornerai comunque alla Cattedrale con nuove conoscenze.
LDR ??. -
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Capitolo 4 - Le Sue Orme
BriefingUna missiva misteriosa venne recapitata nelle stanze personali di Samah'el Khan, nel pieno della notte, da un ghoul.
“Notizie- per – te – vampiro” balbettò l'abbietto e informe essere prima di tornare claudicante sui suoi passi.
Poi, non appena fu sulla soglia, il nonmorto si arrestò di colpo, voltandosi con un'espressione di rabbia verso se stesso.
“Dimenticavo- Sei desiderato. Nelle sale del Senzacuore.”
Dopo che finalmente quella contorta figura morta lo lasciò in pace nelle sue stanze, Samah'el Khan mise gli occhi sulla lettera che gli era stata consegnata, cosa che non aveva ancora fatto, poi capì.
La missiva, recava il sigillo del clan dumahim ed ai lati era sporca di sangue, e dopo averla letta si recò così nella sala del trono.
“Benvenuto, Samah'el”
“Non...ti...sfugge...nulla...Guardiano” tagliò corto il mezzodemone, saltando i convenevoli
Kainh lo guardò dal freddo del suo azzurro sguardo di ghiaccio.
“Difficile che accada. Non sarebbe una cosa rassicurante se qualche notizia sfuggisse alle spie della Cattedrale non pensi?”
“No....Sai che...devo...andare...da lei?”
“Non credo di potertelo impedire Samah'el”
La missiva era firmata da Veive, e recava un invito nel suo presunto regno ; da un lato il vampiro era incuriosito e dall'altro attratto terribilmente da quel richiamo.
“Vai dumahim. Non posso di certo impedirti di ritornare, ma sii cauto e stai in guardia. Le vampire vecchie di secoli non sono sempre quelle che pensiamo, nemmeno se crediamo di conoscerle molto bene”
Samah'el Khan
Adepto
Sei stato convocato da Veive per mezzo di una lettera a te indirizzata.
Cosa voglia veramente, non posso saperlo ma di certo tu saprai già muoverti in quel luogo e lo scopo di questa missiva.
Per quanto una madre possa essere amorevole con i suoi figli, stai in guardia dalle sue parole.
Sono convinto che ritornerai comunque alla Cattedrale con nuove conoscenze.
LDR ??
Samah’el salutò con un inchino da guerriero il Senza cuore, pronto a perseguire gli intenti dell’Alleanza, comunque fosse andato quell’incontro.
Il dumahim era sempre stato schietto ed ermetico nelle conversazioni ma quella sera aveva dato prova di essere un severo interlocutore; quando si trattava di Veive e della sua natura di dumahim, Samah’el era sempre stato molto più che determinato.
Con la lettera della madre stretta in pugno e l’animo scosso da mille domande, il mezzosangue si diresse nel piazzale della Cattedrale per poi abbandonare mente e corpo a mille colibrì dal vermiglio piumaggio che lesti si dispersero nel gelido vento di Nosgoth.
I minuti uccellini dal becco aghiforme ricomposero il nerboruto corpo di Samah’el all’interno della villa distrutta, esattamente nella grande sala d’ingresso da dove aveva potuto accedere l’ultima volta.
La mente tornò agli avvenimenti dell’Arena, la sera della grande cerimonia sacrificale. Un brivido di freddo e ribrezzo risalì come viscido ragno lungo la colonna spinale del dumahim fino a farsi casa nelle cervella; ch’egli fosse stato richiamato come sacrifizio?
Strinse gli occhi e cacciò via quei malauguranti pensieri, non è con una lettera del genere che si invita una capra all’altare del prete ma con bastoni, cappi e violenza.
Nonostante fosse più che sicuro della posizione della porta segreta, rimase inibito nel constatarne la scomparsa; niente porta e la luna di sangue era sparita.
Il bassorilievo non c’era, né lì, né sulle altre mura. Senza quell’ingegnoso sistema intriso di forza magica, non ci sarebbe stato modo di raggiungere i meandri della Cittadella Sotterranea ove Veive risiedeva.
Con un pesante schiocco gutturale della pesante lingua dentata, Samah’el sottolineò la propria frustrazione; ogni volta era un incubo!
La madre di sangue era accorta nel nascondersi ma se davvero lo stava aspettando con tanta impazienza, perché non fargli trovare almeno la porta di casa aperta?
Stava per tirare giù il muro a martellate quando intravide un’ombra intenta a salire gli ultimi gradini delle scale che portavano alle sale superiori. Quando l’ombra si accorse di essere stata scoperta scappò via di corsa con il mezzo sangue alle costole. Salì a due a due i gradini della scalinata, voltò a destra, poi a sinistra. Girato un angolo, Samah’el si ritrovò a battere il muso contro un muro di spessa roccia dove, guarda caso, vi era il bassorilievo con la famelica luna.
Una volta attivata con l’usuale sacrificio di sangue, la porta si dischiuse lentamente e una file di torce s’avvamparono mostrando la via da seguire; una lunga passerella di pietra coperta di un tappeto di velluto rosso si avvolgeva come una chiocciola, scendendo di svariati metri nella terra.
Era strano come quel corridoio sembrasse sempre uguale; torcia, finestra, quadro, torcia, finestra, quadro. Una serie ripetuta, sempre uguale.
Erano ormai passati più di venti minuti quando Samah’el decise di confermare una sua triste ma razionale teoria.
Si fermò in mezzo al corridoio per poi fare dietro front e percorrerlo a ritroso: la rampa proseguiva ma sempre in discesa.
Un ‘illusione, creata per scoraggiare chiunque avesse avuto la fortuna di trovare la luna di sangue ed attivarla. Forse una sola offerta non era stata sufficiente, così decise di tagliarsi nuovamente e versare il proprio sangue sulla fiaccola. Questa si spense lentamente, lasciando Samah’el nel buio più totale.
Poco dopo la torcia tornò a brillare, la fiamma riprese vigore rivelando al Dumahim la vera strada da seguire.
Nel Ventre Della Terra- Soundtrack
Un ampio ingresso definito da due colonne in marmo bianco con capitelli ridava ad una breve scalinata che discendeva fino ad aprirsi in un ampio e decorato corridoio. Documenti di epoca ormai passata ben chiusi in pregiate teche rendevano l’ingresso alla cupola un tuffo nel passato.
Samah’el si perse nell’architettura di quel luogo, non tanto fisicamente ma concettualmente.
Nelle viscere della terra, sotto ad un palazzo diroccato e dimenticato, vi era una vera e propria villa sepolta.
Un vestibolo molto alto con una fontana zampillante al centro accolse il mezzo sangue, due diverse vie davano accesso a due ampie camere con cellette le cui cupole erano sorrette da archi e colonne tutt’intorno: un vero e proprio camekan.
La cosa che più stranì il dumahim fu il colore di quell’acqua; torbida,pallida.
Osò esporre la punta dell’indice al temibile liquido e, sorprendentemente, non si bruciò.
Lo assaggiò e rimase ancor più stupefatto. Latte d’asina.
Senza fare il minimo rumore, una giovane servetta dai capelli dorati si palesò da una piccola porticina. Dietro di se vi erano altre due servette, una dalla carnagione bronzea e capelli mogano e l’altra scura come la notte e dai grandi occhi verdi. Con loro portavano vassoi di rame con un calice colmo di sangue sul primo e olii ed unguenti profumati sul secondo. La terza trasportava una cesta di vimini in equilibrio sulla testa e bianchi panni di lino tra le mani;
“Siate voi eternamente benvenuto, mio signore. Gli omaggi della magione per celebrare la sua venuta.”
Disse la serva dai capelli mogano, porgendo il calice al dumahim.
Il tono sereno e il sorriso cordiale risultarono quasi artefatti tanto erano perfetti.
Samah’el prese il bicchiere senza capire esattamente cosa stesse succedendo, stupefatto da tanta servitù. Annuì e le lasciò fare il loro lavoro solo dopo aver finito di bere quel nettare prelibato, caldo e dal sapore decisamente ricercato.
Non era comune sangue, in qualche modo era stato aromatizzato con erbe e spezie pregiate.
Con gesto delicato e gentile, la schiava riprese il calice posandolo sul vassoio mentre la dama dai biondi capelli posò in terra il cesto di vimini.
Le pallide mani si protesero per sganciare il vello di capro dalle spalle di Samah’el ma questi indietreggiò, frapponendo Void con fare minaccioso. La schiava non sembrò impressionata da quel comportamento, quasi fosse stata avvisata delle cattive maniere del Dumahim.
Gli occhi caprini si soffermarono per qualche istante su quei visi così particolari.
Le donne non aveva alcun tipo di ruga d’espressione, malgrado ciò i loro sguardi tradivano quella inscenata cordialità; occhi gonfi di paura e silente rispetto.
Con voce flemmatica e distesa, la bronzea serva apostrofò l’ospite con cenni di riverenza;
“Chiedo venia, mio signore, abbiamo ricevuto l’ordine da Madame Veive. Ci ha mandato qui per servirvi e prepararvi per l’incontro. Non abbia timore, mio signore. Sappiamo fare il nostro dovere con discrezione e riguardo.”
Con una sorprendente delicatezza, la giovane donna spogliò il dumahim dei suoi abiti vecchi e imbruttiti dal tempo e dalle risse, riponendoli nella cesta di vimini. Sempre con pudicizia e maestria, gli avvolse intorno alla vita uno dei due teli di lino che aveva portato con se, coprendone le nudità;
“Prego. Mi segua, mio signore. Le faremo strada.”
Mentre la bionda schiava dei teli guidava Samah’el attraverso una piccola porta composta di due archi che si intersecavano a cuspide, tema ripetuto per tutta la struttura, le altre due si curarono di sistemare gli abiti dell’ospite e riempire nuovamente il calice di sangue.
Un breve corridoio condusse i due ad un delizioso giardino, il camminatoio era riparato dalla roccia ma le aree destinate alla crescita delle piante erano scoperte, come se la pietra, mossa a compassione dalle minute preghiere di quei giovani germogli, si fosse squarciata il ventre per lasciar entrare aria e luce.
La schiava dischiuse una porta con non poca fatica e una nube di vapori innocui investì Samah’el nell’istante in cui si addentrò nella piccola stanza; un piccolo abitacolo, caldo e saturo di umiità in cui rilassarsi prima di cominciare il lavaggio vero e proprio;
“Prego, mio signore. Si rilassi e si goda questa esperienza risanante. Presto sarà in compagnia di Madame Veive.”
Disse la donna dal biondo crine per poi lasciarlo solo.
In quella specie di calidario, il dumahim si rese conto che tutte quelle cerimonie non erano vizzi o sprechi mondani ma veri e propri passi da compiere in un rito di purificazione per anima e corpo.
Ogni passo, ogni gesto e ogni azione delle stesse schiave era calcolato, ponderato, perfetto.
Anche lo stare lì, seduto in solitudine, immerso nel buio e nei vapori caldi di un liquido che di certo non era acqua, aveva qualcosa di profondamente spirituale.
Dopo qualche minuto, una porticina opposta a quella da cui era entrato si schiuse, lasciandolo libero di proseguire ed ammirare il luogo ove la sua progenitrice lo stava attendendo.
La sala interna era stata costruita su una pianta ottagonale dalle dimensioni smisurate.
Il bianco colonnato era alternato da panche con bellissimi lavabi dotati di ciotole per risciacquare il corpo prima del bagno vero e proprio. Come vertebre di un Ouroboros, le forti colonne sostenevano il peso di una cupola adorna di mosaici turchesi. Forme, colori e decorazioni si perdevano man mano che i vapori arrivavano all’apice di quel leviatano in pietra.
Nella cupola traforata erano state scolpite piccole loggette in cui languivano timidi lumi. Le lacrime di cera che ne sgorgavano non cadevano mai sugli occupanti della vasca, il vapore ne smorzava subito il cammino donando alla cupola un aspetto sovrannaturale.
Nel centro della sala vi era un enorme vasca ricolma di latte d’asina che quasi spariva nel bianco marmoreo della struttura basale. Al centro esatto della vasca vi era una grande lastra di marmo riscaldata che ne riprendeva la geometria.
Tutt’intorno alla vasca vi era una piccola passerella che ridava a quattro logge, spazi occupati da fontane con piccole vaschette dalle forme a valva ove gli ospiti detergevano i propri corpi nella più totale intimità.
Seduta su una delle panche, la figura della genitrice avvolta da un umido panno di lino fu la sola a colpire lo sguardo del Dumahim.
La pelle traslucida, leggermente verdastra, non recava una singola ferita di battaglia ma solo tatuaggi geometrici di color viola scuro. I capelli nero corvino, liberi dal giogo delle larghe trecce che era ad usa portare, scendevano ondulanti e fluenti per tutta la lunghezza della schiena. Mani amorevoli li avevano accompagnati oltre la spalla destra per poter essere spazzolati e curati al meglio.
I profondi occhi neri erano chiusi, celati dietro le pallide palpebre mentre le cadaveriche labbra plumbee erano schiuse in un sottile e placido sorriso.
In quel momento, il mezzo sangue fece fatica a riconoscere la propria genitrice, Veive, una macchina da guerra inarrestabile e sanguinaria, in quella sottile e slanciata figura di donna, colma di grazia e bellezza.
Le servette intente a lavarle i lunghi capelli con saponi delicati non fecero caso all’Adepto ma gli occhi della bella Veive lo fissarono come se ne stessero aspettando l’avvento da tempo.
Non proferì un fiato ma non si astenne dal dargli il benvenuto con un largo e gioioso sorriso.
Gli fece cenno di avvicinarsi e sedersi accanto a lei, cosa che Samah’el non si fece ripetere due volte.
Con un secondo cenno del capo, ordinò alle serventi di ritirarsi lasciandoli soli e liberi di poter gioire della quiete che quel bagno poteva concedere loro.
Le schiave che avevano seguito il colosso di carne erano già lì, si avvicinarono alla padrona e deposero gli unguenti e gli oli scelti per l’ospite prima di lasciarli soli.
Lo sguardo di Samah’el indugiò per qualche istante sulla schiava dalla pelle color opale e gli occhi verde edera, cosa che Veive sottolineò con un sottile risolino.
Samah’el distolse immediatamente lo sguardo, non per imbarazzo ma per evitare di darle motivo di rimprovero. Le dita d’acciaio sciolsero la coda di argenteo crine dell’Adepto, con altrettanta grazia si protesero per ungersi di olii profumati;
“Hai buon gusto per le donne, nonostante la tua austerità.”
“Non amo…la compagnia femminile…” sibilò nella mente della vampira che lesta commentò, incredula e con un‘espressione di malcelato disagio;
“Oh…Non ti facevo uno di quegli uomini che…Sai…preferiscono la compagnia di altri uomin-” un brusco ruggito interruppe la frase della donna.
“Non in quel senso…” sibilò nuovamente la voce di Samah’el, molto meno gelida che pria. “Non amo… averle intorno…Non le ritengo…degne di fiducia alcuna…”
“Inteso, figlio mio. Posso tuttavia garantirti che cambieresti idea sul gentil sesso se intrattenessi una conversazione con quella donna. È colta e raffinata, quando l’ho trovata era una schiava ai servigi di un venditore di cammelli.
Si esibiva per il proprio padrone con grazia impareggiabile e insolita flessibilità. Un talento sprecato nelle mani di chi non lo seppe coltivare. ”
Con movimenti circolari e molto lenti, Veive lavò il capo del figlio dopo essersi posizionata dietro di lui. L’altezza del dumahim non fu di grand’ impedimento, le bastò mettersi in ginocchio per ovviare al problema. Con movenze rituali e gesti solenni, la dama di ferro colmò una capiente ciotola di candido liquido e rilavò il capo munito di creste cefaliche dell’Adepto;
“Come mai hai così in odio noi donne, figlio mio?”
Chiese lei con tono curioso ma rispettoso.
Samah’el ci pensò molto prima di risponderle al meglio delle proprie possibilità diplomatiche…ossia sparò a zero sul motivo di tanto disprezzo;
“False…Bugiarde…Infide…
Cinque ne ho conosciute …
Mia madre di carne…Rachele…Mi diede la vita per sacrificarmi…
Mia madre di sangue…Genitrice…mi abbandonasti come un cane…dopo la mia rinascita…
Mia amata …Isthar…Sposata ad un altro…Morta per mia mano…
Paladina Nyamhel…Alleanza…Chiuso in una fortezza con orridi mutanti…Disarmato…perso un braccio nella lotta.
Lady Sanchez…Sorvegliata per una missione…Usato come un giocattolo ….
Esperienze…considerevoli…
Bastano e avanzano…”
Veive lo guardò con una buona dose di indulgenza negli occhi e un sorriso sghembo; dire che non ne gradiva la compagnia era un eufemismo;
“Comprendo la tua repulsione ma capirai da solo che negarsi una donna, per un uomo, è follia allo stato puro.”
“…Preferisco evitare…sofferenze gratuite.”
“Ed è per tale motivo che hai deciso di tacere per il resto della vita? Forse non sai che, qualsiasi tipo di trauma alle corde vocali tu abbia subito in passato, viene a rigenerarsi una volta abbracciata la via della non morte.”
Samah’el guardò in basso, perfettamente consapevole di quella verità. Rimase in silenzio, non rispose alle domande della genitrice che nel mentre gli lavava spalle e schiena con estrema dolcezza.
Non aveva subito traumi, ne aveva danneggiato le proprie corde vocali i alcun modo nella sua vita da umano. Come avrebbe potuto se mai aveva aperto bocca per trent’anni?
Era liberissimo di parlare con la propria voce ma non aveva alcuna voglia di farlo. Le parole erano inutili, un mezzo valido solo per mentire, accusare, condannare.
Non aveva nulla da dire a quel mondo così capriccioso e alle creature che lo abitavano.
Quando il Magister del Sangue gli insegnò il Sussurro, gli fece un gran favore. Sfruttando il solo suo pensiero, gli aveva impedito di prendere l’abitudine a parlare, a mentire.
Non diceva mai qualcosa che non fosse stata la verità, grazie a quel dono, Samah’el non sarebbe mai caduto nell’inganno della favella.
Riposte le ampolle di vetro soffiato colme d’ olii, Veive si alzò lasciando scivolare sul quel corpo perfetto il telo di lino per poi immergersi nel marmoreo bagno di latte. Samah’el non distolse lo sguardo da quello spettacolo assolutamente gradito neanche per un secondo, attese che gli avesse dato le spalle per raggiungerla.
Sui bordi interni della vasca, scolpita come il dorso di una vipera, vi erano delle sedute sagomate che avvolsero entrambi in un caldo e piacevole abbraccio. La dumahim di antica razza inalò quei vapori tonificanti, i lunghi capelli neri galleggiavano come fili di seta sopra la superficie del candido latte, sul volto aveva dipinta la pace dei sensi.
Samah’el si appoggiò con ambo le braccia sul bordo della vasca, l’espressione seria e apatica di quel figlio mezzo sangue si distese in una versione più gentile ma pur sempre fredda di quella maschera emozionale.
Quando la madre di sangue provò ad avvicinarsi a lui tanto da poter trarre supporto da quelle muscolose braccia, egli ritrasse l’arto con un rapido scatto dei muscoli.
Veive lo guardò leggermente contrariata, pensava di aver passato quella fase di repulsione, almeno con lei. Osservò le cicatrici e le ferite che adornavano il corpo del Dumahim, anche quelle volutamente non rimpiazzate da tessuto sano, conservate come fossero stati macabri trofei. Ognuna di loro era una specie di progresso, ogni colpo che aveva lasciato il segno doveva esser stato terribile e mirato ad ucciderlo;
“Se avessi subito ciò che ti è capitato, giorno dopo giorno, per tutta la mia non vita, avrei di certo in odio il contatto…”
Disse Veive con un tono caritatevole e sinceramente triste, la risposta di Samah’el fu alquanto inaspettata;
“Solo ferite…Il male passa in fretta…Massimo un mese…forse due...Poi sparisce.”
“Da dove ti viene questa tua fobia per il contatto, figlio mio?”
Samah’el tacque, la voce sigillati in quel corpo di pietra sfregiata. Veive preferì non insistere in tal senso. Attese ancora qualche minuto prima di richiamare le schiave ma Samah’el non rispose mai a quella domanda, né allora, né in futuro, a nessun’altro.
“Vieni, figlio mio, è ora che io ti mostri il vero motivo per cui ti ho voluto qui stasera. Raggiungimi nella sala grande quando sarai pronto.”
Disse lei mettendosi, ergendosi dalle calde acque lattigene della vasca con la grazia di una dea e uscendo dalla vasca.
Api operose, quelle servette, asciugarono i corpi degli immortali della notte e li avvolsero in asciutti e delicati teli di lino senza arrecare il minimo disturbo.
Ancora una volta, i due presero strade diverse.
La servetta guidò il dumahim alla grande stanza in cui lo avevano accolto la prima volta, li avrebbe ripreso le proprie vesti ed effetti personali per poi raggiungere la padrona di casa.
Quando fece ritorno nella piccola sala, scortato come sempre dalla schiava che mai lo lasciava procedere da solo, Samah’el si accorse di un fatto che lì per lì lo turbò molto.
Void e Hellgate erano rimasti al loro posto ma non vi era traccia dei suoi abiti, sulla panca che si estrofletteva dal muro erano state poste vesti che non gli appartenevano.
Prima che potesse fare o pensare qualsiasi cosa, la servetta rispose alla domanda che gli stava insistentemente ronzando in testa; che arcidiavolo di scherzo era mai quello?
“Madame Veive vi ha fatto dono di questi abiti, mio signore. I vostri vecchi vestiti sono stati consegnati alla nostra signora. Sarà lieta di renderveli se ne avrete voglia ma Madame Veive insiste che voi indossiate questi abiti per l’incontro che avrete nella Sala Grande.”
Detto ciò, la schiava uscì lasciando al mezzo sangue l’intimità necessaria per potersi rivestire.
La Storia Degli Sconfitti- Soundtrack
Di nome e di fatto; la sala grande era un enorme stanza con un camino largo quanto tutto il muro che lo ospitava. Ciocchi di legna ardevano, divorati da fiamme furiose, quel crepitante focolare regalava più luce di quanta non la dessero gli abbondanti lumi li presenti.
Quadri e arazzi adornavano ogni centimetro di muro disponibile, un ampio tavolo di ebano nero dai piedi leonini era coperto di libri e antiche pergamene. Le sedie erano tutte perfettamente parallele tranne quella adoperata dalla padrona di casa, leggermente spostata e dai braccioli usurati. Accanto alle mille carte e al calamaio ormai privo di linfa dello scrittore, una bottiglia colma di sangue fresco e due bicchieri brillavano alla luce delle fiamme.
Veive si volse, le braccia incrociate e la mano a sorreggere il mento mentre, con occhio attento, squadrava un Samah’el rimesso a nuovo;
“Bene, bene, bene! Non si può dire che il rosso non ti doni. Sembri quasi un uomo di nobili natali.
Molto più elegante e fiero del tuo essere dumahim di quanto non lo fossi quand’eri coperto di stracci.”
In dosso, il giovane dumahim aveva un cappotto redingote rosso sangue dal taglio militare, lungo fin dietro le ginocchia, chiuso sul davanti e segnato sul torace da una lunga fila di asole e bottoni d’oro chiusi come fossero state grosse squame di drago. Una fusciacca di cuoio nero fasciava il torace dal fianco destro alla spalla sinistra, fungendo da punto d’ancoraggio per una spalliera con sembianze di testa lupina. Una pesante e spessa gorgiera in metallo cingeva il collo dell’Adepto per poi lasciarlo libero sulla gola ove due pesanti borchie facevano da aggancio per una spessa catena dorata che ne univa le estremità.
Da sotto il pesante paramento e dalla spalliera fluiva, come coda di tenebra, il folto vello di capro nero che gli copriva schiena e spalle. Il pelo d’ombra era stato lavato e striato a dovere tanto da sembrare nuovo di conciatura. Una larga cintura nera come la pece stringeva in vita il cappotto lasciando libere le gambe sul davanti e dava ausilio e supporto a tre componenti della falda, due sui fianchi e una, dislocata, a protezione dell’inguine.
Sulla larga fibbia che chiudeva la cintura vi era un ampia placca di ferro, a protezione dell’addome, segnata con il simbolo del Clan. Avambracci e stinchi erano cinti da schinieri e bracciali che riprendevano il tema della gorgiera, color grigio forgia e dai bordi dorati.
I pantaloni nero antracite erano adorni di sottili bande rosse sul davanti, una per gamba, tenuti stretti negli stivali di pelle marrone rifiniti e ribattuti di rivetti e borchie metalliche che tintinnavano ad ogni pesante passo portato innanzi;
“Ringraziamento…Dove sono…abiti?”
Chiese Samah’el avvicinandosi alla genitrice nel mentre che rassettava i bracciali. La donna diede una piccola pacca alla cesta di vimini al suo fianco;
“Sono qui, in attesa che tu li dia alle fiamme. “
Samah’el la fissò decisamente confuso, la dama continuò il suo discorso mentre osservava le fiamme che ardevano nel camino;
“Rinascere come figlio della notte non vuol dire solo rialzarsi dal freddo abbraccio della morte.
Vuol dire abbandonare ogni collegamento con la vita umana.
Per troppo tempo sei rimasto legato al tuo essere passato. È tempo di spezzare le catene che ti sei imposto di portare e renderti un figlio del Clan.
La tua natura umana oramai è morta con il tuo ultimo respiro e questo lo devi accettare.
Nel mondo dei vivi, ora tu sei un pericolo, un predatore, un mostro.
Sei molto più di loro, non ha senso continuare a cercare di somigliare a chi per anni ti ha stornato e scacciato come reietto.
Quegli abiti erano di tuo padre. Un uomo piegato alla volontà di un monaco corrotto e un culto blasfemo che per trent’anni ti ha negato la parola, la libertà e una vita felice.
Colpevole come gli altri, aveva ricevuto l’ordine da parte mia di allevarti…ma non di consegnarti al culto dei monaci del silenzio.
Le sue azioni da uomo gretto e ignorante ti hanno marchiato.
Portare i suoi abiti, ricordare il suo nome, vuol dire sputare sulla tua persona, rifiutare il dono che ti ho fatto e la tua vera vocazione.”
Gli occhi corvini si piantarono, severi e cupi, sulla figura di un mezzo sangue in pieno conflitto;
“Se vuoi essere un vampiro, un vero Dumahim…DEVI imparare il distacco e il valore.
I mortali non hanno nulla da darti tranne il nutrimento di cui necessiti.
Vili creature il cui cammino è pervaso di avarizia, accidia, ignoranza e stupidità a ciclo continuo.
Le loro sciocche anime ripercorreranno sempre la stessa stolta strada a meno che un immortale non conceda loro il dono di una visone più ampia delle cose.
Pecore per sfamare noi lupi.
C’è molta più gloria e benevolenza nel risparmiare un animale che un essere umano.
Perché continuare a cercare il loro amore, il loro rispetto, la loro amicizia?
Non meritano la tua indulgenza e non ne riceverai alcuna da loro nel momento in cui incroceranno ne incrocerai la strada.
Distaccati e usali per ciò che meglio riesce loro; soddisfare le tue necessità.
Un vampiro è fisicamente e spiritualmente superiore ed è ciò che devi imparare ad essere.
La compassione non ha valore se non proviene dai membri della tua specie.
Orrore, paura e disperazione sono tutto ciò che devi ottenere dai mortali.
Ora, brucia il tuo passato se vuoi avere un futuro al mio fianco o menati lontano da questo luogo e torna ad essere un insulto al tuo clan.”
Le ombre dei due colloquianti si agitavano sul pavimento ad ogni crepitio della legna ardente, il silenzio regnava nella stanza mentre Samah’el interiorizzava le parole di Veive.
Il Senza Cuore aveva tentato già in passato di dissuaderlo dal rivangare i propri giorni da umano ed ora anche la madre di sangue insisteva sullo stesso tasto. Questione comune trattata da due persone di cui, oramai, il mezzo sangue si fidava.
Due verità sono meglio di una, due verità indiscusse, proferite da due vampiri che da secoli calpestavano l’empia terra di Nosgoth.
Le bifide e forti mani afferrarono la cesta. Rimase per qualche secondo con quel leggero e inorganico carico di ricordi tra le mani per poi scaraventarlo nel fuoco.
Stridii e crepitii accompagnarono la distruzione di quel che era stata una parte di se. Nonostante la scelta consapevole, Samah’el sentì qualcosa in lui spezzarsi per sempre e bruciare insieme a quei ricordi di vita, sparire ad ogni nuova fiamma che attecchiva sul passato di stoffa e cuoio.
I panni bruciarono rapidi, contorcendosi e implorando aiuto finché l’imparziale fuoco del camino ne divorò le immote carni.
Veive rise soddisfatta, pose una mano sulla schiena del dumahim ancora intento ad osservare attonito il riverbero delle fiamme;
“Ben fatto, figlio mio…Ben fatto…”
La bella donna si avvicinò al tavolo e versò il nettare vitale nei calici. Insieme brindarono alla non vita e ai segreti immortali che questa avrebbe presto rivelato.
Lo sguardo imperturbabile di Samah’el si soffermò sui tomi che la sua genitrice avevano già esaminato, su alcune pagine vi erano raffigurate epiche scene di guerra, non tra umani e vampiri ma tra clan.
Il capo lievemente inclinato, le mani bifide attesero il consenso della reggente di quella cittadella sotterranea per poter sfogliare le pagine ricche di storia;
“Non conosco queste verità…Raccontami le gesta del mio popolo…”
Veive fece cenno al dumahim di sedersi, pose le forti mani su le di lui spalle e, con voce chiara e piena di orgoglio, gli narrò una storia così antica da diventare mito;
“Molti secoli fa, quando il mondo dei vampiri era giovane e quello dei grandi Dei già vecchio, il nostro capostipite Kain fondò il suo impero sulle rovine dei pilastri di Nosgoth.
Si raccontavano leggende su di lui e le sue vere origini, molte erano vere, altre erano solo gesta del Magnifico arrangiate e ingigantite a dismisura.
Umano di nascita, vampiro per Fato, signore del mondo per sua volontà.
Fece dei più valenti Saraphan i propri luogotenenti, Raziel, Melchiah, Turel, Dumah, Zephon e Rahab, ad ognuno di loro lasciò in dono un territorio per poter controllare il suo vasto impero.
Insieme, erano una legione, una forza inarrestabile.
Con il passare degli anni, sia il grande Kain che i suoi figli prediletti cominciarono a mutare, sviluppando poteri divini. Nonostante tutti stessero mutando ed evolvendo, mai nessuno aveva osato superare il Maestro in abilità e capacità.
Lui era il Sommo, il Padre, il Primigenio della nostra razza.
Tutti rispettavano e adulavano Kain come il Dio sovrano che era…Tutti, tranne uno.
Raziel, il più talentuoso di tutti i Suoi figli, impareggiabile in bellezza e vanità, il prediletto di Kain, ebbe l'audacia di andare oltre il concesso, sviluppando il dono più oscuro e prezioso.
Ali, egli era in grado di volare.
Quelle ali vanesie lo avrebbero portato a guardare dall’alto in basso i suoi fratelli più di quanto egli stesso non facesse già.
Sarebbe andato oltre, più in alto di Kain…
Spavaldo come tutti i blasfemi, Raziel marciò verso il Santuario dei Clan per mostrare il suo nuovo aspetto al Primo, il quale non tollerò un simile atto di insubordinazione.
Strappò dalla schiena di Raziel gli oggetti della contesa e ordinò che venisse gettato nel Lago dei Morti, il luogo in cui traditori e deboli trovavano la loro fine…”
Lo sguardo di Veive incrociò gli occhi di Samah’el mentre echi pieni di curiosità le permeavano la mente;
“…Chi eseguì…la sentenza…Turel…Dumah…Crudele…da parte loro…Sacrificare…un Fratello…”
Veive Annuì confutando i dubbi del figlio sul perché, alla sua venuta nell’Alleanza, lo avessero accusato di essere un fratricida sanguinario;
“Cosa faresti se il Senza Cuore ti ordinasse di uccidere il fratello più caro che hai perché accusato di tradimento?”
Samah’el non rispose, si limitò ad osservare la pagina litografica che rappresentava i volti dei due campioni nell’atto di scaraventare un Raziel più demone che vampiro nei vortici senza riposo del Lago dei Morti. La figura di Kain era stata rappresentata come un Dio, una nera aureola gli adornava il capo.
“Obbedirei…”
“Come è giusto che sia, figlio mio…
Ora, ascolta bene poichè ciò che sto per narrarti è una verità indiscussa, scolpita nei pilasti del tempo. Tanto vera quanto scomode.
Il dominio di Kain su Nosgoth era innegabile, le fazioni Vampire dell'Impero erano tenute in piedi dal Suo ferreo volere ma dominare su di una terra corrotta non poteva essere nell'interesse di colui che ormai regnava come un faraone immortale sul mondo.
Il sogno di Kain pretendeva una svolta, un distacco dal destino che stolti mortali avevano scritto per lui e per tale motivo intraprese un viaggio nelle trame del tempo.
Quando l’Imperatore scomparve, i suoi Luogotenenti mal interpretarono il gesto, così come la ragione del gettare il loro fratello giù nell’Abisso, però non si fecero domande sulle intenzioni del loro Signore.
Kain aveva parlato e il suo volere era legge.
Io ero lì quando il Consiglio si riunì per stabilire cosa fare dei Razielim, sozzura traditrice.
La loro presenza era un offesa a tutto ciò che Kain aveva costruito.
Fu di Zephon il primo intervento, propose di sradicare il Clan dei Razielim, chiamando Turel come alleato e ribadendo il volere di Kain. Quei due luridi traditori volevano sedersi sul trono del l’Imperatore mentre il nostro grande Capoclan aveva ben altre intenzioni.
La mozione venne messa ai voti e il massacro ebbe inizio.
Fu Dumah stesso a guidare l'assalto, impaziente di dimostrare la sua potenza a quelle lordure che avevano perso il loro capostipite, consapevole del potere che avrebbe assunto nel prendere possesso dei loro territori.
Egli attuò il Grande Genocidio per noi, per assicurare grandezza e prosperità ai propri figli.
Li dove gli altri si scannavano come bestie per sedersi sul trono, Dumah lottò per noi!
Quando fece ritorno al Santuario dei Clan, il Consiglio dei Vampiri si riunì nuovamente per discutere sulla divisione del bottino. I Razielim erano in possesso di molte ricchezze che facevano gola a molti.
Turel si fece avanti per primo nel comandare queste dispute, dicendo di aver diritto nel ricevere la maggior parte di quelle spartizioni, come successore di Kain.
Dumah replicò dicendo che erano tutti eredi di Kain nella stessa maniera, enfatizzando il suo valore e potere sulle legioni che comandava ma Turel e Zephon reiterarono affermando che doveva essere coloro che avevano ideato lo sterminio a beneficiare della maggior parte del bottino.
Melchiah saltò su sostenendo che doveva essere diviso secondo le necessità e tenuto da parte per sopperire al fabbisogno dei vampiri in tempi di magra.
Rahab il Saggio supplicò loro di essere moderati nella spartizione, ma le sue richieste non vennero considerate.
Dumah si scagliò contro Turel per essersi opposto, accusandolo di essere solo una marionetta di un capomastro molto più abile a raggirare i propri fratelli.
Quando si scoprì dell’esistenza di altri Razielim e che lo sterminio tanto voluto dal fratello Zephon e avviato dallo stesso Kain non era andato a buon fine, il nostro capoclan diede asilo a quelle anime distrutte. Durante una riunione segreta con il comandante dei Razielim, Dumah ordinò alla sua guardia privata di lasciarli soli, me compresa, quindi procedette a rivelargli una storia che a nessuno era stata ancora narrata…e che io origliai.
Gli raccontò di come Raziel avesse tradito il suo Signore e i suoi fratelli osando superare il Dio e offendendo gravemente tutti loro, di come questo atto di blasfemia avesse forzato la mano del Consiglio dei Vampiri. Raziel era un traditore, aiutato e supportato dai membri del suo stesso Clan e il Consiglio non poteva di certo rischiare la propria posizione a favore di un retaggio arrivista.
Gli ultimi Razielim, gli disse Dumah, dovevano ritenersi fortunati di essere ancora vivi.
Il nostro grande Capoclan fu il solo a capire quanto la guerra interna fra i Clan li avesse distratti dagli uomini che si stavano preparando a soverchiare l’egemonia vampira, un problema che andava affrontato velocemente e senza pietà.
Fu lui a reintegrare i figli di Raziel nel consiglio e a combattere con loro, fianco a fianco…
E poi, venne il giorno del voltafaccia…
I Razielim si ribellarono e vennero massacrati ma non senza perdite. Gli uomini si erano ripresi e contavano numerose schiere nei loro eserciti. Durante il momento del bisogno, quando la Città delle Ceneri venne messa sotto assedio dalla feccia umana, Dumah e il Clan vennero lasciati soli.
Condannati per aver osato affermare il giusto e aver sostenuto il volere di Kain.
Fu tradito dai suoi stessi fratelli, abbandonato nella Cittadella nel momento del bisogno… e come ultima beffa del fato, fu il Blasfemo stesso a strappargli l’anima.
Fu lui, il sacrilego, Raziel…il Primo Mietitore.”
Le membra rigide e prive di vita del mezzo sangue divennero ferro battuto sotto le mani di Veive, scosso da quelle verità e dalla piega rivoltante che la storia aveva preso.
Con un leggero movimento delle spalle, si scrollò di dosso le mani della genitrice, di molto infastidito dalle sue parole ma rispettoso della sua posizione;
“Sapevo…altro… L'esecuzione di Raziel ...un Dio blasfemo… istigato a sterminare i capostipiti dei Clan …Ingannato…Immolato…per Kain…per Nosgoth…”
“Se questa fosse la verità, credi davvero che nel cuore di Raziel albergasse cotanto spirito di sacrifico e benevolenza mentre straziava l’anima del nostro Capostipite? Che pro avrebbe portato la sua morte a Nosgoth?
Se davvero il buon Traditore fosse stato tanto misericordioso, perché non ribellarsi alla volontà del falso Dio?
Si è lasciato ingannare perché privo di vergogna e obiettività, perché uccidere per vendetta è facile e piacevole, capire il perché di un tale gesto è più difficile…
Se il Primo Mietitore fosse stato più accorto nei suoi passi e carico di fede…pensi davvero che avrebbe osato tanto nei confronti di Kain? Avrebbe ammesso le sue colpe e si sarebbe purgato anima e il corpo per il suo peccato per poi rinascere come spirito purificato nella Ruota del destino.
Mille altre strade avrebbe potuto intraprendere, mille altre vie, diverse da quelle che invece ha ostinatamente VOLUTO seguire…”
Veive lo guardò con occhi tanto profondi da poterne penetrare mente e anima. Con calma e somma pacatezza, voltò le pagine del libro che Samah’el teneva sotto le mani, rivelandogli le immagini del grande massacro dei Dumahim.
Il mondo di Samah’el stava cadendo come un castello di carte davanti ai suoi occhi. Le verità che gli erano state rivelate da Asgarath il Mietitore potevano essere false o, peggio, artefatte.
Eppure, il druido mietitore non avrebbe avuto ragione di mentirgli. Erano amici, come avrebbe potuto tradirlo?
Come dice il proverbio “la storia la scrivono i vincitori” ma ora, davanti a se, il mezzo sangue aveva la versione degli sconfitti.
Tutto distorto, tutto falso.
Possibile?
Che i mietitori siano davvero figli del Traditore era un dato di fatto ma se questo era verità, La Cattedrale del Sangue aveva voltato le spalle alla propria storia per allearsi con creature divoratrici dei primigeni dei Clan…e chi gli assicurava che un giorno non lo avrebbero fatto di nuovo?
Il serpente del dubbio era stato sguinzagliato, lento e inesorabile avanzava nella mente di Samah’el, stritolando ogni certezza e rimettendo in discussione tutto ciò che la Cattedrale dell’Anima rappresentava.
La figura del Senza Cuore era assolutamente intoccabile, pura nella sua gloria, potente e saggio quanto Kain stesso…ma lo sarebbero stati anche tutti gli altri?
Come artigli d’aquila, le dita di Veive si strinsero nuovamente sulle spalle del dumahim con leggera ma brutale freddezza. Le morte labbra sussurrarono nell’orecchio del Dumahim delle orride menzogne travestite da verità;
“Non vedi come cercano di manipolarti, figlio mio?
Mentono come serpi e ingannano come ragni…Bugie, bugie inculcateti da un mietitore per farti fare il loro gioco.
Un ingannatore resta tale, anche dopo la morte…I figli del Traditore sono marchiati dal peccato del padre, la loro sete di anime ne è la prova.
Loro sono i burattinai e tu sei la loro brava marionetta!”
La sedia capitombolò dietro il colossale Dumahim che lesto si era alzato in piedi, il tavolo subì un possente colpo che lo fece gridare di voce lignea per il dolore. Per quanto veritiere potessero essere le parole di Veive, Samah’el non tollerava che offendesse i propri ideali e ciò in cui credeva. L’Alleanza gli aveva dato un mondo nuovo, un posto dove vivere e un idea per cui combattere e nessuno poteva metterne in discussione la purezza.
La gutturale e cavernosa voce di Samah’el esplose nella mente di Veive, falcidiata da echi collerici;
“NO! … DICI …IL FALSO!!”
Il freddo e potente pugno di Samah’el aveva lasciato un impronta ben marcata sulla pelle di quel povero mobilio. Il mezzo sangue era furente, così come la sua arma che ora scricchiolava incandescente dietro di lui. Veive non si scosse, era calma e sicura delle sue verità.
Si mise comoda e prese un sorso di vermiglio nettare per schiarirsi la voce;
“Giustiziare Raziel fu una decisione del Grande Imperatore...
Il seme della corruzione va estirpato per garantire un futuro ai giusti. Quel sacrificio fu fatto non per orgoglio ma per saggezza.
Kain aveva visto nel vanaglorioso Raziel un eccezionale nemico e decise di abbatterlo prima che potesse dargli problemi ma non poteva sapere quanto l’Immondo gli stesse nascondendo.
Il Traditore divenne un Mietitore e massacrò i suoi fratelli …e ora tu servi i suoi figli e questo non è menzogna.”
Samah’el ruggì indignato, ormai fuori controllo per la rabbia.
L’unica ragione che lo tratteneva dal prendere a colpi d’ascia tutto e tutti in quella stanza era il patto di non belligeranza che avevano stipulato lei e Kainh, con se stesso come ponte;
“TU MENTI! …NON CONOSCI! ... SBAGLI A GIUDICARE!”
Ambo le mani posate sul tavolo sostennero il dumahim nel rivaleggiare in ostinazione con la madre di sangue che ora poteva osservarne gli occhi caprini ad un palmo di distanza. I denti stretti e le zanne snudate, il collo rigonfio di vene infuriate, ancora una volta gli echi tuonarono nella mente di colei che stava osando troppo;
“…LORO…NON SONO…TRADITORI!…SONO PURI E GIUSTI! …L’ALLEANZA VUOLE PROSPERITÀ…VUOLE PACE E GIUSTIZIA! ELIMINARE…SARAPHAN…RIDARE…PUREZZA A NOSGOTH…”
“Pace? Giustizia? Altruismo? AH! Menzogne e ridicole facezie!
Dominare! Questo è ciò che vogliono.
Mietitori e vampiri insieme, più forti e potenti di qualsiasi armata Saraphan o Gran Consiglio dei Clan. Conquistare i Pilastri vuol dire avere Nosgoth in pugno.
I Mietitori sono divoratori di anime, figlio mio…e chi pensi che cacceranno quando il loro impero sarà realtà e non ci saranno più anime umane con cui saziare le loro avide bocche?
Pensi davvero che non abbiano già osato farlo?
Cosa ti da tanta sicurezza e fiducia in loro?”
La tensione era palpabile, l’aria stessa sembrava essersi fermata, entrambi erano carichi di convinzioni e rabbia, entrambi sapevano di avere ragione ed erano decisi a lottare per essa ma il Dumahim era troppo giovane e Veive troppo colta per poter essere battuta.
Era una vampira molto più vissuta di lui e questo le dava un notevole vantaggio, in più aveva effettivamente senso ciò che diceva anche se il mezzo sangue non voleva crederle.
Con un potente sbuffo di rabbia taurina, Samah’el si levò per dare le spalle;
“Non resterò quì…a bermi le tue menzogne.”
Si allontanò da Veive per portarsi davanti al camino che sembrava riflettere i moti dei loro animi, sfrigolando e scoppiettando di fuoco iracondo;
“L’immortalità è un grave peso ma anche una grande benedizione, figlio mio.
Tu pensi ancora come un umano, la tua visione delle cose è limitata nel tempo.
Se espandessi la tua visuale capiresti che questo è l’unico esito possibile.
Alla fine, i figli del Traditore scateneranno una guerra interna e nulla rimarrà di questo mondo…
Così come l’utopia di Kain morì per mano dei propri figli.”
“NON SARÀ COSÌ…NON ANDRÀ COSÌ…” sfuriò Samah’el nella mente di Veive.
Sibili di vipera ingannevole nelle orecchie di una giovane lucertola, facile da incantare e manipolare, non per stupidità ma per scarsa conoscenza dei mille intrighi e inganni avvenuti in passato;
“Nosgoth..può essere mondata…Il Magister…lo sostiene.”
“Il Senza Cuore è un povero stolto.
Egli è convinto di poter chiudere pecore e lupi nello stesso recinto e costringere entrambi a nutrirsi d’aria! Noi siamo VAMPIRI, figlio mio. Una pacifica convivenza con i mortali è impossibile, così come lo è la tua Alleanza. È solo un illusione!
Noi cacciamo, loro ci sfamano.
La loro sete di sangue è stata sostituita da una fame più grande, una fame che anche i vampiri possono soddisfare a pieno regime.
Quando toccherà ai Mietitori mangiare, noi saremo il loro banchetto. “
“ …il nemico…non è l’alleanza…Sono i Saraphan… I Corrotti!”
“L’Alleanza teme i Saraphan solo perché loro sono un ostacolo alla conquista totale.
Così come fece il Consiglio per i Razielim e i Fratelli con Dumah.
I corrotti sono solo animali spauriti, senza più un capo…Raziel causò questa crisi, uccidendo i capiclan. Eliminare la vecchia generazione per fare largo ad un nuovo e più organizzato esercito.
Ecco lo scopo dello sterminio.
Gli scomodi vanno eradicati, gli ostacoli soppressi e gli oppositori bruciati.
E’ questo che vuoi per noi, figlio mio?
Vuoi scartare il tuo Clan e il tuo passato perché siamo scomodi?
Tu sei figlio di un mondo molto più antico di quello che servi ora. Vuoi davvero uccidere tutto ciò che sei e che diventerai per seguire la fede di un Dio blasfemo?”
Con tono feroce e barbaro, la parte più viscerale e violenta di Samah’el stridette sdegnata e si erse con una rabbia infinita sulle belle parole e la volontà dorata che L’Alleanza rappresentava.
Si voltò con un gesto dispotico della mano chiusa a pugno, come se stesse stritolando una piccola innocente vita tra le dita. Le fiamme dietro di lui gli diedero ancor più carisma così come fece la violenza delle sue parole;
“ALLORA BRUCERETE!
NESSUNO VIVRÀ…SE NON PER SEGUIRE LA CATTEDRALE DEL SANGUE!
Possano incenerirsi… anima e corpo… tutti coloro che oseranno mettersi contro L’Alleanza! …
Seppellirò …i loro putridi spiriti… Li caccerò a martellate tanto in profondità nella terra …che usciranno dall’altra parte del mondo...e ci penseranno due volte…prima di reincarnarsi!
IL MAGISTER COMANDA…LA SUA VOLONTÀ … LEGGE!”
“Così come era legge la volontà di Kain quando decise che Raziel era indegno.
Cosa rende le decisioni del Senza Cuore più nobili di quelle del Primo?”
“Chiunque non condivide … mia volontà… È IL CASO CHE CONTINUI A NASCONDERSI …PERCHÉ … DARÒ LA CACCIA …. E STRAPPERÒ LA LINGUA … CON QUESTE MIE MANI!”
Le loro ombre si accostarono mentre la donna che tanto aveva svelato al mezzo sangue si ergeva dietro di lui, facendogli pesare la propria presenza come un macigni invisibile. Un sorriso sghembo pieno di soddisfazione adornò il volto pallido della vampira.
Aveva al fine portato l’acqua al proprio mulino;
“Aaah! Ora ti vedo, Dumah. Finalmente. Vivi ancora nel suo sangue da mezzo demone.
Ascolta le tue parole, figlio mio.
Tu stesso sei il primo a non credere in quegli ideali dorati che tanto sbandieri in difesa della stolta utopia di Soul, mitigato e plagiato nella conquista dai Mietitori.
Prima aneli gloria, verità e giustizia… poi parli di massacro, genocidi e violenza.
Tu stesso ti sei dato risposta.”
Il fuoco ondeggiava sfiancato, aveva divorato tutto il legname che poteva sostenerlo e ora lasciava spazio ad una silente brace crepitante. Veive avanzò e si pose accanto al mezzo sangue, gli occhi caprini e il volto severo la seguivano, carichi di pericoloso e indignato fanatismo.
Il silenzio regnava nuovamente solenne in quella stanza. I pensieri del Dumahim erano confusi ma ancora vividi di fede nell’Alleanza;
“Queste parole da te proferite sono parole da tiranno, non da giustiziere.
Sante parole che vennero proferite prima di te da Dumah stesso, parole sagge e veritiere, degne di un capo pronto a ridare vita a ciò che ha valore.”
Samah’el non seppe cosa risponderle, lì per lì era rimasto esterrefatto da se stesso e dalla riottosità del suo essere. Parole aliene eppure così potenti, si sentiva ardere il torace e i muscoli di tutto il corpo nel proferirle.
Mai era stato tanto deciso nella sua non vita.
Conquista, potere, volontà; parole che adesso avevano un contesto anche nella sua anima.
La dama di ferro gli si parò davanti senza paura, scrutò quegli occhi gelidi e quel viso apatico in cerca dell’insicurezza ben nascosta nella mente del figlio;
“In te c’è troppo conflitto, è ora che tu decida.
Hai concluso la tua Agoghé, non è più tempo che tu serva sogni e speranze che non ti appartengono…Cos’è che realmente vuoi? …
Parla usando le tue parole e non quelle del Senza cuore…
Cosa vuole possedere, cosa vuole diventare questo vampiro che ora mi parla come se fosse davvero un Dumahim?”
Il riverbero e il calore illuminarono il volto verde marcio del dumahim donandogli uno strano colorito, quasi umano. Rivolto verso il focolare che ormai stava perdendo tutta la sua luce, Samah’el pensò a lungo a cosa dire, pensò ai suoi desideri;
“Mi sono posto…molte volte…queste domande…
Più giovane… passeggiavo…sul ciglio di un burrone…
Stupido …solo e pieno di stolte lacrime … bambino.
Pensavo…di essere sigillato…in un’esistenza…che non avevo mai voluto…
Quella sera…mi presero…
Mi impiccarono…
Corda debole…
Si spezzò…”
La mano bifida accarezzò l’ampia cicatrice che circumnavigava il muscoloso collo, ben definita ed in evidenza come la viziatura del pelo di un cane che per tempo ha portato un collare troppo stretto.
“Perdere la vita…un pensiero fisso…
Morire… ricominciare… La Ruota.
Senza marchi…Senza demoni…
Morte…rinascita…e purificazione…
Crebbi forte…fatto di pietra…
Il pensiero…di essere in qualche modo…importante per gli altri…mi tenne in vita…
Convinto …non potesse essere un caso…
Doveva avere un fine quella mia sofferenza...un motivo…
Se vivi… Demone sigillato…Tutti vivono…sani e salvi…
Se muori…sigillo si rompe…Demone cavalca il mondo…. Nessun futuro.
Mentivo…a me stesso …per evitare…di soffocare nell’agonia…
Il loro odio…paura…Piaceva…
Provavano qualcosa…per me….Esistevo…in quell’odio…
Eppure odiavo …il perché di quella paura…
Loro non temevano me…ma il Padre demoniaco che mi aveva generato…
Paura … insensata…Come potevo nuocergli?
Piccolo…debole… solo un umano.
Ho maledetto… il giorno della mia nascita…e tutta la sofferenza che c’è nel mondo…per anni…
Ero giovane e volevo…Giustizia …”
Sbottò in un grugnito impietoso, ripudiando i pensieri di un Samah’el fanciullo e dall’ animo puro, soffocato da un uomo senza emozioni;
”La Giustizia … un’orgia tra Risentimento e Rivalsa…
Giustizia e Vendetta … compagni di letto … portano entrambi alla stessa sorte…
Punizione…”
La freddezza delle sue parole era agghiacciante ma per quanto orribile e doloroso fosse proferirle, egli sembrava esserne immune. Era come se quelle orride esperienze fossero nubi passate, che non lo riguardassero più di quanto poteva riguardarlo quel fuoco morente.
Adagio adagio, l’atmosfera si fece più cupa così come i pensieri di quel meditabondo dumahim.
Le parole gli uscirono innaturali e corrotte, cariche di echi chiari e concisi, voci colme di odio che si rinvigorirono di potenza e sicurezza nel momento stesso in cui le pronunciò;
“Ora è diverso…
Ora sono un uomo…
Non desidero la morte…ne sacrificarmi …per Loro…Mai più.
Ora so … sono gli uomini a creare i propri incubi …ed io sono uno di loro…
Incubo che si è svegliato… stanco di giocare ad essere quello che non è mai stato…
Umano…Vivo…Innocente…
Ora…sia fatta la mia volontà…MIA!
...Non quella del padre…Infimo essere di natura demoniaca…
MIA volontà…
Voglio rispetto…Voglio potere…che tutti comprendano…e tremino…
Che venerino…o odino… se lo sentono giusto…ma che lo facciano con cognizione di causa…
Voglio che tutti sappiano...quanto orribile …posso rendere la vita agli altri…se me ne daranno motivo…
Quanto in alto…posso arrivare…ed ergere coloro che amo…e che rispetto.
Quanto violentemente…spezzerò le ossa…di coloro che ostacoleranno il mio volere…”
Parole proferita da uno spirito combattivo che per troppo tempo aveva subito il falso e le decisioni di altri, nel bene e nel male. Pensieri pieni di risentimento ma anche forza, parole sospinte dal desiderio di rivalsa verso chi lo aveva condannato ad essere un mostro e che ancora doveva pagare;
“ Rispetto...Nel Bene…o nel Male…
Io voglio che tribolino…nel vedermi…
Che esultino…Che urlino…Che amino…ma che lo facciano…vedendo me…
ME…NON LUI!
Fare…Dire… paura…gioia…dolore…amore…
In nome mio…Per mio volere…
Non voglio che vedano la mia vendetta… come atto di Giustizia…o conseguenza della mia natura mezzana…
Deve essere Logica… Imparziale…Pura …
Che guardino… mentre torturo i loro figli …smembro le loro madri…
La conseguenza di un atto di odio …non è compassione …o perdono…è un altro atto di odio.
Si può provare a far tacere la voce dell’ombra …ma alla fine, la si ascolta …
È possibile sentirla …sotto pelle mentre striscia…divora…stritola la gola e la voce … mentre proferiamo dorate parole: “Io ti perdono” …
Perdono…clemenza…Parole senza corpo a Nosgoth…
Non voglio perdono…
Non voglio pietà…
Nessuno chiede perdono ad un capro …prima di sgozzarla per farne carne…
Eppure, tutti additano il lupo … che sbrana e uccide il gregge per sfamarsi… dopo aver odorato il sangue delle bestie…da loro stessi versato.
Il lupo non vuole Giustizia.
Il lupo non vuole Vendetta.
Il lupo vuole nutrirsi.
Conseguenze…
Voglio…Punizione…”
Il gelido braccio di Veive si avvolse con gentilezza intorno a quello del Dumahim che ora taceva nel rimirare quelle spoglie incandescenti. Un filo di fumo proclamò lo spegnersi di un fuoco ormai defunto, la semi oscurità ora regnava innaturale e incontrastata nella grande sala dei ricevimenti;
“Io desidero …purificare… questa mia anima spezzata….
Metà vampiro …Metà demone…
Due metà di una vita non la rendono unitaria…
Metter fine…pantomima… che questi occhi caprini…mi condannarono a recitare.
Essere libero di scegliere…
Plasmare le loro paure…a mia immagine e somiglianza…
Devono guardarmi…
Vedermi…
Riconoscermi…
Voglio…avere un senso.
Un’identità…definita che ora non ho…
Poche cose comprendo…
Rendono ciò che sono… ciò che voglio essere...
Comprendo la mia natura di vampiro… i doni oscuri… la fame…
Comprendo il valore di questa mia non vita…cento volte più sensata di quella che avevo prima.
Un Dumahim…
Questo, voglio essere…”
Overture Della Follia- Soundtrack
Il crepuscolo era giunto ben oltre la metà della sua vita e le fiere notturne erano già in caccia mentre gli abitanti di Nosgoth dormivano beati nelle loro case, chi se la poteva permettere almeno.
Una notte come tante per molti ma non per tutti. Dopo la discussione avuta con Veive, la bella dama aveva proposto al figliolo di rimanere ancora qualche notte.
Gli promise in cambio molto più di ciò che gli aveva donato quella notte e il Dumahim acconsentì alle richieste della madre.
Le servette lo avevano condotto nei suoi alloggi, più simili alle stanze di un principe che di un soldato dell’alleanza ma non era certo con il lusso che Veive avrebbe comprato i favori di Samah’el.
Fu lasciato solo di poter pensare, ragionare e interiorizzare quel che era successo nella Sala dei ricevimenti.
Samah’el si sedette sul letto, morbido e confortevole, dopo aver deposto le armi su di un tavolo al centro della stanza. Void era ancora tiepida per l’effetto che la sua ira aveva avuto sulla lama nera, memento di ciò che aveva detto e pensato nel momento di massima furia e consapevolezza.
Quel tepore fu come un segno, un messaggio da parte dell’Alleanza stessa, del Senza Cuore; ricorda perché sei ancora in vita, ricorda a chi devi la tua fedeltà.
Alla luce delle scoperte fatte, la volontà del dumahim si era completamente spezzata in due. Fiero di essere un vampiro al servizio della Cattedrale del Sangue ma non più tanto sicuro di quanto l’Alleanza potesse essere un bene per lui.
I dubbi non erano bastanti per giustificare un suo distacco da quel sogno utopico che era nato con il Negromante ma la possibilità di divenire una guida, un capo, una nuova genesi per il Clan Dumahim gli si era fatta certezza e desiderio.
Era stato chiaro; chiunque si fosse messo contro di lui e la sua volontà l’avrebbe pagata cara e, al momento, la sua volontà era quella di rimanere fedele alla Cattedrale del Sangue e a Kainh così come proteggere Veive e il sogno del Clan Dumahim.
Che male poteva esserci in questo?
L’intento era nobile, da ambo le parti, ma sarebbe risultato così anche agli occhi dell’Aleanza?
Le dita stringevano il setto nasale all’altezza degli occhi, la mente costringeva a razionalizzare, a trovare le parole da proferire a Kainh al riguardo di ciò che era accaduto. Con uno sbuffo impaziente, il dumahim si sdraiò sulla morbida superficie del letto che lo accolse con giocosi e soffici molleggi.
Tutto quel pensare di manovre e politica lo sfibrava, non era mai stato un uomo da piani quinquennali ma ora le cose erano cambiate; doveva vedere il mondo con gli occhi di un immortale, avrebbe dovuto imparare a guardare oltre il tempo e a prevedere le ripercussioni delle sue azioni.
Dopo qualche minuto passato nel silenzio e nella pace assoluta, Samah’el sorrise beffardo a se stesso; a cosa serviva raccapezzarsi tanto se ciò di cui si stava preoccupando non sarebbe mai potuto accadere?
Come poteva un mezzo sangue dare vita ad una linea di Dumahim pura?
Stavano facendo i conti senza l’oste.
Al pensiero di essersi costruito solo una montagna di castelli in aria, Samah’el si addormentò, pieno d’ insoddisfazione.
Non si era fatto neanche mezzodì quando il vampiro si destò dal torpore diurno, disturbato nel sonno da rumori interni alla propria camera. Il buio del sottosuolo lo circondava, ancora mezzo dormiente riuscì a vedere una figura, parzialmente illuminata da un timido lume, in piedi al fianco al tavolo. Una donna di bianco vestita, il capo chino nell’atto di rimirare Void mentre le sottili dita color buio ne sfioravano la lama.
Samah’el ruggì lievemente, la figura si voltò atterrita.
Nonostante l’oscurità, il mezzo dumahim riuscì a riconoscere l’estranea; era una delle servette che lo avevano scorta nelle sale dell’hammam. Occhi edera, carne nera, le labbra tremanti e l’espressione di una bambina smarrita presa con le mani nel sacco;
“Oh, Mio Signore…Siete sveglio! Perdonatemi, io …io…ero venuta solo a portarle delle libagioni…”
Disse con voce tremante mentre il marcantonio verde le si stava facendo sempre più vicino.
La sventurata si allontanò dal tavolo su cui era stata posta un’ampia caraffa di sangue ed un bicchiere.
Poco importava; Il fatto di aver detto il vero non la esimeva dall’aver messo le mani su qualcosa che non le apparteneva.
Non potendo comunicare con lei previa sussurro, Samah’el tenne la mano sulla lama piatta e larga di Void e la trascinò verso di se con un rumore straziante di legno rigato mentre una salva di schiocchi di gola ritmici e gutturali ne sottolineava la proprietà.
La giovane si strinse le mani al petto e chinò la testa in segno di vergogna.
Il mezzo sangue sembrava ancor più mostruoso in quella oscurità mal smorzata da un esile lume. La servetta poteva vedere il riflesso degli occhi caprini, resi opachi dalla luce rimessa delle innaturali iridi.
Oltre ad essere sveglio fuori orario, quella notte non si era nutrito abbastanza da poter passare il giorno in torpore.
Aveva fame.
Prese la caraffa e la prosciugò in un sol sorso mentre la dama in bianco retrocedeva verso la porta. Giunta a pochi passi dalla maniglia, Samah’el batté il pugno sul tavolo con la violenza e il fervore di un giudice pronto a condannare un orrido crimine. La giovane serva sobbalzò di paura, la bifida mano accompagnò la brocca sul tavolo prima di dirigersi verso di lei;
“Perdonatemi, mio Signore …Non avrei dovuto osare tanto. Non succederà più, ve lo giuro!”
Pigolò la donna, preda della più viscerale tra le paure.
Il mezzo demone ne afferrò il braccio e la trasse verso di se con tanta foga da farla gemere, vide il terrore nei suoi verdi occhi, vivido, puro, tutto per se.
Esattamente ciò che aveva sempre desiderato; lei vedeva lui, non il demone dipinto sul suo volto.
Si prese ciò che da lei voleva finché non ne fu appagato e la lasciò andare, ferita, parzialmente dissanguata e in lacrime, quando ormai la candela si era consunta per più della metà.
Al primo vagito della notte, il mezzo sangue fu il primo ad essersi svegliato, nell’attesa di essere ricevuto dalla madre di sangue, si era dedicato all’esplorazione di quella magione, senza guide o vigili ad ostacolarlo.
Ritenne di doversi soffermare ad osservare le scene di battaglia rappresentate dagli arazzi nei corridoi, esaltando la mezza anima da vampiro che ora sentiva più forte e presente che pria.
Girovagando ramingo, s’imbatté in una stanza che sembrava essere stata volutamente abbandonata. Era spoglia, priva di mobilio, le tele dei ragni avevano coperto quasi totalmente sial il pavimento che le forti colonne. Alla luce della luna che filtrava da una finestra scolpita sulla parte più alta del muro, era possibile vedere una specie di orma circolare sul pavimento, priva della polvere che caratterizzava quella sala.
Innaturale nella sua semplicità, quell’impronta sembrava essere stata lasciata da un oggetto tondo e pesante ma anche tanto leggero da non aver lasciato segni di trascinamento sul pavimento.
Più si avvicinava a quel luogo, più il presentimento che non sarebbe mai dovuto entrare in quella stanza lo strangolava.
Prima che potesse indagare oltre, udì dei passi provenire dal corridoio e lesto si appiattì contro la parete della stanza, socchiudendo la porta. Quando al fine il rumore di passi si allontanò, Samah’el poté uscire e lasciare quel luogo così misterioso e stranamente inquietante.
Si diresse lesto verso la sala grande dove Veive lo stava aspettando;
“Omaggi…prima della partenza.”
Sussurrò con il maggior garbo possibile, echi di riverenza accompagnarono il suo messaggio.
La genitrice vampira gli sorrise mentre stringeva una lettera tra le mani e lesta si avvicinò al mezzo sangue.
“Lunga notte, figlio mio. Dormito bene?”
“Confortevole…” rispose evasivo.
“Bene, molto bene. Ho grandi notizie per te. Come promesso, oggi avrai una rivelazione, così come ti ho promesso. Sappi, figlio mio, che non sarò io a delucidarti di questa buona nuova…bensì sarà il Senza Cuore a illuminare la tua giornata.”
Samah’el lì per lì non riuscì a capire cosa volesse dire la bella Veive con quelle parole e non gli diede alcuna spiegazione, si limitò a consegnargli una lettera in busta chiusa con un bollo in ceralacca su cui vi era il simbolo del Clan.
“Quando sarai al cospetto del Senza Cuore, vorrei che tu gli facessi leggere questa lettera scritta di mio pugno. Deve arrivare da lui integra e inviolata, Samah’el, quindi non provare a sbirciarla.
È importante per me…e per te.
Ah, e già che ci sei, pregalo da parte mia di smetterla con il massacro dei messaggeri. Sta diventando un’abitudine fastidiosa.
Hai ben capito?”
Samah’el annuì, riponendo la missiva immediatamente al sicuro. Con un cenno del capo e la mano sul cuore, il figlio si congedò dalla madre, la quale ricambiò la sua formalità con una carezza sul volto ed un sorriso talmente caldo da sciogliere il cuore persino a quel mostro di marmo.
Percorrendo la strada a ritroso, il dumahim trovò l’uscita e lesto si disperse in una miriade di minuti colibrì rosso sangue.
Nella magione dell’ultima Dumahim, Veive si era portata nelle sale della servitù dove la dama dagli occhi verdi era ancora costretta a letto, stranamente apatica e priva di quella disperazione che aveva dimostrato al Dumahim. Tre donne la stavano curando le ferite, aveva dei segni di graffi su schiena e fianchi e segni di morsi profondi sulle braccia, sui seni e sul collo. Era smunta, debole, il vampiro si era nutrito parzialmente di lei. La padrona batté le mani e le servette si fecero da parte, prendendo posizione in fila con le spalle al muro.
La dama dalla pelle scura chinò il capo in segno di saluto, trattenendo un gemito;
“Fai rapporto.” Disse la dama di ferro con voce gelida.
“La vostra tattica ha funzionato, mia Signora. La sete lo ha reso sensibile agli odori e all’irrazionalità. Si è svegliato esattamente come da lei previsto... Avergli negato un pasto completo è stato davvero ingegnoso.”
“Ti sei fatta cogliere in fallo?” chiese Veive, più preoccupata per il piano che per la serva.
“No, mia Signora. Sono stata abile e non mi sono fatta scoprire. L’ho provocato e lui si è lasciato andare agli istinti. Ne ho approfittato per coprire i miei intenti durante il suo sonno…non con poco dolore, mia signore.
Sono riuscita nell’impresa, mia signora.
Ho la runa.”
Detto ciò, la servetta al fianco del letto si mosse e consegnò alla Genitrice di sangue un fazzoletto macchiato di sangue su cui era stata ricalcata la runa incisa sul manico di Void, presa nel mentre che Samah’el era caduto nuovamente nel sono diurno. Veive la prese tra le mani, annuendo sodisfatta mentre ne memorizzava ogni singolo centimetro;
“Eccellente, ragazza…Ben fatto…Abbiate cura di vostra sorella, ragazze. Sarà grazie a lei se oggi mangerete uva e berrete vino pregiato.”
Senza aggiungere altro, lasciò le stanze della servitù con le giovani che ridevano felici e soddisfatte per l’impresa portata a termine dalla compagna.
Le lesta si incamminò per i corridoi della magione, dritta verso la stanza in disuso scoperta qualche minuto prima da Samah’el.
Penetrò fin nel centro della sala per poi imporre alle pietre che ne componevano la pavimentazione la sua volontà, recitando oche parole a mezza bocca e impugnando un amuleto su cui vi era incisa una runa incandescente.
Un cupo rumore di pietra in movimento rimbombò per tutta la stanza quando un grosso e circolare lastrone di pietra si levò dal pavimento e altre pietre si staccarono per andare a comporre una scala a chiocciola che sembrava scendere ancor più in profondità di quanto non lo fossero già in quella magione sotterranea. Tutte erano state segnate sulla faccia non visibile con delle rune che ora rilucevano di una verdastra energia glifica.
“Finalmente…Il Nome è completo…”
Bisbigliò tra se e se sparendo nell’oscurità della stanza, nel ventre caldo e calcareo della terra.
Quando anche l’ultimo dei minuti uccelli si fuse nuovamente nel formare il corpo del vampiro, Samah’el s incamminò a passo svelto verso le sale del trono. Molti i fratelli presenti nei corridoi e nella grande sala ove erano ad uso radunarsi per gioire della vita non morta anche senza dover assassinare qualcuno.
Giunto alle grandi porte che separavano il Senza Cuore dai comuni, Samah’el le aprì entrambe per farsi largo ed entrare nelle sacre sale. Fece qualche passo prima di inginocchiarsi posando un pugno al suolo al cospetto del solo Maestro della Cattedrale del Sangue. Agli occhi del vampiro egli era ancor più grande di Soul ma solo perché non era mai riuscito ad incontrarlo di persona; per lui era una leggenda, il Negromante un potente nome di altri tempi ma restava un nome.
Il Magister del sangue era lì, era sempre stato lì, come se avesse saputo in anticipo che il mezzo sangue sarebbe tornato esattamente in quel momento. Con un gesto del capo e un sorriso cordiale fece cenno a Samah’el di alzarsi dalla sua posizione inginocchiata e farsi avanti;
“Bentornato, Samah’el.” Disse con tono di voce seria e pacata.
“Mio Signore…” rispose il mezzo sangue con una voce piena di echi di rispetto e carichi di…orgoglio.
“Quali nuove porti, figlio della notte?”
“Missiva…da parte della Genitrice…per Voi”
Disse il Dumahim levandosi in piedi e avvicinandosi al Magister per recapitargli la lettera.
Kainh la osservò con sguardo gelido, la volse tra le mani studiandone il sigillo che la sigillava. Era come avere tra le mani una reliquia del passato, era ormai da secoli che nessuno bollava più le proprie lettere con quei sigilli.
Senza indugio, la aprì per leggerne il contenuto. Il foglio era bianco, fatta eccezione per una runa che appena venne svelata dalla sua tomba di carta, si attivò illuminandosi e rilasciando un gradevole bagliore di luce violacea. Come fossero fatte di vivido suono, le parole, che avrebbero dovuto trovarsi scritte sulla nuda carta, vennero proferite dalla voce della stessa Veive;-All’attenzione del nobile Kainh, il Senza Cuore, discepolo di Soul il Negromante, Guardiano del Pilastro del Conflitto e Reggente della Cattedrale del Sangue;
Vostra signoria,
Possa la Ruota del destino accompagnare il vostro fato verso i più rosei destini.
Con la seguente missiva possano giungervi anche le mie felicitazioni e congratulazioni per i recenti sviluppi positivi per l’Alleanza e la vostra preziosa Cattedrale.
L’arruolamento di un vampiro di razza mista che presto sarà capace di fornirvi un esercito di Dumahim non corrotti, è stata una decisione di una saggezza e lungimiranza senza eguali.
Presto il vostro giovane membro diverrà un puro sangue per mia mano e per farlo avrà bisogno di proseguire il suo cammino al mio fianco.
La Ruota del Destino lo ha guidato a me e L’Araldo del Clan necessita dei suoi Tredici Fratelli.
I suoi desideri sono i miei e spero che lo stesso valga per voi.
Le vie intraprese vi hanno portato lontano, con questo mio dono sarete un'unica falange, un'unica forza, ancor più temibile di quanto non lo siate adesso.
Sia questa mia iniziativa presa come un dono, per mio figlio e la Cattedrale del Sangue. Possa questo suggellare ancor più strettamente il patto di reciproca fiducia da noi stipulato.
Attendo impaziente una risposta e un segno di benevolenza da parte del Guardiano del Conflitto
I miei omaggi.
Veive, Ultimo Dumahim, Spettro del Passato e
Sterminatrice di Razielim –
Samah’el si era fatto distante dal Magister del sangue nel mentre che apriva la lettera.
Pensava fosse qualcosa di molto più privato e invece lo riguardava intimamente.
Veive aveva detto che entro la serata gli avrebbe donato un’altra rivelazione; aveva mantenuto la parole.
In quella lettera si capiva molto bene ciò che la genitrice intendeva fare e questo riempiva Samah’el di un infinito senso di felicità, ben celato dietro il volto di pietra sempre serio e apatico.
Era euforico nel sapere che la vampira secolare aveva trovato un modo per renderlo completo, un Dumahim in tutto e per tutto.
Il come avrebbe portato a termine tale miracolo era ancora un mistero, avrebbe dovuto tornare da lei e passare ancor più tempo per far sì che il suo traguardo più grande potesse esser raggiunto.
Tutto stava alla decisione del Senzacuore, ovviamente, ma il dumahim sapeva che lo avrebbe lasciato andare e percorrere il suo cammino sula Ruota.
Non aveva alcun dubbio al riguardo, era troppo felice di quella notizia e il pensiero che Kainh avrebbe potuto denigrare tale richiesta non lo sfiorava affatto.
Dopo tutto, si trattava di intraprendere il proprio cammino, di trovare il proprio posto nel Clan di Dumah e seguire le sue orme.
Edited by skulker87 - 2/6/2015, 12:56. -
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Dislivello epico applicato
(Samah'el Khan non guadagna nulla per la precedente missione del Fato)Sviluppi inaspettati
“Attendo impaziente una risposta e un segno di benevolenza da parte del Guardiano del Conflitto
I miei omaggi
Veive, ultimo Dumahim, spettro del passato e sterminatrice di Razielim”
Nel sentire quelle ultime parole, alla presenza del figlio di colei che parlava attraverso la lettera,il senzacuore contenne lo sdegno per ciò che udiva.
“Veive...” pensava Kainh nella sua mente... “sempre stata abile a manovrare dal profondo dei suoi antri più segreti, una delle poche rimaste dell'Antico Clan Dumahim se non l'unica.”
Il Senzacuore non era ancora nato quando la vampira era al fianco dei capitani di Dumah in persona, ma aveva letto nei tomi e sentito delle narrazioni da Soul, il negromante, tempo addietro ; ella non si era mai evoluta, in fondo.
Lo scontro , di certo non lo allettava in quel panorama delicato che stava attraversando Nosgoth, ma doveva essere un'avversaria da non sottovalutare.
Anche se lui era il Guardiano del Conflitto, lei era più antica e scaltra.
Samah'el Khan incrociò lo sguardo del suo Signore, quasi come impaziente di conoscere la sentenza di quella strana e bizzarra richiesta da parte della madre, che però , dal profondo del suo cuore, ardeva dal desiderio di soddisfare.
“I clan che conoscevamo sono estinti” disse il Senzacuore “un ritorno sarebbe alquanto improbabile, e per Nosgoth sarebbe stato un rischio che non forse non possiamo correre...tuttavia.......” si fermò un istante, soppesando le parole.
“Non posso certo essere io a decidere il tuo destino, mezzodemone dumahim” parlò infine il Guardiano.
“Chi può decidere se non tu stesso, la sorte ed essere il fautore del proprio destino?”
“Vuoi dire...che sono...libero?” sussurrò lui, incredulo.
“Certamente Samah'el. Libero. Libero di decidere il tuo percorso, con un prezzo da pagare”
“E quale....sarebbe...questo prezzo?”
“Scegliere da quale parte stare, adepto. Semplice. Di certo non puoi stare nel mezzo, con il piede in due stivali, questo deve essere chiaro”
Per il colosso, non era una scelta facile, e questo il Senzacuore ben lo sapeva.
“Non devi decidere immediatamente, anzi, ti aiuterò nella scelta” continuò Kainh
“Se tu...mi aiuti....magister....significa....che mi porti....dalla parte....della Cattedrale.....Dalla tua...parte...”
“Non necessariamente dumahim.... non necessariamente”Samah'el Khan
Adepto
“Nelle terre che un tempo erano chiamate “Terra della Nemesi” potrebbe celarsi qualcosa a cui si riferisce la tua madre di sangue.
Bada, il percorso è pericoloso, soprattutto quando nella tua mente si insinuano innumerevoli dubbi, ma sii lucido.
Sei libero di non tornare alla Cattedrale, come ti ho detto, la scelta è tua.
Vai nella landa in cui in un tempo immemore la Nemesi di Nosgoth minacciava il mondo dalle fredde sale della sua fortezza e costeggiala.
Un enigmatico luogo ti attende e ti guiderà. Segui il suo richiamo...di certo quando sarai vicino ad esso, la tua mente se ne accorgerà.”
LDR 3
Kainh sapeva bene di cosa si trattava, ma non volle rivelarlo al mezzodemone. Era qualcosa che conosceva bene, che lo avrebbe messo di fronte ad una scelta. Doveva solo decidere.... -
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Capitolo 5 - Sangue e Fede
BriefingSPOILER (clicca per visualizzare)“Attendo impaziente una risposta e un segno di benevolenza da parte del Guardiano del Conflitto
I miei omaggi
Veive, ultimo Dumahim, spettro del passato e sterminatrice di Razielim”
Nel sentire quelle ultime parole, alla presenza del figlio di colei che parlava attraverso la lettera,il senzacuore contenne lo sdegno per ciò che udiva.
“Veive...” pensava Kainh nella sua mente... “sempre stata abile a manovrare dal profondo dei suoi antri più segreti, una delle poche rimaste dell'Antico Clan Dumahim se non l'unica.”
Il Senzacuore non era ancora nato quando la vampira era al fianco dei capitani di Dumah in persona, ma aveva letto nei tomi e sentito delle narrazioni da Soul, il negromante, tempo addietro ; ella non si era mai evoluta, in fondo.
Lo scontro , di certo non lo allettava in quel panorama delicato che stava attraversando Nosgoth, ma doveva essere un'avversaria da non sottovalutare.
Anche se lui era il Guardiano del Conflitto, lei era più antica e scaltra.
Samah'el Khan incrociò lo sguardo del suo Signore, quasi come impaziente di conoscere la sentenza di quella strana e bizzarra richiesta da parte della madre, che però , dal profondo del suo cuore, ardeva dal desiderio di soddisfare.
“I clan che conoscevamo sono estinti” disse il Senzacuore “un ritorno sarebbe alquanto improbabile, e per Nosgoth sarebbe stato un rischio che non forse non possiamo correre...tuttavia.......” si fermò un istante, soppesando le parole.
“Non posso certo essere io a decidere il tuo destino, mezzodemone dumahim” parlò infine il Guardiano.
“Chi può decidere se non tu stesso, la sorte ed essere il fautore del proprio destino?”
“Vuoi dire...che sono...libero?” sussurrò lui, incredulo.
“Certamente Samah'el. Libero. Libero di decidere il tuo percorso, con un prezzo da pagare”
“E quale....sarebbe...questo prezzo?”
“Scegliere da quale parte stare, adepto. Semplice. Di certo non puoi stare nel mezzo, con il piede in due stivali, questo deve essere chiaro”
Per il colosso, non era una scelta facile, e questo il Senzacuore ben lo sapeva.
“Non devi decidere immediatamente, anzi, ti aiuterò nella scelta” continuò Kainh
“Se tu...mi aiuti....magister....significa....che mi porti....dalla parte....della Cattedrale.....Dalla tua...parte...”
“Non necessariamente dumahim.... non necessariamente”Samah'el Khan
Adepto
“Nelle terre che un tempo erano chiamate “Terra della Nemesi” potrebbe celarsi qualcosa a cui si riferisce la tua madre di sangue.
Bada, il percorso è pericoloso, soprattutto quando nella tua mente si insinuano innumerevoli dubbi, ma sii lucido.
Sei libero di non tornare alla Cattedrale, come ti ho detto, la scelta è tua.
Vai nella landa in cui in un tempo immemore la Nemesi di Nosgoth minacciava il mondo dalle fredde sale della sua fortezza e costeggiala.
Un enigmatico luogo ti attende e ti guiderà. Segui il suo richiamo...di certo quando sarai vicino ad esso, la tua mente se ne accorgerà.”
LDR 3
Kainh sapeva bene di cosa si trattava, ma non volle rivelarlo al mezzodemone. Era qualcosa che conosceva bene, che lo avrebbe messo di fronte ad una scelta. Doveva solo decidere...
Video
La pietra era stata scagliata e i pezzi sulla scacchiera avevano cominciato al fine a muoversi ed attaccarsi a vicenda, nel vano tentativo di vincere la partita.
Sfortunatamente per Samah’el, egli era una fragile torre indecisa sul da farsi, ne bianca ne nera, priva di uno schieramento e incapace di arroccare per la Cattedrale del Sangue o per la propria genitrice.
Da una parte vi era Kainh, il Senza Cuore, colui che lo aveva accolto ed erudito per tutto quel prezioso tempo, un anima saggia che lo aveva saputo guidare passo dopo passo fino quel momento fatale; al bivio crudele da cui, uscirne, comportava enormi sacrifici da ambo le parti.
Dall’altra, Veive, una madre degenere che abbandonò suo figlio per poi tornare e regalargli ciò che aveva sempre voluto; un Clan e la purezza dell’anima.
Volontà o Causa, Madre o Guida, Sangue o Fede, il fato di Samah’el si sarebbe compiuto quella stessa notte.
Rimase nel silenzio, incapace di muoversi per il troppo rimuginare.
L’ultima cosa che si aspettava dal Senza Cuore era esattamente ciò che, nel profondo del dubbio, Veive aveva detto lui; stanno manipolando e negandoti il tuo giusto posto al mondo.
Non volle crederci, neanche per un istante, eppure…sembrava davvero così.
Senza la Cattedrale del sangue, Samah’el non avrebbe di certo potuto definirsi un buono, un puro, un giusto. In un mondo di sudici esseri e corrotti senza scopo, egli sarebbe stato il più spregevole di tutti.
Senza Kainh a guidarlo, sarebbe diventato un lupo tra le pecore, senza idee o ideali, solo istinto e sadismo.
Samah’el non voleva di certo questo.
Dall’altra parte vi era una grande ingiustizia da affrontare.
Accettare la gloria e la purezza dell’Alleanza per poi infettarne la grandiosità con il suo essere mezzano.
Sarebbe stato, per sempre, niente più che un mezzo demone, mai avrebbe ottenuto la pace che tanto agognava e sperava di ottenere.
Sarebbe stato sempre e soltanto il figlio del demone e niente di più.
Questi, gli unici esiti possibili e concessi.
Era talmente intento a rimuginare su ciò che doveva essere fatto che non ebbe di che accorgersi sul dove il suo corpo lo stesse portando e cosa stesse facendo. Il colossale Dumahim si era limitato a salutare il Magister del sangue con un inchino ed abbandonare il posto senza pronunciare una singola parola.
“E ora?...” al fine si domando un Samah’el diviso tra due mondi. “Fato crudele e meschino. Dannata sia la mia miserevole anima. Perché insisti a volermi negare una singola gioia completa.
Che possa durare un secondo o un secolo, sempre la felicità mi sarà preclusa?
Ora mi chiedi anche di scegliere se annichilire me stesso e giacere su questa terra come figlio bastardo di un demone, seppur coperto di una gloria che mai sarò capace di godere, oppure scegliere il sangue e il clan, essere cacciato e schernito da colui che più di ogni altro stimo e rispetto, tornare ad essere un reietto ma, almeno, puro e incontaminato nell’anima?…
Che orrido scherzo è mai questo, quali innominabili crimini ho mai compiuto nelle mie vecchie vite per meritare tanti grattacapi?” Urlò dentro di se mentre il volto di gelida pietra non lasciava trasparire nulla.
Aveva bisogno di pensare, aveva bisogno di tempo.
Restare nella cattedrale del sangue lo stava lentamente logorando ma, dall’altra parte, tornare da Veive lo stomacava ancora di più. Lei era stata una presenza si importante ma decisamente scomoda.
Aveva punzecchiato il leone che dormiva una volta di troppo ma era stato al fine lui a pagarne il prezzo.
“La tua gioia è la mia”, mai disse cosa più falsa di quella, nonostante fosse la stessa donna che, a quanto pareva, aveva le chiavi della purezza del dumahim strette nel pugno.
Decise di partire per le Terre della Nemesi.
Avrebbe consumato le suole delle scarpe se quel viaggio avesse in qualche modo donato pace al proprio essere.
Non prese precauzioni, non portò con se neanche le armi. Le lasciò alla Cattedrale del Sangue, così non avrebbe avuto di che preoccuparsi se fosse tornato da Kainh e di che soffrire se avesse dovuto lasciarle lì per schierarsi con Veive.
Gambe in spalla e via, con l’anima ancora piena di demoni urlanti e l’indecisione nel cuore.
Una triste melodia fischiava nel vento, come se la notte volesse fargli sentire il proprio cordoglio per quella orrenda situazione. Gli occhi del dumahim tradivano grande dolore e conflitto, come avrebbe potuto guardarsi allo specchio nuovamente se avesse preso la decisione errata per fretta? Camminò per parecchio finché le gambe stesse non gli intimarono di fermarsi.
Era ormai arrivato all’altezza del territorio dei Dumahim e quasi al confine con la foresta di Termogent.
Decise di ristorarsi per qualche minuto e si sedette su di una roccia, unico isolotto minerario in una vasta radura di erba alta. Il cielo era limpido e il vento gentile, piccole lucciole fluttuavano senza peso e senza preoccupazioni tutt’intorno ai piccoli arbusti.
Le mani bifide strinsero il capo munito di creste cefaliche, nulla di ciò che sapeva poteva aiutarlo a decidere.
Era una di quelle dannate situazioni in cui si perde tutto, qualsiasi sia la scelta che si vuole fare.
Il volto era contratto in un’espressione di panico reverenziale, tanto naturale gli venne perdersi in quelle emozioni che non fece caso neanche al fatto di aver cambiato espressione, per la prima volta nella sua non vita.
“Che fare…” continuava a sussurrarsi nella mente. Il cuore gli era passato dal torace alla gola senza alcuna avvisaglia. Le orecchie gli dolevano, come se tutti i pensieri nel cranio gli fossero usciti dalla testa e gli stessero rientrando dalle orecchie al doppio del volume;
“Cosa c’è di male nel voler essere puro nell’anima e nel corpo così come nelle azioni?
Perché, perché non può essere semplice, facile, come lo scorrere della sabbia in una clessidra?
Perché, Magister, perché temete così tanto ciò che il mio Clan rappresenta?
Potessi avere i vostri occhi vedrei e capirei, sono certo che le vostre ragioni siano più che sensate e ponderate…eppure…perché …
Perché non riesco nel vedere anche io come voi? Stolti occhi, troppo giovani per poter comprendere il piano di un secolare vampiro che di molto più si è nutrito e ha compreso di questo mondo.
Fossi sapiente e saggio come voi siete, oh Magister, sceglierei con molta più solerzia e sicurezza. L’ago della bilancia farei pendere dalla vostra parte, senza indugio…eppure…sento che abbandonare me stesso per qualcosa che si, approvo, ma che nega il mio essere è sbagliato.
Realizzarsi per primi per realizzare grandi cose.
Egoistico ragionamento, per certo. Ma altrettanto sbagliato?
Un cavaliere, una legenda, un paladino, un adepto…come queste figure possono essere utili se i loro cuori tribolano e le loro menti indugiano su orridi rimorsi?”
Appena fu in grado di riprendere il viaggio, le gambe forti del dumahim lo sorressero per altre numerose miglia. Lo portarono lontano, più lontano di quanto la sua stessa mente non riuscisse a fare.
Le terre della Nemesi erano si un luogo inospitale e completamente agli antipodi rispetto al rifugio di Nupraptor ma nessun luogo sarebbe stato troppo distante per colui che non vuole tornare a casa.
Passo dopo passo, il mezzo sangue giunse nei pressi della sua vecchia città natale per poi addentrarsi ancor più a fondo nella macchia di verde che circondava la vecchia villa del Grande Massacratore del cerchio. Continuò finché il sole glie lo permise, il trovare riparo non era un problema, neanche riuscire a tenere il passo o evitare i pericoli sul proprio cammino. Le ferite sulle mani e gli incontri casuali di briganti e vampiri, gli screzi del fato nascosti in un’improvvisa frana o una scrosciante pioggia, non erano problemi paragonabili a ciò che la mente del dumahim doveva subire.
Le parole di mille e mille bocche ciacolanti gli stavano trapanando il cervello nell’intonare, ognuna, le proprie litanie e pensieri dissonanti. Tutto ciò che aveva vissuto, sentito, provato, visto, lentamente e inesorabilmente, stava prendendo un unico corpo ed un'unica anima. Un modo come un altro per facilitarsi l’arduo compito di prendere una decisione;
“Padre mio, ora capisco molte cose. Capisco perché vi siete arreso ad una volontà più grande della vostra, capisco perché mi avete portato dal maestro dei silenzi, capisco perché avete giocato il ruolo della semplice pedina su di una scacchiera non apparecchiata per voi. Fare il dente della ruota è molto più facile e meno sofferto di esserne il mozzo.
Vi invidio, padre, perché mai avete desiderato qualcosa che non fosse stato facile da raggiungere. Sperare, desiderare, pensare di poter raggiungere un miglioramento è cosa crudele.
I miei obiettivi sembravano puri, eppure ora sono qui, alla ricerca di qualcosa che potrebbe portarmi solo gloria ma nessuna pace così come potrebbe accadere il contrario.
Sia maledetto colui che diede la vita all’incertezza…mille e mille volte sia dannato questo mondo così sconclusionato!”
L’estate era ormai non doma a Nosgoth, la neve non flagellava più gli alti picchi ma la stessa cosa non si poteva dire delle piogge che avevano reso il terreno scivoloso e difficile da calpestare.
Quando il dumahim dovette valicare i due costoni di roccia a picco che chiudevano Avernus in uno stretto utero di pietra assassina, aveva piovuto da poco e la terra era tutta una fanga.
Le pietre erano lisce e scivolose, nessun appiglio sicuro, tutto incerto, tutto ardente.
Un grosso costone di roccia cedette sotto il pesante stivale di Samah’el e lo trascinò giù con se per una decina di metri buoni prima che gli artigli affondassero nuovamente nella carne inorganica della montagna e impedissero al Dumahim di sfracellarsi al suolo.
La testa colma di dubbi non lo aiutava minimamente a superare gli ostacoli, con un po’ più di accortezza avrebbe evitato di scivolare così rovinosamente e sfregiarsi le mani.
Ringhiò al mondo il suo dolore talmente forte che uno stormo di minuti passeri, nascosti nell’erba alta della piana al centro della gola, un po’ per codardia e un po’ per paura d’esser facile preda di civette e falconi, si alzarono in volo e fuggirono via.
Il cielo rispose a quel ruggito di rabbia e piccole gocce cominciarono a scendere.
Lesto il vampiro si mosse, cercando un rifugio opportuno per quella necessità. Non fu facile trovare una soluzione, si vide costretto a scendere quasi di volata gli ultimi venti metri che lo separavano dal suolo.
Saltò giù quando si trovò a un tre metri d’altezza con l’accortezza di cadere su di un cespuglio di piante grasse.
Le gocce cadevano ormai copiose, sembrava stesse venendo giù il diluvio universale. Animali e piante di ogni specie e dimensione vennero flagellate da tutta quell’acqua, capace di dare la vità come toglierla, con altrettanta velocità e facilità.
Dall’interno di un riparo di fortuna, Samah’el potè assistere a quel temporale senza ritegno ne freni.
Seduto, nel silenzio, non si accorse che a poca distanza da lui una piccola volpe fradicia di pioggia aveva avuto la sua stessa idea.
Quando i loro sguardi si incrociarono, nessuno dei due ebbe reazioni, si guardarono per qualche istante prima di tornare ad ignorarsi a vicenda.
Il mezzo sangue si era accovacciato come un bambino sperduto, le ginocchia al torace e le braccia conserte, così stette per un tempo che gli sembrò infinito.
La piccola creatura singhiozzava e starnutiva per il troppo umido subito, nel mentre sembrava pigolare un richiamo diretto ai suoi genitori, persi chissà dove nella pioggia.
Aveva due possibilità; continuare a pregare, chiamare e sperare di venir al fine trovata o accingersi a sfidare la sorte e buttarsi nella pioggia per cercarli lei stessa.
“Non ti invidio...affatto…” sussurrò tra se e se Samah’el che ora osservava quel povero batuffolo di pelo infreddolito.
Il cielo colmo di lacrime smise di piangere solo una volta che fu mezzo dì del giorno dopo, Samah’el si era rintanato nelle profondità della terra per poter dormire. Al suo risveglio, la piccola volpe non c’era più ma non vi erano altre impronte oltre le sue all’imbocco della caverna.
Il dumahim riprese il viaggio, la terra era umida e la foresta era fradicia di limpida acqua piovana. Gli stivali di impermeabile cuoio lavorarono bene ma ogni goccia bruciava le carni di volto e mani di quel vampiro ancora strangolato e indeciso nel da farsi.
Oltre l’orizzonte poté scorgere la fine della Piana del Sangue e la sottostante cittadina di Stahlberg; i terreni della Nemesi erano vicini.
La città era stato il luogo dell’esecuzione di Vorador, molto tempo fa, durante il tempo delle Grandi ere. Il Dumahim non si fermò ad osservarne la bellezza, troppo aveva per la testa e da cercare; di certo non avrebbe trovato la risposta al suo quesito nelle grandi università del luogo.
Il vampiro senza riposo proseguì verso nord, sfamandosi dei viaggiatori che trovava lungo il proprio cammino, senza alcun riguardo per donne o uomini.
Erano pecore oramai, pecore per il lupo che presto avrebbe riacquistato senno o l’avrebbe perso per sempre.
Fu nel folto della boscaglia che qualcosa turbò profondamente lo spirito e il pensiero di Samah’el. Le voci e i dubbi, gli echi e gli stridenti pensieri si azzittirono all’unisono, in una inconsapevole e rapido momento di massima quiete in cui gli fu possibile udire una voce grave, smostrata da orrendi gorgoglii e cori sovrapposte, urlargli nella mente una sola parola;
“Tredicesimo…..”
Samah’el si fermò, atterrito più che mai da quel richiamo così intenso ed autoritario. Si guardò intorno ma non vide nessuno a cui potesse appartenere un simile ragliare. Nessuna creatura umana avrebbe potuto contenere una tale autorità e nessuna creatura su questa terra ne avrebbe avuto la forza;
“Che diavolo…Chi sei! Spirito? Essere Maligno?
Di cosa favelli, non mi nomo in questo modo. Il mio nome è Samah’el Khan, non Tredicesimo!” urlò nella mente di un intruso inesistente, senza ottenere risposta alcuna.
Ancora una volta, la gelida e roca voce urlò nella testa del dumahim, questa volta ancor più veemente, sempre la medesima parola;
“Tredicesimo… Tredicesimo ….Tredicesimo….”
Samah’el si portò le mani alle orecchie e chiuse gli occhi, tentò in tutti i modi di stritolare quel pensiero e impedirne la ricomparsa ma ormai era un incubo martellante, una cacofonia infernale che risonava a circolo continuo nel cerebro del mezzo sangue.
Esausto e ormai arresosi a quel turbinare di voci che sembravano richiamarlo in ogni direzione, Samah’el si lasciò cadere sule ginocchia con le mani ancora alla testa, implorando alla voce di lasciarlo stare;
“Tredicesimo…Tredicesimo….” insisteva senza posa il demoniaco gridare.
Senza potersene capacitare, il corpo di Samah’el reagì a quel nome mutando nella forma di lupo, a lui tanto gradita. La coda frustò violenta contro la terra, le zampe lacerarono e graffiarono aria e polvere. Una fiera impazzita, sia dentro che fuori.
Tutto si fece luce per il dumahim, niente era più dove doveva essere, la terra e il cielo, l’aria e l’acqua, i tronchi degli alberi e le loro cime. Tutto era diventato grottesco e confuso, di color rosso, tutto aveva perso di senso. La natura intorno a se cambiava ad intermittenza in un parossistico attacco psicotropo, solo una cosa era sempre li; la luce.
Il dumahim seguì l’unica cosa che sembrava avere un senso in entrambi i mondi mentre i rami più bassi lo frustavano con violenti colpi ad ogni balzo mal calibrato e le rocce gli ferivano zampe, torace e capo.
Corse, corse a perdifiato finché la luce non lo accecò e lo costrinse a fermare la sua folle corsa.
Quando riaprì gli occhi, Samah’el si trovò coricato su un fianco, a terra, con di nuovo il proprio corpo umano. Strinse le dita sul setto natale per focalizzare nuovamente i propri pensieri e ritrovare coscienza di se ma ciò che vide una volta che i caprini oculi vennero riaperti fu davvero inaspettato.
Fu allora che Samah’el comprese.
Capì il perché Kainh avesse voluto sorvolare su cosa avrebbe trovato in quei territori così cupi ed inospitali. Intese chi fosse la voce che continuava ad urlare quel numero nella sua povera mente; tredicesimo, il suo numero, più volte citato nella lettera della stessa Veive.
Afferrò il come Veive avrebbe fatto per poter mutare un figlio mezzo sangue in un dumahim di razza pura e, per un istante, sorrise nel vedere davanti a se quella prova, l’unico tassello che gli mancava per sbrogliare la matassa dei suoi pensieri e mettere pace nel proprio cuore.
Il vecchio monumento, a lui più amico di qualunque essere organico vivente, il Monolito di pietra lavica, lo stava aspettando.
Nero come la pece ed elegantemente arabescato da striature rosso porpora di un materiale simile al quarzo, lo salutò con un crepitare soffuso e un annichilimento totale di tutti i suoni che lo circondavano.
Le venature vermiglie presero vita e brillarono pulsanti come cuori colmi di sangue d’inferi, correndo incessantemente nello stesso senso di rotazione delle spire rendendo la struttura ancor più slanciata verso l’alto, sembravano essere opera non di mani d’artista ma dello stesso movimento che quel macigno aveva compiuto per emergere dalla terra ed elevarsi al cielo.
Il silenzio regnava in quel luogo pieno di misticismo, un silenzio senza paragoni, irresistibile per chiunque avesse fatto voto di tacere per sempre. Samah’el Khan proseguì affondando nella melma marcia che circondava i Menhir, resa ancor più putrida e meschina dalle frequenti piogge.
Avanzò finché l’ombra del monolito non lo sovrastò completamente, oscurandogli la vista del cielo notturno;
“Tu mi chiamasti, non è vero?
Si, si, so che sei stato tu.
Unica forma di non vita che mi cerca solo per restare con me, nel silenzio. Per poter essere liberato, per potermi dare conforto e forza, senza ricevere niente in cambio.
So cosa sei, so perché ti ergi dalla terra come l’unghia di gatto che trapassa la pelle putrescente di un rancido topo morto.
Tu sei figlio delle silenti salmodie e di mille voti dei Monaci Muti, sei la manifestazione in terra del Demone del Silenzio…eppure…
Ora obbedisci a me e solo a me…
Se potessi rispondere alle mie domande, amico mio immoto, avresti la più soave delle voci.
Resterei eoni ed eoni ad ascoltare come davvero vanno le cose in questo e quel mondo e come poter uscire dal pantano in cui mi trovo…”
Il primo istinto era sempre lo stesso, viscerale e irrazionale; toccalo e prendine l’energia.
Fosse stato più giovane, non se lo sarebbe fatto ripetere due volte ma ora le cose erano cambiate da quella prima volta a Coorhagen.
Samah’el sapeva di più ed ebbe l’accortezza di ritrarre le mani e porsi le domande giuste.
Il mezzo sangue era stato mandato qui per un motivo; riflettere e decidere.
Kainh, nella sua sconfinata saggezza e bonarietà, gli aveva concesso di potersi recare in pellegrinaggio e vedere con i propri occhi cosa Veive gli volesse far fare. Aveva avuto ragione, al fine. Ponendogli una simile ghiotta occasione tra le mani, non aveva minimamente spinto il dumahim a scegliere per l’una o l’altra fazione.
“Assorbire i Menhir per poter diventare puro…ma puro come….e cosa?...
Un figlio di demoni o un dumahim?
Come quei menhir avrebbero potuto contribuire a liberarmi della scheggia d’anima dannata che ora giace come infilzata nel torace di questo mio spirito isolato dalla Ruota? Quale assurda diavoleria aveva in mente la dama dalla notte?
Madre…a che gioco stai giocando …” sussurrò tra se e se Samah’el nel rimirare il Menhir che, indomito e incorruttibile nella sua natura demoniaca, continuava a reclamare il tocco del mezzano.
“Se davvero Veive aveva trovato il modo per potergli donare la purezza dello spirito tanto agognato, come questa poteva essere raggiunta tramite il consumo dei demoniaci menhir?”
Le ruote non ingranavano, messo così non aveva ragione alcuna di dar credito alle parole della madre di sangue. Più ci pensava, più quella storia perdeva di senso.
Era pur vero che non aveva tra le mani le conoscenze di Veive e non poteva capire come le cose potessero essere interconnesse, l’unica cosa che gli venne in mente in quel momento fu il voler sfruttare la scheggia morta dell’anima di Vidarr come canalizzatore per assorbire le energie di quei colossi di pietra…poi, tutto si perdeva nella nebbia.
Certezze o non certezze, Samah’el aveva bisogno di risposte e, finora, l’unico che si era scomodato a fornirgliele era stato il Senza Cuore.
Veive gli aveva messo in testa solo molti fatti compiuti e tante domande ma poche valide risposte.
Era tempo di riscuotere.
Una musica soave dettata da un crudele direttore, richiamava l’attenzione del dumahim ad ogni momento di pausa che si prendeva per ragionare, non riusciva a starne lontano. Ogni volta che si era trovato vicino ad uno di quegli oggetti meravigliosi, aveva gradatamente perso il controllo.
Fissò il possente colosso di pietra per un breve istante fatale, con un solo pensiero nella mente;
“Se davvero c’è una possibilità di poter diventare qualcosa di più di un mezzano senza una vera identità, è mio compito trovarla e confutarla….
Resterò a voi fedele, oh Magister, a voi e alla vostra dottrina…ma questi oggetti sono parte di me e anch’essi mi reclamano a gran voce…
Perdonatemi, Senza Cuore…ma questo è ciò che voglio…
Essere completo, essere un dumahim fedele alla causa…più di ogni altra cosa.”
Samah’el Khan si avvicinò ancora una volta al colosso granitico e lo toccò con una mano.
Ancora una volta percepì quel calore tanto congiunto alla propria anima, le venature del blocco di pietra si infiammarono di energia vorticante, la mano sprofondò nella pietra quasi fosse fatta di piume mentre il cielo sopra di loro vorticava in senso opposto ai due corni di pietra. Poi, improvvisamente, un bagliore purpureo al centro della spirale ruppe le nubi che si era formato, squarciò l’oscurità e cavalcò un fulmine nero che colpì il monolito nel centro del fulcro di rotazione della spirale senza toccare le lingue di pietra che lo racchiudevano come petali di granito. Un suono di smisurata frequenza si levò dalla pietra che sembrava cantare un’omelia di stridii, la pelle ruvida di roccia vulcanica si crepò sulle punte rivelando la sinuosa energia muoversi come lingue di fuoco;
“Giuro sul mio onore che perpetrerò il volere dell’Alleanza, che combatterò per voi, che mai vi tradirò e che per sempre la mia anima dannata sarà al vostro servizio…ma lo farò da dumahim e non da mezzo demone quali sono io ora…
Non può esserci pace ne vanto per un’anima dannata come la mia, senza la speranza di divenire un giorno puro.”
Le lingue di energia cominciarono a girare dirompenti attorno ad un asse unico, il fulmine oscuro caduto dal cielo che sibilava vincolato ormai al fulcro gracchiava e strideva nel tentativo di liberarsi.
Il vorticare delle lingue fiammeggianti era ormai tanto celere da smuovere l’aria tutt’intorno, risucchiandola verso il cielo, bruciando di fuoco infernale tutto ciò che aveva la sfortuna di finire nel fulcro della ruota poi un bagliore accecante si sprigionò dal centro del Menhir e un onda d’urto risucchiò l’aria e i suoni una, due, tre volte prima che tutto si quietasse bruscamente.
Il tempo aveva smesso di avere importanza per pochi istanti poi un rombo di tetro terremoto squarciò la calma come un urlo in chiesa, la struttura cominciò a tremare, le lingue di energia si svincolarono dalla base rocciosa e percorsero al contrario la via che il fulmine aveva intrapreso solo per scaraventarsi nuovamente in terra, colpendo il monolito e fluendo direttamente nel corpo del vampiro.
Le vibrazioni, il rombo e il fragore del tuono coprirono qualsiasi altro rumore intorno alla zona facendolo esplodere in un bagliore accecante l’enorme obelisco di pietra lavica e proiettando il Dumahin diversi metri addietro.
L’onda d’urto lo proiettò all’indietro, la terra cominciò a creparsi e un pesante smottamento spinse giù per una scarpata il corpo ormai senza coscienza di Samah’el che cadde sulla cima di un albero sottostante.
I rami ne attutirono parzialmente la caduta fino a lasciarlo ferito, contuso e svenuto per interminabili momenti sulla umida terra.
Quando finalmente la mente tornò ad appartenere al corpo spezzato e bruciato del dumahim, il cielo aveva ripreso il suo colore naturale e la sua quiete mentre del Menhir non vi era più traccia.
Con estrema fatica, Samah’el tentò di rialzarsi. Aveva riportato gravi ferite da quella rovinosa caduta, una gamba era stata spezzata di netto e più di una costola gli avevano forato gli organi interni, la schiena ustionata dall’umida terra e le mani abrase e colme di vesciche.
Prima di perdere ulteriormente i sensi e finire col lasciarci la pelle, Samah’el smaterializzò il proprio corpo nella speranza di raggiungere un luogo sicuro prima che potesse essere troppo tardi.
I minuti uccelli volarono disperati nei cieli di Nosgoth, puntando dritti all’ultimo luogo nei pensieri del mezzo sangue; la villa sotterranea di Veive.
Quando si riformò sul balcone della magione sotterranea, Samah’el si afflosciò come un sacco di iuta prima ancora di poter essere soccorso dalla dama della notte che tutto si aspettava, tranne quella visita così alacre e sconclusionata.
La voce della madre era lontana, confusa e disperata. Il nulla e il buio coprirono il resto delle percezioni di Samah’el finché non fu capace di risvegliarsi, coperto di bende, in un letto che non gli apparteneva. Al suo fianco, la bella e fatale Veive gli sorrideva con un’espressione incredula sul volto;
“Sei tornato da me, figlio mio…Sia lodata la Ruota…”
Con gentilezza fuori dalle sue corde, la vampira offrì un calice colmo di sangue al figlio il quale ne bevve avidamente il contenuto. Per tre volte Veive dovette ricolmare il calice, tanta era la sete e il bisogno di sangue di quel figlio stremato dal viaggio, dalla pioggia, dalla terra e dai demoni.
Quando finalmente Samah’el fu capace di ragionare senza straparlare in una lingua a lui completamente estranea, le uniche parole che riuscì a proferire furono;
“…Dobbiamo …parlare…madre…”
Con un’autorità sorprendente e colmo di dubbi ma di un numero di certezze ancor più grande, Samah’el pretese che la madre gli svelasse il come aveva intenzione di farlo tornare un dumahim. Veive sule prime non si lasciò estorcere nulla ma fu semplice per Samah’el metterla in modo tale da lasciarla senza nulla con cui lavorare; se avesse fatto di testa sua e si fosse completamente astenuto dall’assorbire i menhir, lei non avrebbe di certo potuto compiere il proprio destino…e tutti sanno quanto un figlio che si incaponisce possa essere difficile da far ragionare.
Veive gli narrò una storia che in parte il mezzo sangue già conosceva. I menhir erano stati forgiati dalle schegge perdute dell’anima del demone del silenzio, il loro potere poteva essere prelevato solo e unicamente dal figlio bastardo, dal Tredicesimo.
Essendo lui l'unico a cui i Menhir rilasciano i propri poteri, Samah’el seppe di essere anche l’unico capace di accumulare abbastanza potere per poter rigenerare al fine la sua anima spezzata e renderlo finalmente puro. La transazione, tuttavia, doveva essere fatta in un modo preciso per evitare che fosse l’anima del demone a prevalere su di lui.
Veive gli narrò dei suoi sforzi nel procurarsi tutto ciò di cui avesse bisogno per portare a termine tale procedura e che si era in parte procurata; un officiante del rito, un filatterio per estrarre l’anima del demone una volta risanata quella del dumahim dentro di se e un catalizzatore, una specie di otre, dove intrappolare per sempre il demone corrotto e distruggerlo una volta per tutte.
Quando al fine la dama dai neri occhi ebbe finito il suo racconto, scrutò lo sguardo del figlio che nel frattempo si era quasi del tutto ripreso;
“Sei soddisfatto?” chiese lei con tono gentile ma con un leggero goccio di rimprovero per non essersi fidato di lei.
Samah’el annuì, ragionando su ciò che ora c’era da fare. Con un gesto del braccio si fece largo tra le coperte per potersi al fine mettere a sedere al fianco della genitrice;
“Perché hai avuto tutti questi dubbi, figlio mio…”
“La lettera…le rivelazioni che mi hai promesso…Sorprendenti…ma da confutare…
Il Magister…non ha gradito…le tue parole…”
Veive sorrise, quasi soddisfatta di quell’affermazione ma ben presto il suo riso si trasformò in un’espressione di confusa indecisione;
“E neanche io…” aggiunse Samah’el con tono fermo, echi di gloriosa autoaffermazione andavano e venivano come marea nella mente di Veive. “Se davvero…dobbiamo essere un Clan…Voglio…che accetti la mia rinascita…nell’Alleanza…”
“Figlio mio…tu stesso hai affermato di voler essere un Dumahim più di ogni altra cosa.”
Samah’el annuì prima di inviare un gelido ma potente messaggio alla madre di sangue, un messaggio che la lasciò basita quanto rattristata nel più profondo del suo animo;
“Si…un Dumahim…dell’Alleanza…e niente più di questo…”
Il silenzio calò tra i due, la vampira era rimasta esterrefatta da una simile presa di posizione. Aveva forse fatto male i propri calcoli? Osservò il figlio nel mentre che si tirava su e la fissava con occhi pieni di sicurezza ma anche di rispetto nei suoi confronti;
“Ho bisogno di sapere…cosa intendi fare al riguardo…
Aiuterai...o fuggirai…?”
Veive gli sorrise e chiuse gli occhi prima di annuire profondamente.
“La mia felicità è la tua, figlio mio…Finché un solo dumahim puro vivrà, noi saremo una Legione.
Che tu voglia ridare lustro al Clan o meno, i tuoi figli saranno Dumahim così come il loro padre ed io sarò fiera di te e del tuo operato…
Giurami solo di essere accorto, figlio mio…
Non è tutto oro ciò che luccica.”
Samah’el si prese un ultimo sorso di quel nettare prezioso prima di andarsene con un devoto inchino pieno di gratitudine. Così come era venuto se ne andò, in una sottile nube di piccoli uccelli dai minuti becchi, volando sicuro e fiero verso la sua vera casa.
Nel silenzio lasciato da quella visita completamente inaspettata, Veive rimase a rimuginare per qualche istante prima di tirare un potente e dannoso pugno al muro con tanta forza da far tremare tutta la camera; il cucciolo aveva preso coscienza di se... un po’ troppa per i suoi gusti.
Aveva peccato di superbia con il vampiro sbagliato e questo aveva rimescolato le carte in tavola.
Sfortunatamente per Samah’el, le carte che componevano il mazzo erano ancora coperte e quelle sarebbero state le più pericolose per lui;
“Kainh…” sibilò a denti la vampira di altra epoca” Questa me la pagherai.
Solo la Ruota sa quante te ne farò passare quando tutta questa storia sarà finita…
Ma si…tienitelo pure quella piccola carogna…Proteggila e giocaci finché potrai…
Alla fine non cambierà nulla. Preparatevi come vi aggrada, ora che sapete come fare per l’estrazione dell’anima, fate pure!
Perpetuate la ricerca per conto vostro… ma alla fine dei giochi, quando l’ultimo menhir dovrà essere assorbito…io sarò li per prendermi ciò che è mio...”
Edited by skulker87 - 24/11/2015, 19:20. -
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Il colosso dumahim fece ritorno alla Cattedrale.
Kainh era fiducioso in questa possibilità e il fato aveva fatto sì che avesse ragione.
"Alla fine sei tornato,mio buon dumahim" disse il Guardiano, rivolgendosi a Samah'el Kahn mentre varcava la soglia della sala del trono.
"La tua...prova....è stata dura....Magister...."
"Me ne rendo conto, Samah'el. ma era necessaria"
"Dopo tutto...avevi ancora dubbi....Senzacuore?" grugnì il mezzodemone
"Si, ed ora devo ammettere che sono stati mitigati, anche se non del tutto"
un altro sbuffo dalle narici del colosso furono la risposta
"Tuttavia, non per niente penso che tu sia un elemento degno della Cattedrale del Sangue. Non nomino Cavalieri così alla leggera, Samah'el Khan"
"Onorato...di questo...magister...."
"Il tuo cammino è ancora lungo , dumahim. Non ho ancora chiaro cosa sta architettando Veive ma lo scopriremo.."
Samah'el Khan
passa di grado : Cavaliere ...
Nel momento in cui il Guardiano lo nominò cavaliere, mezzodemone sentì una nuova forza dentro di lui : il suo nuovo rango, gli aveva infatti fatto assorbire in modo completo il potere del menhir che lo aveva quasi ucciso non molto tempo prima.
Sentiva in lui scorrere una evoluzione di un suo potere.
...e ottiene Stun Liv. 1 : Rectifier. -
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Nera era la notte.
Nera e carica di malinconia, ansia e desolazione, lo stesso sentimento che molte creature a Nosgoth stavano provando, probabilmente.
La notte era sempre portatrice di figure oscure e demoni, fisici o interiori che potevano essere e il senzacuore si faceva spesso accompagnare da questi ultimi, al calare delle tenebre. Sembrava quasi lo prendessero per mano per guidarlo in quel nero oscuro. Il conflitto gli aveva dato anche questo inatteso fardello.
Ossservava dall'alto della Cattedrale del Sangue la terra di fronte a sé, scorgendo gli obelischi in rovina nel deserto dell'Alchimista percependo il male che quella terra sofferto, capendo che non tutto era ancora al suo posto.
In una miriade di pipistrelli neri egli sparì per poi ricomparire nella sala del trono.
Come previsto vi era il cavaliere mezzo dumahim ad aspettarlo, tutto secondo gli ordini che aveva dato ai suoi ghoul.
Senza indugiare troppo nei convenevoli, questa volta andò dritto al sodo.
Samah'el Khan.
Cavaliere
Dove le terre di Nosgoth confinano con quelle dell'Alchimista, oltre le montagne che stanno a Sud-ovest di Willedorf, vi è una verde valle circondata dai monti. Pochi nell'Alleanza l'hanno visitata, ma si sa che ora vi è una città in marchaita dai disordini. O meglio, una città in cui un gruppo di persone crea terrore negli abitanti, rapendo i bambini. Vai e liberala da questo giogo. Ma non è tutto : ho percepito una strana presenza demoniaca attorno alla città, chissà che un mezzo-demone come te possa scoprire di più....
LDR 3. -
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Premessa: la missione è stata svolta in modo peculiare. Non vi anticipo nulla ma prestate attenzione ai dettagli. Sono fondamentale per capire come, dove e, soprattutto, QUANDO questa missione è stata svolta.
Buona lettura ^W^Capitolo 6 -Il Bastione di Uschtenheim
BriefingSPOILER (clicca per visualizzare)Nera era la notte.
Nera e carica di malinconia, ansia e desolazione, lo stesso sentimento che molte creature a Nosgoth stavano provando, probabilmente.
La notte era sempre portatrice di figure oscure e demoni, fisici o interiori che potevano essere e il senzacuore si faceva spesso accompagnare da questi ultimi, al calare delle tenebre. Sembrava quasi lo prendessero per mano per guidarlo in quel nero oscuro. Il conflitto gli aveva dato anche questo inatteso fardello.
Osservava dall'alto della Cattedrale del Sangue la terra di fronte a sé, scorgendo gli obelischi in rovina nel deserto dell'Alchimista percependo il male che quella terra sofferto, capendo che non tutto era ancora al suo posto.
In una miriade di pipistrelli neri egli sparì per poi ricomparire nella sala del trono.
Come previsto vi era il cavaliere mezzo dumahim ad aspettarlo, tutto secondo gli ordini che aveva dato ai suoi ghoul.
Senza indugiare troppo nei convenevoli, questa volta andò dritto al sodo.
Samah'el Khan.
Cavaliere
Dove le terre di Nosgoth confinano con quelle dell'Alchimista, oltre le montagne che stanno a Sud-ovest di Willedorf, vi è una verde valle circondata dai monti. Pochi nell'Alleanza l'hanno visitata, ma si sa che ora vi è una città in marchaita dai disordini. O meglio, una città in cui un gruppo di persone crea terrore negli abitanti, rapendo i bambini. Vai e liberala da questo giogo. Ma non è tutto : ho percepito una strana presenza demoniaca attorno alla città, chissà che un mezzo-demone come te possa scoprire di più....
LDR 3
Parte I - CAOS CALMO
“Notte fredda, austera, quarto di luna.
Giaccio senza forze come un sacco di iuta su delle assi di legno marcio, sanguino copiosamente e non so dove mi trovo.
Non è un gran modo di cominciare la serata, direi.
Le membra assenti, la mente non mi aiuta.
Non riesco a muovermi, il corpo sbraita e scricchiola come un relitto pregno di acqua salmastra.
Dove sono?
Che posto è questo, che diavolo ci faccio qui?
Tento di darmi risposta guardandomi intorno.
La bocca sa di fiele, gli occhi sono appiccicosi, il volto è coperto di viscido liquido nero.
Credo sia sangue ma non riesco a capire se mio o di qualcun’altro.
Mi porto una zampa sul volto, snudo le zanne per il dolore; è mio per certo.
Sento qualcosa che mi cammina addosso, piccolo, inutile e con tante zampe. Con un colpo di coda la scaccio. Svolazza per un po’ per poi posarsi nuovamente su di me, quasi fosse una sfida, un’affermazione di onnipotenza moschina.
Un tafano, parassita da cavallo, che creatura velleitaria.
Paglia, fieno, tafani…campagna, per certo…forse una stalla...o un capanno per gli attrezzi.
Mi volto ma il dolore al fianco limita i miei movimenti. Non riesco ad alzare la testa come vorrei e quel poco che mi è concesso vedere non aiuta affatto, vedo solo mura di legno da cui inpietosi raggi di luna filtrano dalle spesse fessure come anime inquiete.
Sui muri sono appesi forconi, scope e piccozze.
Un’appendi briglia inchiodato ad una piccola colonnina di legno oscilla e cigola come uno spettro. Una borsa portafieno e una vecchia sella mangiata dai topi sono stati abbandonati da molto all'incuria del tempo, giacciono come cadaveri in terra insieme a diversi sacchi di tela e a secchi vuoti.
Tossisco e sputacchio ciuffi di quella che sembra essere biada e grumi di sangue. Mi sento la testa di diverse taglie più grossa.
Sicuramente sono malato o sono stato ferito a morte ma quel peso non è dovuto al dolore; elmo di ferro, maschera, gabbia.
Riflessione effettuata e conclusione raggiunta; il mio corpo mutato in lupo giace immobile sul pavimento legnoso di una cenciosa rimessa, sono ferito in modo decisamente debilitante e non ho idea di come ci sono arrivato.
Non ricordo niente, la fame e l’oscurità mi stanno flagellando i sensi e la memoria.
Devo andarmene, devo nutrirmi.
Costringo me stesso a sopportare il dolore.
Mi alzo sulle possenti zampe, guardo in basso. Segni di trascinamento che decorrono dalla mia posizione fino all'uscita di quella sghemba e cadente costruzione; ch'io mi sia trascinato fin qui?
La risposta viene dal mio stesso corpo.
Faccio un passo, la zampa si torce in modo innaturale.
Cado in terra ringhiando come un animale.
FA MALE! Perché fa così male!?
L’osso della zampa sporge di buoni venti centimetri così come diverse schegge di metallo, legno e ferro escono dal folto pelo, conficcate nella carne come aghi d’istrice.
Quando impatto con il suolo, il fiato mi si spezza come uno ramo secco nel petto.
Sono un fascio di nervi scoperti, percossi con un asse chiodata grondante succo di limone.
La fame è pesante e si fa strada in me come il filo di lama tra carne e pelle di un coniglio scorticato.”
Il monolito di carne e ferro interrompe il suo racconto, la testa chiusa in un elmo completo dalle lunghe corna e dal volto di morte. Le parole sono fredde, grave e oscuro il tono di voce come il mare più profondo.
Magiche rune si illuminano, palpitano come cuori sacrileghi su spalle e scarselle di un’armatura composta di ossa, mani e crani umani; decorazioni ribattute in ferro con maestria, tanto realistiche da sembrare vere. Un’ascia vermiglia sfrigola e stride dietro l’ampia schiena del proprietario, coperta da un folto vello di capro nero.
Quel che doveva essere un vessillo del Clan Dumahim fa sfoggio di se da sotto le scarselle, larghi anelli d’argento pendono sui lembi tenendolo in tensione costante.
Immoto e fiero nella sua potenza, il vampiro siede su di un trono dalla forma a semiluna, scolpita nella pietra e adornata di vetri colorati; un trono realizzato molto tempo prima per il Grande Inquisitore.
Al suo fianco giace un pesante scudo torre che reca il simbolo dell’Alleanza.
Da quella posizione, sembra essere intento nell'osservare un comodo triclinio sul quale giace prona una donna dalla bellezza indiscutibile ma dal viso sfregiato da una cicatrice a forma di croce, con le gambe flesse e le braccia avvolte attorno ad un cuscino.
Lunghi capelli di nera seta dai ramati riflessi, occhi grandi color del ghiaccio, profondi e misteriosi come il Lago dei Morti. La pelle bianco alabastro e le curve di seni e fianchi perfetti sono avvolti da una spessa armatura di cuoio e un lungo manto di pelo d’orso, schinieri e gambali di cuoio color corvo le armano braccia e gambe, un corsetto coperto da un pettorale unito ad una spalliera del medesimo colore e materiale le forniscono protezione preziosa in battaglia per un arciere della sua fatta.
Un arco composito decorato da dorate ali d’angelo è posato al suo fianco; i simboli e le rune incise sul manico tipiche dell’Ordine Saraphan. Due scarificazioni per braccio incise con perizia; il sacro sigillo dei Dumahim.
“Un coniglio scorticato! Che oscenità.” Ripete con voce gutturale ma artefatta la dama mentre sposta il mento sul morbido cuscino, senza mai staccare gli occhi da quel dio della guerra di cui si sta facendo beffe.
“Sai come si scuoia un coniglio?” riprende la voce cavernosa senza fretta ne risentimento per il di lei scimmiottare;
” Io si, ne ho scuoiati molti.
Ci sono due modi per scuoiare un coniglio; con un coltello o a mani nude.
Se hai la fortuna di avere un coltello, il procedimento è facile.
Devi praticare un taglio ad anello attorno a ciascuna zampa del coniglio, proprio sopra la caviglia.
Poi incidi di un lungo taglio che dall'incisione ad anello vada al posteriore del roditore. In seguito, devi tirar via la pelle, lavorando dal taglio ad anello.
Separa la testa dalla spina dorsale, in questo modo la pelle verrà completamente rimossa dal resto della carne.
Come sfilare una mano da un guanto.
Il metodo senza coltello è più difficile, laborioso.
Ci vuole pratica e stomaco ma una volta imparato, puoi spellarci chiunque.
Spezzare, strappare, tirare, torcere e rompere con criterio.
Ora, immagina di essere il coniglio, immagina di essere vivo.”
“Che cosa macabra...” La dama storce il naso prima di posare il capo sul cuscino, gli fa cenno di continuare.
Il gigante prosegue il suo racconto;
“ Il buio mi accoglie tra le sue gelide braccia e il dolore fa perdere i sensi.
L’oscurità è mia amica, lo è sempre stata.
Non fa domande scomode, non chiede chi sei o dove vai, non giudica ne condanna; è imparziale e piacevole, l’oscurità accetta tutti per ciò che sono e li aiuta ad esprimersi senza che altri sappiano.
Quella notte, l’oscurità mi fece uno scherzo crudele; entrò nella mia mente, confuse i miei pensieri, si sovrappose al mio volere e soffocò la mia coscienza fino a farmi perdere il senso del tempo e dello spazio.
Il giorno passa, io dormo, soffro nei miei sogni. La rimessa è un posto sicuro e il sole non brucia le mie carni.
Sento voci, piccole voci nel torpore del mio essere. Voci di bambina, lontane, preoccupate, dolci.
L’assenza di controllo delle membra rende il tutto angustiante.
Mi sento vulnerabile, sono vulnerabile.
Umido sotto di me, odore acre, odore di sangue.
Cola lungo tutto il corpo ad ogni scheggia estratta dalle abili mani, ad ogni osso fatto rientrare.
Morbido candido lino avvolge le zampe, il torace e ogni punto da cui sgorgava sangue o spuntavano ossa non al proprio posto.
Non sento dolore, eppure sono terrorizzato. Perdo i sensi con un volto sfocato negli occhi.
Occhi ghiaccio, voce sottile.
“Starai bene…” dice lei.
Poi, il buio."
Parte II- IL DORMIENTE
"Notte calma, silenziosa, stranamente fresca.
Guardo fuori da un pertugio, luna crescente.
Due settimane trascorse nel limbo di una lenta rigenerazione senza coscienza.
Notti di sonno, torpore, stasi.
Non avevo mai dormito così a lungo, forse il mio essere vampiro ha fatto economia, non potendosi permettere di tenermi sveglio per più di un giorno in quelle condizioni.
Il corpo è ancora offeso ma le bende hanno trattenuto il prezioso liquido vitale nel mio morto corpo.
Rigenerato per metà, resta la fame.
Sangue, fame, ho bisogno di nutrimento.
Le orecchie si muovono, seguono il suono di piccoli passi.
Le porte si aprono, il fresco estivo entra nella rimessa e porta con se l’odore di erba nuova e sangue caldo.
Una donna in miniatura mi guarda. È così piccola da sembrare un giocattolo, ha gli occhi color del cielo e la pelle di latte, capelli marroni e viso da birbante, veste luridi stracci da campagnola.
Resto fermo sdraiato sul ventre, incapace di muovermi ma tanto, TANTO affamato.
Piccola femmina, mi guardi, sorridi, mi porgi una ciotola piena di pulcini morti.
Non credo abbia idea di chi si trova davanti.
Cosa pensa di fare con quel mucchio di piccole vite spezzate?
Ruggisco, mi agito.
Va via, scapa!
Lei non capisce. Insiste a volermi porgere quel piatto di scriccioli morti.
“Sei sveglio! Era ora. Ho avuto paura che non ce la facessi. Hai fame?” la sua voce è minuta, tanto quanto lei. Non pensavo potessero esistere creature così piccole e fragili in questo mondo.
Fiuto, l’odore del sangue di pollame, disgustoso, orridi implumi spennacchiati nella pozza di plasma che lecco con la ruvida lingua…disgustoso.
Mi dà forza, non molta.
Riapre lo stomaco.
Ho ancora più fame.
Inarco la schiena, tento di alzarmi, la ferita sulla zampa è profonda.
Lei sorride ma presto capisce le mie intenzioni.
Ho fame…e lei sembra così buona…
Disgusto per me stesso, i bambini sono puri. Incontaminati.
Sfregiarli, offenderli, punirli, ucciderli è un insulto a tutti gli Dei.
Non voglio aver fame, non adesso, non voglio farle del male ma se continuo così non avrò scelta.
Mastico istericamente la saliva incrostata di sangue, ormai le sono vicino.
Sono enorme in confronto a lei, così piccola, così facile da spezzare.
Le zampe cedono, la Ruota sia lodata!
Cado rovinosamente al suolo, le costole dolgono, grugnisco e guaisco come un cucciolo in un sacco percosso da un bastone.
Lei non vede la mia umiliazione, la mia fame.
Mi si fa più vicina.
Sei forse stolta, femmina? Vattene, sciocca bambina! Corri! Scappa!
Ho fame!
La mia voce non le giunge.
Perché non la senti!? Perché non mi senti!? Vattene. Te lo ordino!
Non mi sente…A stento riesco a sentire me stesso.
Eccolo… Arriva…
Si fa strada come una vipera nel sottobosco.
Il Dormiente, così la chiamo, si fa sentire ad ogni fitta di stomaco, ogni crampo, ogni dolore.
Sento il furore di secoli e secoli di caccia bruciare nel mio sangue.
La fame…Il Dormiente, non ha freni.
Il sangue lo nutre, il sangue è ciò che vuole.
Confonde i miei pensieri, mi rende violento, inarrestabile, senza rimorsi.
Il Dormiente ferì la Dama Blu, il Dormiente stava per ferire anche la piccola donna.
Quando Il Dormiente ha fame, non guarda in faccia a nessuno.
Quel curioso cucciolo di mortale si fa sempre più vicino, ne sento l’odore.
Avrà si e no sei anni e qualche mese, puzza ancora di latte e trastulli infantili.
Mi accarezza la schiena come fossi un cagnolino.
Mi viene naturale tirarmi indietro, mordo l’aria e latro come un coiote.
“Stai calmo…non voglio farti male e tu non me ne farai perché sei un bravo lupo…non è vero?”
Mi sorride mentre parla con una tale innocenza da lasciarmi senza forze.
Ci riprova, per quale dannato motivo vuole per forza toccarmi!
STAI LONTANA, VATTENE!
Non riesco a tenermi, provo a morderla. Reagisco male, la scanso con un brusco movimento della testa. Ringhio, sbavo, ho sempre più fame.
Lei si fa indietro, ha paura.
Si, Si! Paura, Devi averne! Vattene! Sei troppo piccola per essere uccisa.
VATTENE!
Finalmente, mi ha capito.
Scappa di corsa chiudendo la porta dietro di se. Scappa, terrorizzata dal mio essere un animale, un cacciatore.
Mugugno trionfante, mi è costata cara ma ti ho fermato, Dormiente.
Non te lo avrei mai permesso.
Non me lo sarei mai perdonato.
Sono solo, grazie ai Nove.
Sono solo e tento il tutto per tutto per capire come sono finito in questa situazione. Intorno a me ci sono segni di trascinamento che vanno dall’ingresso e fino dove sono io.
Mi ha portato lei qui…Perché?
Quando la fame smette di occludermi la ragione i ricordi si fanno strada nella mia mente.
Piano piano, come un ladro nell’ombra, ricostruisco gran parte delle notti passate ma sono immagini sfumate e asincrone.
I ricordi sono sfocati, confusi…Ricordo il viaggio, il Magister mi aveva assegnato un compito.
Riguardava dei bambini, dei rapitori…
Ricordo gli aspri monti e le vette inaccessibili che celavano la corruzione di Nosgoth e l’odio verso l’innocenza di alcuni fanatici di un culto osceno…
I loro volti passano come maschere senza senso davanti ai miei occhi, gli occhi delle persone a cui ho stroncato la vita mi fissano nell’ombra in un tripudio di rabbia, paura, furia e disprezzo per coloro che nuocciono agli esseri puri.
Ovunque, sento l’odore di sangue e rena.
La testa mi duole, troppo sconvolta ancora per concentrarsi su simili ricordi, d’improvviso un pensiero cheta il mio spirito contorto, una presenza a me gradita sopra ogni altra, al pari della pace che la Cattedrale del Sangue riesce a donarmi…il Menhir demoniaco…
Sulle prime non ricordo se era lì o meno, il bisogno atavico che ho di star vicino a quel mostro è sempre vivida e presente nei miei pensieri.
Li per lì non mi fidai di credere a quella presenza granitica come segno di veridicità dell‘esperienza rievocata.
Ricordo di averlo trovato, sotto la guida del suo richiamo intossicante, immobile e fiero nella sua attesa.
Ho dovuto scalare parecchio per raggiungerlo…
Credo di essermi rotto il braccio. Pietra friabile, devo aver messo un piede in fallo e la roccia non ha retto il mio peso…
Questo però non spiega perché ho tutte queste altre ferite…e le frecce.
Inoltre non ricordo di aver cambiato forma…No, ero io quando il Monolito mi ha concesso la sua preziosa energia…Ero io quando ho massacrato le guardie dei recinti.
La testa mi duole, non riesco a ricordare oltre.
Gli occhi si chiudono.
Collasso."
Parte III-SOGNI
"La notte dopo, sono ben sveglio.
Al mio fianco c’è una ciotolina ricolma di quei dannati pulcini. La piccola deve essere entrata mentre era ancora giorno.
Mi sembra scortese rifiutare un pasto offerto…
Dopo tutto, li ha sgozzati per me….
La memoria non torna, sono ancora troppo confuso e non riesco a pensare ad altro che a nutrirmi.
Passano i minuti ma della piccola non si vede neanche l’ombra.
Bene, non voglio che mi giri intorno…
Meglio aspettarla, non vorrei che mi si avvicinasse di soppiatto e tentasse nuovamente di mettermi quelle mani appiccicaticce addosso.
Aspetto...
Aspetto...
Aspetto…
Ma dove sei?
Dopo qualche minuto sento il suono di piccoli passi.
Alzo il muso e la vedo, torna da me con un’ampia bacinella.
Sangue freddo, di belva.
Tanto sangue.
“Abbiamo avuto una Primavera molto fredda quest’anno…qui si fa il sanguinaccio d’inverno e questo è avanzato … So che non è buono come un bel cosciotto di agnello ma non posso prenderlo o mia madre si arrabbierà! ”
Mi ci lancio con tanta foga da farmi male a schiena e zampe.
Sangue freddo, orrendo, disgustoso, nutriente.
La ruvida lingua se ne nutre come se fosse stato il più prelibato tra i nettari divini.
Un’orrida viscida schifezza di prima classe…deliziosa!
Sento i suoi occhi su di me mentre mi sazio di quella leccornia.
Sono gioiosi, incuriositi, mi mettono a disagio;
“Non sei poi così grande…mi sei sembrato moooolto più gigante la prima volta…”
Allunga una mano per toccarmi la fronte ma gli nego il contatto ritraendo il capo e snudando le zanne.
Orecchie base, il sangue gronda dal mio feroce muso di canide.
Stai indietro. Non ti avvicinare…
Quel dono è prezioso ma non mi basta.
Lei insiste nel fissarmi con quei grandi occhi, troppo colmi di innocenza per essere offesi.
La fame persiste ma il Dormiente è meno potente, mi permette di agire ed evitarle dolore inutile.
La vedo triste, offesa, il mio comportamento la turba e la affligge.
Non mi tange minimamente, non sono affari miei, te la sei cercata!
Non si infastidisce il cane che mangia…
…
…
…
Quegli occhi…
Che senso di colpa che riescono a farti provare, quei dannati occhi …
Striscio sul ventre, la raggiungo, le dono ciò che voleva da me leccandole la mano.
Senza che mi renda conto di nulla, le dita in miniatura migrano sull’elmo alla ricerca del mio volto;
“Che brutta museruola che hai…Te l’hanno messa perché sei cattivo? Stupidi, sono tutti stupidi. L’ho capito subito, sai? Tu non sei cattivo.
Fai il cattivo perché hai paura, come me. Anche la mia mamma dice che sono cattiva ma non è vero....Non mi piacciono le more, mi fanno schifo e non le voglio mangiare!...Non vuol dire essere cattivi se non vuoi fare qualcosa che non ti piace, vero?”
Le more fanno schifo,assolutamente corretto ma per quanto riguarda la paura...
Paura! Di te?
AH! Questa è buona.
IO che ho PAURA di te? Di una bambina?
Ma per favore…
La piccola mano striscia, ruggisco gradatamente.
La sento mentre si infila nel folto pelo di canide che mi cresce ispido dalla base della testa fino alla coda.
È calda, è gentile…La fame sparisce definitivamente per qualche istante.
Conforto puro, incontaminato sostegno.
È piacevole…
Credo di stare scodinzolando debolmente perché la sento ridere.
Mi prende la testa tra le braccia e la stringe come fossi stato un pupazzo imbottito di cotone;
“Va tutto bene…Non sei più in pericolo, Vigo. Non ti picchieranno più.”
Vigo? Chi arcidiavolo è Vigo? Non mi chiamo Vigo.
Che razza di nome è?…”
“Vigo è un bel nome a parere mio” Sottolinea la donna con un dolce sorriso sulle labbra.
La risposta del vampiro è gelida;
“…Vallo a dire a Vigo….
"Le braccine sottili si avvolgono intorno al mio collo, calde e piene d’amore.
Mi forzo al non reagire, non voglio spaventarla.
Di solito non amo essere toccato perché so quanto può essere piacevole e liberatorio.
Avere qualcuno vicino è una cosa preziosa…Bellissima…
Tradurre i propri sentimenti più puri e delicati con un gesto fisico che ne riflette la gentilezza e l’amore…
Una carezza, un abbraccio, un bacio…
Nessuno dotato di intelletto si tira indietro quando vuole supporto e io ne ho sempre avuto bisogno.
La prima volta che ho abbracciato volontariamente qualcuno capace di provare affetto per me è stato molto tempo fa.
Ero vivo e anche lei lo era.
Una ragazza mi aveva avvicinato, aveva parlato con me…Una delle poche capaci di parlarmi senza retrocedere inorridita…
Una notte nel mentre che mi narrava di cosa gli fosse successo il giorno prima, posò la sua testa sulla mia spalla e mi sorrise…
Ero felice oltre misura…
Poi, sentii un suono di fili recisi, mi tagliò una ciocca di capelli e scappò via esultando e correndo verso la foresta, lasciandomi solo e confuso.
La seguii facendo attenzione a non essere visto e la vidi tornare da un gruppo di ragazzi della sua stessa età che si fecero a cerchio intorno a lei, congratulandosi per il coraggio dimostrato.
Una sfida vinta, una scommessa fatta con i suoi amici.
Questo ero e sarei sempre stato.
Una scommessa…Una prova di coraggio…Un gioco…
Da allora non riesco più sfiorare qualcuno o a farmi toccare senza sentirmi profondamente nauseato.
Se posso, evito. Se devo, mi sento male…ma lo faccio.
Adoro le armature, con un’armatura indosso non senti niente se non il freddo metallo e la sterile pressione del cuoio. Aiuta parecchio.
Subisco adirato quel gesto d’affetto.
Stringo gli occhi e sedo me stesso quando mi rendo conto che non ce ne è alcun bisogno. In quell’abbraccio mi perdo completamente, mi sento bene. Non riesco a credere come una cosetta così piccola riesca a farmi sentire così protetto. Erano anni che non andava così bene per me.
Aveva detto il vero, era stata sincera. Ha mantenuto la promessa. Va tutto bene.
Abbasso le orecchie, le pungolo la spalla con il muso, la lingua dentata guizza e le umetta la guancia, senza ferirla.
Lei ride, mette le piccole mani sulla scatola di metallo che ho al posto della testa. Ride, gioisce, cerca di spostarmi ma io non mollo.
La piccola ha un bel suono quando ride, come un piccolo campanellino tintinnante.
Stringe forte, mi abbraccia come se avessi fatto qualcosa di davvero molto molto importante per lei, poi si alza e se ne va sorridendomi e lasciandomi solo con in testa mille domande.
Dove vai?...Che ho fatto?
Cosa diavolo è successo prima di quel momento!
Stritolo le meningi forzandomi a ricordare…mi concentro sul dolore, sulla fame.
Vedo…
Odo dei colpi, ritmici e deboli, colpi di metallo su roccia dura e impietosa. Morsi di picconi imbracciati da mani troppo piccole per lavorare, volti sporchi di minatori dagli occhi pieni di lacrime, cataste di piccole morti in una fossa comune dove soldati senza scrupoli gettano calce viva…
Sento, denti di una bocca zannuta di metallo, bocca d’orso impietoso che emerge dalla terra e straziano le mie carni.
Devo aver disturbato il sonno di quel mostro terrestre, freddo, metallico…
…Ricordo ciò che successe prima.
Ricordo, il dolore mi schianta le ossa della zampa.
Una tagliola…
Ero acquattato nei cespugli per qualche motivo…Anche in quel momento avevo fame ma non ero un lupo…
Niente, non riesco a ricordare oltre…Forse con il tempo migliorerà, per adesso mi conviene aspettare e riposare.
Appoggio il muso sul pagliericcio e soffio aria dal naso canino.
Chiudo gli occhi, il dolore è di molto minore rispetto agli altri giorni.
Mi concede di dormire, mi concede di sognare e nel tripudio di immagini e incubi a cui sono avvezzo c’è lei, la mia Guardiana che veglia sorridente su di me."
PARTE IV - RISVEGLI
"La notte dopo, mi sveglio rinvigorito e forte.
Riesco a tenermi in piedi su tutte e quattro le zampe senza cadere, ne sono esaltato.
Cammino, pochi passi prima di dovermi sedere.
Presto starò bene, presto andrò via, tornerò alla Cattedrale e mi lascerò dietro le spalle tutto questo dolore…
Gli occhi fissi sulle porte della rimessa, la piccola non è ancora arrivata ma la ciotola di sangue è li per me che mi aspetta.
Che amore di bambina…
Qualcosa ci galleggia dentro, sembra essere…Ma che diavolo…Riso?
Oh, per la miseria!! Mi crede un dannato cucciolo!...
Non credo abbia la minima idea di chi o cosa io sia…
Tanto meglio.
Se sapesse che cosa sono per davvero, scapperebbe…
E poi mi sono arrangiato con molto meno in passato.
I pensieri stridono nel cranio mentre faccio un gran caos per nutrirmi di quel sangue ricco di amido ma alla fine lo finisco senza mandar giù neanche un chicco di riso.
La piccola dama abita i miei pensieri.
Non ha nulla di normale.
Non ha molto senso che mi sorrida e non abbia paura, neanche quando tento di morderla o ferirla.
Lei non ha paura...
Sarà matta.
…
Mi sento meglio nel pensarci.
Il pensiero che possa essere offesa da un qualsiasi mio comportamento mi fa bruciare gola e torace
…Strano.
Le orecchie da canide si muovono come impazzite sulla testa.
Quando apre le porte mi trova in piedi, forte sulle zampe. Mi sorride e mi viene istintivo avvicinarmi a lei…
Avvicinarsi istintivamente…Sempre più strano.
Ha con se dell’altro sangue in una larga ciotola, sembra essere entusiasta e io con lei;
“Sono felice di vederti in piedi, Vigo. Tieni, te ne ho portato un altro po’. So che ti piace molto. Ci ho messo un po’ di carne e riso. Tranquillo, è tutto crudo, come piace a te”
Le orecchie pelose si afflosciano sul cranio, mugolo tristemente…
Sangue e riso…Che schifo…
Lascio perdere la carne e il riso. Lei si arrabbia molto, mi tratta come un cane cattivo.
“Ehy, guarda che non puoi mangiare solo quello che piace a te! La mamma mi dice sempre che bisogna mangiare tutto...more comprese...bleah!”
Sbuffo aria dal naso, le scompiglio i capelli.
Continuo a mangiare mentre lei mi accarezza la schiena.
Il corpo si riprende, mi sento vicino alla perfezione.
Ci ho messo quasi un mese per riprendermi e insieme alla salute mi tornano anche i ricordi.
soundtrack (si consiglia di mettere in pausa la traccia audio prima e lasciar andare questa fino alla fine del ricordo)
Il Magister mi aveva richiamato a se per affidarmi un compito semplice; riportare ordine nel caos di Nosgoth.
Sul dove era stato imprecisato ma il motivo di tale missione mi era stato caro fin dal principio.
Rapitori di bambini, corruttori di esseri puri.
Non sopporto che si torca anche solo un capello ad un essere tanto piccolo ed indifeso, il solo pensiero mi accende di rabbia senza controllo.
Mi ripromisi di massacrare tutti i responsabili, chiunque fosse stato causa di sofferenza per i loro piccoli cuori avrebbe pagato con la vita il prezzo di tale nefandezza.
Nessuno sarebbe sopravvissuto alla mia ira.
Mi lanciai alla ricerca dei sequestratori spingendomi ben oltre i limiti della regione. Ero diventato ormai avvezzo a rintracciare i mortali, ovunque si fossero cacciati. Avevo avuto parecchie esperienze positive in tal senso e non ebbi difficoltà ad estorcere le giuste informazioni alle giuste persone .
L’anima del mastino e la costanza della pietra, le mie ricerche andarono a buon fine ma fu solo grazie ad un mercante di gioielli a cui ho staccato ambo le mani che venni a sapere di un villaggio di minatori sulle pendici dei monti che stritolano la valle dell’Alchimista, poco più a est di dove il Magister mi aveva indirizzato; il paese di Osnabrück.
A quanto pareva, il paesino aveva molto a che fare con la storica capitale, metà dei materiali per fabbri e gioiellieri di Willendorf proveniva da quella sconosciuta cittadina di divoratori di pietra.
Li per li non capii come un tale esempio di terra sperduta potesse competere con le ricchezze delle miniere provinciali.
Giunto al fine a Osnabrück trovai il paese completamente deserto, eppure l’ora non era tarda. Pensai ironicamente che fossero dei mattinieri e che il far tardi in gozzoviglie e birichinate notturne non fosse in uso in tale luogo ma ben presto seppi il vero perché di quel silenzio.
Con il volto coperto e le armi ben celate mi diressi verso una locanda apparentemente vuota ma dalla porta ancora aperta.
All’interno vidi alcuni uomini accovacciati su di un folle ghignante che li esortava a cavargli il diavolo dalle cervella con un cavatappi.
Li osservai senza capire il perché di un tale comportamento ma l’unica cosa che riuscii a capire di quei mortali fu che erano davvero senza senno.
Quando finirono di infilare il cavatappi nelle orbite del folle che rideva istericamente nel farsi torturare, il gruppetto si dispose come uno branco di pecore decerebrate, senza apparente ordine, per riprendere le loro attività da pazzi senza speranza.
Alcuni sembravano pronti a strapparsi la pelle con le unghie delle mani e con i denti, urlando in preda al dolore causato da invisibili ratti sottocutanei, altri erano completamente catatonici, alcuni li vidi parlare con cento persone contemporaneamente anche se non avevano nessuno intorno a se.
Lentamente retrocedetti fino ad uscire da quella casa di matti e mi diressi altrove, lievemente sconvolto dopo quella visione anche se il resto di Osnabrück non smise di sorprendermi neanche un istante.
Donne, uomini, vecchi e giovani, contadini e mercanti, fabbri e minatori, fornai e viaggiatori, tutti lasciati in un delirio oscuro in preda a chissà quali voci infide e blasfeme che ne avevano risucchiato il raziocinio, rendendo l’intera cittadina di provincia un enorme manicomio.
La cosa che mi fece più strano fu il constatare che non c’erano bambini; tutte le piccole animelle gentili non sviluppate erano sparite.
Il tempo che passai lì mi procurò parecchi disagi tra cui pesanti vorticare di testa, confusione, attacchi in massa di matti e più mi intrattenevo in quel mondo di folli più sentivo in me il vorticare vermiglio di immagini ultra dimensionali e visioni d’iperboreo demoniaco che caratterizzavano i miei deliri.
La sensazione di spostamento e malessere aumentavano nei pressi di alcune cave crollate e dei piani riabbassati delle case in cui feci le mie ricerche, come se il male provenisse dalle viscere della terra e che amplificasse il suo potere sempre più con il passare del tempo. Lo stato di confusione che provai in quelle zone non mi era estraneo ma familiare, simile a quello che percepii nei pressi dei territori della Nemesi.
Quella considerazione mi chiarì molte cose e decisi di buttarmi di corsa verso l’origine di tale sensazione.
Come un padre generoso che riaccoglie suo figlio tra le braccia dopo anni di assenza, Il Menhir di mio Padre era lì, puro e immacolato nella sua corruzione, che mi attendeva.
La base del mostro di pietra sembrava affondare le radici molto in profondità nella terra, non troppo distante dalle cave che i cittadini avevano fatto detonare in preda alla follia e alla disperazione.
Le menti dei mortali non potevano reggere la voce del Dio del silenzio, la vicinanza e le influenze vibranti del Monolito ne aveva infettato le menti ma questo non spiegava il perché non ci fossero bambini in giro.
Decisi di rendere la ragione a quei poveri stolti distruggendo la causa di tale male e l’unico modo che conoscevo per farlo era quello di assorbire il potere che il serafino corrotto aveva abbandonato come lascito per suo figlio.
Il totem di pietra color opale si accese di vermiglia forza al mio tocco, concedendomi i suoi doni, sconvolgendo la natura e il paesaggio intorno a se.
La forza del granitico abominio mi scaraventò lontano facendomi carambolare giù per la collina prima di sparire nelle viscere della terra e liberare gli abitanti di Osnabrück dal suo mal recepito bisogno di adoratori.
Constatai, mio malgrado, che più energia assumevo e più le reazioni dei Monoliti si facevano violente ma è cosa nota che il diavolo non si estirpa dalle terra senza sofferenze.
Una curiosa espiazione per la mia natura mezzana, qualcosa che potevo accettare per quanto doloroso e mutilante sarebbe potuto diventare.
Quando rinvenni le rune demoniache, che erano ad uso squarciarmi la pelle come ferite incandescenti, si stavano lentamente richiudendo e svanendo dal mio corpo, concedendomi pace nel momento in cui decisi di rimettermi in cammino.
La città di folli sembrava essersi sedata, gli abitanti erano come caduti in un sonno pesante e presto si sarebbero ripresi. Nel mentre che Osnabrück era ancora assopita nel sonno curativo e nella pace della mente, mi dedicai anima e corpo alla ricerca di notizie, documenti e fatti documentati che potessero descrivere gli avvenimenti passati di quella città caduta in disgrazia.
Frugai tra documenti e transazioni, ricercando la verità ovunque, dalle relazioni delle guardie armate ai libri contabili dei mercanti di seta fino agli uffici di quel che doveva essere una specie di conestabile.
La città di Osnabrück era tornata in auge da un cinquantennio a questa parte, forse in concomitanza con l’ergersi del Monolito nella montagna che sovrastava la vallata. L’attività mineraria aveva ripreso senza sosta, mordendo a scavando, buttando fuori grandi pietre color opale dalle screziature vermiglie tanto apprezzate ma più si addentravano nella montagna e più le cose cominciarono a degenerare.
I primi ad impazzire furono i minatori, resi tanto folli da tagliare la gola ai propri cari durante la notte.
Poi toccò agli operai, ai medici che adoperavano i composti chimici ricavati dalle pietre, come zolfo e mercurio, poi tutto il paese perse il senno.
Dai resoconti dei pochi rimasti vigili fino alla fine si deduceva che la follia era dilagata senza cogliere le giovani menti dei bambini, come se ne fossero stati immuni per qualche ragione.
La popolazione aveva tentato inutilmente di chiedere aiuto alle alte sfere, prendendo accorgimenti sempre più folli per arginare la minaccia, persino il sacrificio umano sembrò essere una buona idea per quei pazzi.
Poi, un giorno di non poche settimane prima del mio arrivo, una carovana di viandanti che aveva chiesto asilo in quei luoghi si ritrovò circondata dai pochi abitanti ancora capaci di parlare in modo sensato.
Li implorarono di portare loro via i piccoli, di tenerli al sicuro, lontani da quel luogo di dissennati che prima o poi li avrebbero uccisi tutti, senza volerlo davvero.
I viandanti obbedirono, presero tutte le creature con ancora del sale in zucca e li portarono via, lontano, lasciando Osnabrück nella follia e nella paura più totale.
Così compresi che i bambini non erano stati rapiti ma salvati, con quell’ultimo folle atto d’amore dei genitori e con la fretta come consigliera mi buttai alla ricerca di quelle povere anime.
Le cercai ovunque, chiedendo a tutti i tagliagole e i saltimbanchi, zingari e mercanti, viaggiatori e raminghi che trovai nella zona ma nessuno sapeva niente.
L’unica a darmi ausilio fu una ragazza di strada di Valeholm che sosteneva di essere stata pagata in cambio dei suoi servigi con un opale venato di rosso cangiante che di recente aveva smesso di brillare, ponendo fine anche ad una sua agitazione immotivata che da giorni ormai le rendeva la vita un inferno.
Seguendo le sue indicazioni, mi ritrovai a dover passare nuovamente per Willendorf, fino a raggiungere le miniere provinciali e fu li che vidi ciò che mi rese al fine cieco di rabbia e disgusto per l’umana natura.
I prodi salvatori di infanti avevano voltato faccia, condannando quelle piccole anime ai lavori forzati in cambio di oro e favori da parte di avidi mercanti e commercianti di vermiglia sabbia per costruzioni.
Le piccole anime erano costrette a lavorare nelle cave di rena rossa senza posa, scelti per le loro piccole dimensioni, l’elasticità e la “praticità” delle loro membra e la totale mancanza di remunerazione dei loro servigi.
Ancora una volta, come successe per la dama blu, sentii il demone nel mio anima.
Il Dormiente si svegliò ma non per fame, non per stanchezza né per uno stato di alterazione non voluta ma per odio, rabbia, furia indescrivibile e inarrestabile.
Parte di me si vergognò di tutta quella violenza, ne fuggì e la rinnegò ma troppa era l’ira e il disgusto provato per tali subumani, tanto brutale che ne venne al fine avvelenata.
Macellai tutti, uno per uno, tutti coloro che non superavano il tredicesimo anno di età vennero trucidati, anche gli adolescenti caporali che frustavano i propri coetanei per un misero tozze di pane in più.
Tutti pagarono. Tutti…
Quella notte il sangue scorrette a fiumi, mescolandosi con il rosso della rena estratta.
Non mi curai dei colpi che mi inflissero le guardie, delle trappole e delle tagliole contro gli animali selvatici che presi in pieno nella mia opera di bonifica della zona.
L’unica cosa che trattenne al fine la mia ira e rimise il Dormiente al proprio posto fu lo sguardo di una fanciulla, troppo stanca, insudiciata e spaventata per fuggire dai ceppi che avevo appena finito di tagliare.
(si consiglia di lasciar terminare la traccia audio del ricordo e riprendere quella precedente dal punto in cui è stata messa in pausa)
Era la più piccola di quella frotta di bambini malnutriti in fuga, aveva gli occhi tanto grandi e profondi da poter racchiudere il mondo degli spiriti per intero.
Quando mi vide ebbe paura di me, si strinse il faccino nelle ginocchia e pianse tanto da muovermi a pietà.
Le mie ferite, la mia stazza e la violenza con cui avevo macellato i suoi carnefici l’avevano terrorizzata.
Insensato e sciocco, come si fa a provare pena e dispiacere per una vittima nel momento in cui se ne uccide il carnefice?
Non capivo il suo pianto, era cosa stupida quanto inutile ma al fine decisi di aiutarla più di quanto avessi fatto con gli altri.
Mutai per lei, per darle qualcun altro, una creatura neutrale su cui fare affidamento; un metalupo imparziale.
Sanguinavo copiosamente ad ogni balzo mentre la riportavo a casa e la piccola stingeva saldamente il mio pelo di creatura notturna senza esser parca di strattoni non graditi. Quando al fine giungemmo a casa sua collassai senza ritegno mentre ancora correvo.
Carambolammo come giocattoli lanciati da bambini capricciosi.
Persi i sensi e lei mi trascinò all’interno della rimessa…
Questo è ciò che ho fatto per lei...Il perché non mi teme ora è chiaro.
Mentre vago ancora nel confuso mondo di ricordi che popolano la mia mente la piccola mi concede il suo ultimo ausilio. Disfa le bende, le ferite sono croste, ancora vivide di vermiglio sangue ormai coagulato.
La fisso, la ringrazio. Mi dice il suo nome; Nimue Uruk’tal.
Nome complesso per una bimba.
Non mi piace.
Lei vuole tenermi con se ma io non appartengo a nessuno.
Devo andar via. Non posso rimanere.
Non insistere, mortale!
Non mi capisce…Mi duole il torace ogni volta che mi guarda con quegli stramaledetti occhi.
Alla fine mi lascia andare, apre entrambe le ante della porta e con un paio di balzi fuggo nuovamente nella foresta.
Torno alla Cattedrale del Sangue, tornato a casa, portando con me un nuovo nome.
Vigo, così mi chiama e mi chiamerà in futuro, quando vorrà giocare a “Presa”, quando mi abbraccerà senza aver paura di chi io sia, quando mi sorriderà perché quella sera sono andato a trovarla prima di andare in missione.
“Non mi lasciare sola, Vigo…Ho paura, di notte ci sono i mostri.” Pigola ogni notte quando vado via.
È vero.
La notte è piena di mostri e io sono il più brutto e cattivo fra loro.
Mi aveva tenuto al sicuro, curato e nutrito fino alla mia totale guarigione.
Sarei morto senza di lei, arso vivo dai raggi solari o, peggio ancora, catturato dai Saraphan e torturato per certo.
Riconoscenza, sarei stato il suo guardiano, la sua fortezza, il suo Bastione.
Nulla le sarebbe mai stato fatto di male, non finché avrei avuto vita nelle viscere.
Una vita per una vita, avrei pagato il mio debito fino alla fine.
Notte dopo notte, la vedo crescere nella grazia e nella gioia.
La madre muore di stenti, lei rimane sola, ora ha undici anni.
Le trovo un luogo dove stare, un posto sicuro, una famiglia di Valeholm che appoggia i Cabal di Trimegistus concede il loro tetto ad una bocca in più da sfamare.
Quella vecchia carogna di Trimegistus me lo deve.
Quella vecchia carogna di Trimegistus accetta la mia richiesta, ridendo come suo solito. Tanto vecchio e venerabile quanto allegro nella sua non vita.
Mirage, la figlia guerriera, mi guarda con occhi strani come se volesse rinfacciarmi qualcosa nel mentre che mi prendo cura di Nim.
Cosa aveva da guardare? Sto solo onorando un patto.
È questa una cosa da rinfacciare?
Mi fastidia sempre con quello sguardo…
Insopportabile femmina.
Voi donne siete il male di questo mondo…”
Con un agile scatto di reni, la donna si tira su e avanza, senza paura, verso quel mastodonte di ferro, sangue e brutalità. Gli si siede in grembo spensierata e con gentilezza sfila l’elmo al Bastione di Uschtenheim, l’unica sulla faccia della terra a poterlo fare senza ricevere in dono dei possenti colpi d’ascia;
“Ah, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.” ride Nimue, adulta, fiorita nella bellezza e nella grazia.
I grandi occhi pieni di presunzione fissano quelli di un Dumahim assai più vecchio e saggio di quello nella storia narrata. Quasi non sembra lui, i capelli sono neri con isole brizzolate su capo e tempie, gli occhi ghiaccio dalle iridi tonde e la sclera giallognola decorano come fari nella notte il volto severo di carnagione verdastra;
“Io ci vedo…benissimo…” dice lui con gelido e impersonale tono di voce
“Tu vedi e ascolti solo me, Vigo, ma sappi che non ti farebbe male tendere orecchio anche ad altre persone, sai?”
La ragazza ride con fare da giovinetta sicura di se non curandosi della risposta del compagno, un grave e prolungato ringhiare di belva assassina.
Posa il capo adorno di capelli mogano sul petto silente e freddo di acciaio del golem di metallo che tanto le concede.
Sembra stanca, l’ora non è poi così tarda ma altri bisogni ne sfiancano il corpo e l’anima ormai, necessità peculiare di energia e giovamento che solo la sua immensa guardia armata può donarle.
Il vampiro lascia che la giovane donna beva il sangue immortale succiandolo da una ferita sul polso auto procuratosi previa morso. Il nero siero vitale è ciò che le rende la vita ancor più longeva, ciò che la rende una Vampire Worshippers: una servente degli immortali.
Il vampiro la tiene a se, lecca la ferita sul polso per poterne rigenerare i tessuti e attende che si addormenti prima di riaccomodarla sul triclinio ove riposerà tutta la notte.
La sua promessa tutt’ora è valida; Il Bastione proteggerà sempre la Dama Sfregiata.
La notte è ormai tarda ma non per il vampiro, pronto per svolgere i suoi obblighi per la Cattedrale del Sangue. Egli ormai non ha più bisogno di dormire da molto molto tempo.
Caldo è il vento della sera e le ceneri della Cittadella svolazzano come lucciole morte nel vento.
I cieli sono limpidi, puri, la luna bacia gli abitanti di quel luogo troppo a lungo sepolti nella cenere del passato.
Il grande vessillo dell’Alleanza svolazza fiero al fianco di quello del Clan di Dumah, mondato dalle sue colpe e tornato in auge.
Edited by skulker87 - 24/11/2015, 19:16. -
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"Hai svolto un importante ed onorevole compito che rende orgoglio all'Alleanza, Samah'el Khan. Che il fato ti guidi sempre verso la saggezza delle tue scelte, così come ti ha guidato in questi giorni"
Parole di orgoglio e fierezza vennero proferite dal Guardiano del Conflitto, mentre il mezzo dumahim entrava nella del Trono.CITAZIONEWho made you God to say
"I'll take your life from you!"
Flash before my eyes
Now it's time to die
Burning in my brain
I can feel the flame
Ride the Lightning
Samah'el Khan ottiene : Evoluzione dell'Energy bolt
LIV 1- RIDE THE LIGHTING
Viene proiettato un proiettile di energia elettrica dalla mano di colui che casta la magia, generando un' esplosione che danneggia il nemico e chi gli stà intorno per un raggio di cinque metri.. -
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Era passato molto tempo dal loro ultimo incontro.
Samah'el Khan aveva più volte chiesto udienza al Senzacuore, e più volte aveva fatto visita alla sala del trono, ma senza trovare nessuno.
Quella volta invece vide sia la sua fedele spia, Varg che lo stesso Kainh al suo posto, stanco.
“Samah'el, benvenuto”
“Manchi da molto tempo...senzacuore...” sussurrò il dumahim senza mezzi termini
“Lo so, e per questo chiedo venia”
“Le mie mani...fremono...”
“Anche questo lo so. Hai avuto pazienza stavolta, più delle altre volte”.
Samah'el Khan
“Questa volta dovrai andare molto lontano.
A sud, al limite più estremo delle terre di Nosgoth vi è una presenza demoniaca, non so se connessa con quei tuoi strani monoliti oppure di una forma di vita degli Inferi.
Ormai sei sufficientemente forte per tentare di affrontarlo, se mai dovessi incontrarne uno, anche se non sono per niente sicuro che tu possa trovare in effetti una qualche creatura del genere.
Segui le scogliere che danno sul grande mare del sud e costeggia le montagne del territori dell'Alchimista. Lì credo tu possa trovare delle risposte, qualsiasi cosa esse siano.”
LDR : ???. -
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Capitolo 7 – Zanne
BriefingSPOILER (clicca per visualizzare)Era passato molto tempo dal loro ultimo incontro.
Samah'el Khan aveva più volte chiesto udienza al Senzacuore, e più volte aveva fatto visita alla sala del trono, ma senza trovare nessuno.
Quella volta invece vide sia la sua fedele spia, Varg che lo stesso Kainh al suo posto, stanco.
“Samah'el, benvenuto”
“Manchi da molto tempo...senzacuore...” sussurrò il dumahim senza mezzi termini
“Lo so, e per questo chiedo venia”
“Le mie mani...fremono...”
“Anche questo lo so. Hai avuto pazienza stavolta, più delle altre volte”.
Samah'el Khan
“Questa volta dovrai andare molto lontano.
A sud, al limite più estremo delle terre di Nosgoth vi è una presenza demoniaca, non so se connessa con quei tuoi strani monoliti oppure di una forma di vita degli Inferi.
Ormai sei sufficientemente forte per tentare di affrontarlo, se mai dovessi incontrarne uno, anche se non sono per niente sicuro che tu possa trovare in effetti una qualche creatura del genere.
Segui le scogliere che danno sul grande mare del sud e costeggia le montagne del territori dell'Alchimista. Lì credo tu possa trovare delle risposte, qualsiasi cosa esse siano.”
LDR : ???
Cuore di Demone- Soundtrack
“Il tuo volere…legge.”
Sussurrò il Bastione di Uschtenheim, come era aduso rispondere al Magister del Sangue.
Un lieve chinar di capo e si mise in moto.
Samah’el si diresse senza far parola con nessuno fuori dalla Cattedrale del sangue.
Nonostante fossero passati mesi dalla sua ultima missione, le ossa uggiolavano ancora di dolore.
Ne aveva date tante ma ne aveva prese ancor di più tra cacciatori, Guardie di Ferro, Sarafan posseduti e carri lanciati in corsa fermati con la sola forza bruta.
L’aria gelida d’impietoso inverno raggelò il fiato ormai freddo del vampiro, concedendogli un glaciale benvenuto. Le stagioni calde erano ormai alle spalle e la buia notte si era fatta terreno di caccia per lupi di montagna e linci fameliche. Durante il periodo invernale le giornate si accorciavano, regalando ore preziose di oscurità ai figli della notte che potevano affrontare le proprie sfide fin dalle primo ombre del pomeriggio.
Era fatto ormai noto che a Nosgoth sono molte le cose che possono strappare la vita ad un uomo ma nulla poteva competere con l’assideramento dei mesi invernali. Gli stessi vampiri venivano ostacolati dal volere prepotente del grande freddo, tra tormente di neve, ghiaccio sottile, valanghe e una temperatura tale da irrigidire anche le carni prive di vita.
Con il vello di nero capro a fargli da caldo riparo, il mezzo sangue si incamminò lasciando dietro di se la sicurezza e l’agio di un luogo che con orgoglio poteva chiamare casa.
Il suo desiderio di stabilirsi nella Città delle ceneri non era ancora svanito, anzi. Ardeva dalla volontà di ristabilirne architettura e nomea ma era anche consapevole che non era ancora giunta l’ora. Troppo giovane, troppo inesperto. Aveva da poco cominciato a delineare la propria volontà e lo sperare di poter creare dal nulla una simile utopia, in pochi anni di vita, era cosa folle.
Le forti gambe lo portarono a Sud, passo dopo passo, verso la meta.
Attraversò la fluviale cittadina di Vasserbunde, non visto costeggiò il Lago dei Morti, proseguendo silenzioso e lesto nella forma canina che lo distingueva ancor di più dai suoi Fratelli.
Il gelido vento notturno schiaffeggiava il muso grottesco del lupo d’inferno con tanta violenza da ostacolarne la vista. Quel diabolico spirare di maestrale, forte e deciso, aveva avuto ragione anche dello stesso vampiro; con un tale vento, mutare in minuti uccelli estivi per velocizzare il viaggio sarebbe stato problematico. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se anche uno di quei minuscoli colibrì andasse perduto nel viaggio e di certo non aveva intenzione di scoprirlo in quella circostanza.
Inoltre, prima di recarsi così lontano da casa, aveva un incombenza di cui occuparsi.
Giunto nelle vicinanze della città di Valeholm, a poca distanza dalle mura di cinta di una villa padronale, la creatura di fulvo pelo cacciò uno sgraziato e tenebroso ululato. Un verso così grottesco da far levare in volo i corvi intenti a banchettare con ciò che rimaneva di un misero raccolto di grano.
Fatto ciò, si sedette e attese, attese, con pazienza, nel silenzio.
Un vestito color del sole svolazzò con molto impaccio attraverso una finestra del primo piano e un corpicino di ragazza di quattordici anni sgusciò dalle ombre di quella che doveva essere camera sua. Vestiva con un cappotto di lana pesante, un paio di muffole e un cappello ben calcato sulla testa. Ad ogni balzo verso il cancello, la neve in terra sembrava scricchiolare di gioia, accompagnando la corsa della piccola come a volerne sostenere il peso. Gli occhi color del cielo scrutarono l’oscurità finché non incontrarono il lupo mostruoso che la stava aspettando. Lesta più che poté, la giovane aprì il cancello e si gettò letteralmente addosso al grottesco essere in un caldo e tenero abbraccio;
“Sei tornato! Sono così felice di vederti, Vigo. Ho così tanto da raccontarti.” rise Nimue con il viso mezzo sepolto dal fulvo manto della bestia.
Il metalupo accolse con piacere quel piccolo gesto d’affetto, stringendo a se la giovane con un lieve e gutturale mugolio. Non poteva andare in missione senza passare da lei, oramai era diventato una specie di rito. Prima di qualsiasi affare, prima di qualsivoglia onere, il dumahim DOVEVA farle visita, doveva saperla al sicuro, in salute e, sopra ogni cosa, non in collera con lui.
Insieme, ogni notte, la ragazza più al sicuro di Nosgoth e la sua guardia del corpo si incontravano al calar del sole per godere l’uno della compagnia dell’altro. La pulzella spensierata sedeva sulla groppa del suo ferale compagno e si beava della calma e dell’armonia che regnava nella notte, raccontandogli cosa gli fosse accaduto nell’arco della giornata, le sue impressioni, le sue insicurezze, i suoi desideri. Nel mentre, la sua cavalcatura osservava ogni ombra, ogni albero, ogni luce. La conduceva in luoghi che lui sapeva sicuri per poi riportarla a casa per un’ora che si conviene ad una signorina.
L’unica cosa che gli premeva più di saperla vicina e sicura era quella di poterci comunicare. Lei non comprendeva le parole celate dietro i suoi guaiti, il Sussurro non poteva giungerle per via della sua natura umana.
Solo un paio di volte la piccola riuscì ad udire qualcosa d’incomprensibile provenire ora da dietro di lei, ora dal davanti ma erano solo accenni, poco più che sospiri. Forse, con il tempo e il crescere del suo potere, il dumahim avrebbe potuto al fine comunicare con lei e spiegargli la sua vera natura.
Mai aveva avuto l’idea di menarsi da lei nelle sue reali spoglie, per paura che la piccola potesse non riconoscerlo e fuggire. Dopotutto, gli si era presentato come un metalupo e come tale lei aveva imparato a fidarsi.
Codardia? Forse ma a Samah’el Khan questo non importava.
Quando fu tempo di riportarla a casa, il gigantesco lupo color ruggine l’accompagnò fino al cancello, si lasciò stringere dalle esili braccia un’ultima volta e poi via, nuovamente verso Sud.
Le fronde degli alberi catturavano il gelido vento, sospingendo la corsa dell’abominio corazzato come fosse stato un aquilone. Tutto ciò che si frapponeva tra il vampiro e la meta veniva o aggirato o abbattuto con violenza, fosse stato questo albero, roccia o brigante delle terre selvagge. La fame non attanagliava più la gola del dumahim ma uno spuntino facile resta un lusso di cui è peccato liberarsi.
Senza prestare alcuna attenzione a chi aggredisse o incontrasse per la via, Samah’el Khan Cavaliere di Ferro aggirò il Grande Lago del Sud per poi proseguire dritto evitando la Fortezza Sarafan; non per timore né per consapevolezza ma solo perché non aveva voglia di perdere tempo con faccende che non lo riguardavano.
Le cose sembravano andare per il meglio finché, una volta dragato il fiume, il metalupo non arrestò il passo così bruscamente che la sua ombra quasi capitombolò oltre, lasciandolo indietro.
L’occhio di brace osservò la natura intorno a se, gli alberi colmi di frutti e fiori erano silenti e contorti, le impronte di lepri e altre bestie da selva si erano fatte sempre più rare e quelle che c’erano sembravano essere state lasciate da zampe mostruose.
Le orecchie coperte di pelo irte sul capo, il passo assai più indeciso e lento, l’incedere del lupo si fece cauto e guardingo.
Zampa dopo zampa procedette finché qualcosa di sospetto non gli fece irrigidire le fauci e snudare le zanne. Non aveva visto che un ombra davanti a se ma gli altri sensi lo stavano più che allertando; qualcuno lo aveva seguito.
Si guardò intorno, fiutò l’aria e diresse le orecchie nella giusta direzione; tre, forse quattro cacciatori, troppo silenziosi per essere umani. Sangue caldo e odore silvestre, lo stavano lentamente accerchiando, forse attratti dall’esoticità delle sembianze acquisite o forse per semplice svago.
Poco importava, avrebbero avuto una brutta sorpresa se avessero perpetuato la caccia.
Il dumahim inumidì le fauci schiumanti sangue e bava nell’attesa di dare una bella lezione a quei poveri stolti quando qualcosa di impalpabile e dannatamente doloroso gli si insinuò tra le ossa.
Come un brivido malarico lo sconvolse dalle viscere fino a piantarsi nel cervello come un ago sotto pelle.
Mille voci urlarono all’unisono, stridenti e gracchianti come unghie su di una lavagna.
La vista si annebbiò, tutto si fece confuso, vorticante di colori d’abisso e spiriti infausti. La sensazione era quella che le antiche pietre d’opale venato di rosso gli rendevano ma questa volta l’effetto era tanto forte da risultare allucinogeno.
Ruggì sofferente, dilaniato dal rimbombare di cori arcaici e sacrileghi provenienti da due Menhir differenti ma distanti parecchie miglia l’uno dall’altro che, al contempo, lo chiamavano verso di se.
Nel mentre che il caos sconvolgeva l’anima del cavaliere, alcuni cacciatori si palesarono dalle ombre della selva; pelle color della pece dipinta con pitture di guerra rosso rena, ornamenti di piume variopinte e pelli d’orso. Corna di animali e maschere rituali rendevano quei cacciatori tanto anomali quanto spaventosi. Vestivano con teli di cotone leggero che dalla spalle si incrociavano sui lombi e un terzo telo a coprire il bacino, il tutto fissato da una cintura di cuoio adorna di ossa d’animale. Una spada corta di materiale verde scintillava come un fulmine ad ogni colpo di luce.
Sarebbero stati innocui se non fesse stato per gli imponenti lupi che fungevano da cavalcature; degli enormi, pesanti e irsuti canidi fuori misura. Erano davvero impressionanti, grandi tanto quanto il vampiro nella sua forma ferale se non di più.
Corsero tutt’intorno alla preda che ora si dimenava e ruggiva come posseduta. Il Bastione di Uschtenheim sbavava e urlava, masticando con ferocia la saliva impastata di sangue, la coda chiodata sbatteva in terra senza sosta e le zampe aggredivano la terra sotto di se.
Dopo essersi parlati in una lingua incomprensibile, i cacciatori strinsero il cerchio. I lupi che cavalcavano percepirono il malessere della fiera, qualcuno indietreggiò, altri avanzarono con le zanne snudate e le orecchie basse.
Samah’el non era più in se, sembrava come perso in un limbo di immagini passate, presenti e future che turbinavano senza ordine davanti a se.
Uno dei cacciatori più esperti si fece avanti con una pesante rete in mano e una lancia nell’altra. Avanzò spavaldo insieme alla sua lupa dal bianco pelo ornato di pitture di guerra. Il ragazzo sapeva cosa fare, lo aveva fatto un centinaio di volte con gli stessi lupi che quella tribù adoperava come cavalcature ma quello non era una creatura terrestre.
Senza il minimo preavviso, il metalupo dell’Alleanza caricò a testa bassa come un rinoceronte impazzito. La lupa lo scavalcò con un agile balzo e il ragazzo fece cadere la rete. Samah’el la tranciò con un morso feroce in fini brandelli per poi attaccare nuovamente, nel mentre che gli altri cacciatori colpivano il bersaglio con aghi intinti di veleni soporiferi.
Lanciarono lazzi e reti ma non fu abbastanza per fermare un dumahim reso pazzo di paura. Le corde si ruppero, le reti non riuscirono a contenere la belva impazzita.
Con un balzo senza senso il mostro di fulvo pelo si schiantò senza coordinazione ne grazia contro la lupa dal bianco pelo, facendo capitombolare il cacciatore e la cavalcatura in terra. Subito il Capo Cacciatore afferrò il braccio del giovane e lo tirò su prima che il mostro gli afferrasse una gamba con un morso. Le due fiere si abbarbicarono in una rissa violenta e selvaggia, ruzzolando in terra, mordendo e scalciando. La bianca lupa era precisa e veloce negli attacchi mentre Samah’el sembrava più intento a colpire le aberrazioni che lo stavano facendo impazzire che curarsi del nemico.
Senza un motivo preciso, il lupo fuorimisura si girò verso il primo che gli capitò e attaccò. Gli altri cacciatori non ebbero tempo di fare nulla, le zampe armate della bestia si piantarono dapprima sul fianco della bestia del Capo Cacciatore e le due file di denti affondarono nella spalla del giovane.
Stretto in quella morsa, forte come una tagliola, il ragazzo venne smembrato e cadde in terra trascinato dal peso del lupo.
La lupa ululò di rabbia per poi balzare sulla schiena del rivale e stritolarne la collottola con un morso feroce. Samah’el si dimenava come un folle, menando morsi a caso e colpendo con la coda puntuta tutto ciò che poteva.
I dardi soporiferi cominciarono lentamente a dare effetto nel mentre che gli altri cacciatori ripetevano le loro azioni in modo sistematico, nel vano tentativo di intrappolare quella specie di abominio.
La lupa, dal canto suo, non aveva alcun desiderio di mollare la presa sulla sua vittima finché anche il Metalupo d’abisso non le afferrò il fianco con un morso pesante. Dall’interno della bocca la lingua puntuta scattava dentro e fuori, scavandone e dilaniando la carne della fiera.
La povera belva guaì in preda ai più lancinanti dolori, tentando inutilmente di evadere da quella ferocia ma nulla poté. Le zampe di Samah’el ne straziarono la carne, ciuffi di pelo e sangue svolazzavano insieme alla neve smossa dal combattimento in una piccola bufera vermiglia.
Le reti, i colpi dei cacciatori e il veleno ebbero la meglio al fine, stremando il Cavaliere di Ferro e soffocandone la volontà fino a fargli perdere i sensi.
Samah’el non aveva avuto modo di capire cosa all’effettivo fosse successo ma, in un ultimo momento di lucidità, riuscì ad assistere al soccorso del ragazzo e della lupa prima di svenire.
Passò molto tempo prima che il Bastione di Uschtenheim riuscisse al fine a rinvenire. Giaceva incatenato ad una parete rocciosa come un animale. Aveva perso le sue sembianze di bestia feroce, non aveva più con se ne scudo ne ascia. Al collo aveva un pesante collare coperto di punte, polsi e gambe erano state assicurate con catene d’ancora al terreno. Intorno a se, il mezzo sangue poté vedere altre fiere feroci, Metalupi intenti a riposare placidamente sui loro giacigli di paglia. Con un ruggito gorgogliante, si rimise in piedi e senza troppa difficoltà spezzò le catene che lo immobilizzavano. Si scrollò di dosso i brandelli di ferro rimastigli incastrati e ridestò le ossa di spalle e collo in una sinfonia di schiocchi. Un lieve ringhiare preannunciò l’estrazione degli artigli del dumahim nell’attimo in cui l’occhio caprino si piantò su di una figura che sembrava averlo osservato tutto il tempo; era il Capo Cacciatore che aveva coordinato la sua cattura.
Prima di commettere un errore fatale, Samah’el lo squadrò attentamente. Non sembrava avere intenzioni bellicose, tantomeno offensive. Lo stava solo guardando, non era armato e portava con se una specie di fagotto dalla forma inconfondibile; Hellgate e Void erano lì dentro per certo.
Il dumahim rinfoderò le unghie e fece qualche cauto passo avanti ma il Capo Cacciatore non sembrò voler reagire.
Il cavaliere sobbalzò lievemente nel momento in cui quella serafica figura gli consegnò gli averi perduti. Lesto come un ladro, Samah’el li riprese con se per poi osservare l’allontanarsi del cacciatore.
L’incontro lo aveva lasciato davvero sorpreso; ricordava tutto ciò che era successo, la battaglia, i cacciatori ma non riuscì a capire il senso di quell’agire. A che scopo farlo prigioniero per poi lasciarlo andare così, senza neanche lottare? Con cautela, si portò fuori dalla caverna e ciò che vide lo lasciò al quanto sorpreso;
Era finito in una specie di accampamento di selvaggi. Un villaggio circolare formato da una cerchia di capanne costruite con rami e foglie ed intonacate, avevano una curiosa forma a igloo, con un solo ingresso e il tetto a cupola. Tutte le strutture erano vicine al bordo interno di una rozza palizzata e lasciavano al centro dell’accampamento un largo spiazzo. Tutto intorno il villaggio era circondato da una siepe spinosa, una specie di difesa contro gli animali feroci ed eventuali nemici. L’ora non era poi così tarda e intorno a dei piccoli fuochi da campo vi erano radunate molte persone, giovani e vecchi, donne e bambini. Sembrava quasi che quella curiosa tribù fosse organizzata in clan, divisi in classi sociali basate sull’età e sul lavoro da essi svolto.
Quando i primi cacciatori scorsero il dumahim fu come se tutta la tribù smettesse di pensare ai fatti propri e si fissassero come un sol uomo su quel deforme straniero.
Mai nella vita Samah’el aveva avuto così tanti occhi fissi e taciturni addosso. Non facevano nient’altro che osservare, senza dire o fare nulla.
Senza soffermarsi troppo sulla cosa, il colosso di verdi carni riprese a camminare restando sempre ben attento. La tribù sembrò accompagnarlo con lo sguardo finché un urlo di rabbia e delle invettive pronunciate in lingua sconosciuta non ruppero il silenzio di quel momento. Un uomo sulla trentina, coperto di scarificazioni e pitture rituali, si scagliò armato di lancia dritto contro il dumahim.
Il Bastione di Uschtenheim sfoderò nuovamente gli artigli e ruggì veementemente, pronto a scatenare l’inferno ma non ebbe tempo di menare alcun colpo che altri due cacciatori placcarono il compagno, buttandolo a terra. Ancora guardingo ripose le proprie armi, senza capire un’accidenti di ciò che stava succedendo finché una voce leggera ma tagliente non lo apostrofò in una lingua a lui comprensibile;
“Non devi temere nulla, straniero…sempre che tu non faccia qualcosa di immotivato e avventato.”
Lo sguardò del dumahim si spostò dal tanghero impazzito al fautore di quelle parole. Era stato lo stesso capo villaggio a interagire con lui.
Il cavaliere dell’Alleanza annuì per poi indicare l’uomo a terra che solo quando ebbe spento i bollenti spiriti venne lasciato andare. Il Capo Cacciatore sospirò dolorante, non tanto per le ferite, quanto per qualcosa di troppo doloroso da guarire;
“Seguimi.” Disse con tono gelido per poi dirigersi verso una tenda più centrale ed adorna delle altre.
Nel mentre che i due si incamminarono gli occhi dei molti avevano smesso di fissarlo e la popolazione era tornata a fare ciò che doveva per il bene della comunità ma non quelli dell’uomo che aveva tentato di aggredirlo. Quando il Capo Cacciatore gli passò accanto, pose una mano sulla spalla scarificata dell’uomo sussurrandogli poche parole in un’altra lingua ma non venero accolte come si aspettava;
“Karakute semaway vempari no te! “sibilò Muata Coda di Serpente per poi folgorare il dumahim con lo sguardo.
Samah’el, dal canto suo, rispose a quella provocazione nell’unico modo che conosceva…con un pesante e improvviso ruggito, snudando le zanne e deformando il volto come una fiera rabbiosa.
L’uomo balzò indietro, terrorizzato lasciando il passo alle due figure. Samah’el gli lanciò un’occhiata di pura alterigia nel mentre che spariva nell’oscurità della tenda.
Volere e Dovere- Soundtrack
L’interno era adorno di ogni genere di trofei di caccia; pellicce, ossa, stole e crani di ogni bestia possibile, anche umani. Dall’alto del soffitto a cupola pendevano strane e inquietanti bambole di pezza con gli occhi adorni di pietre preziose;
“…Muata Coda di Serpente accetta la Parola ma è ancora privo di autocontrollo. Tu non te ne devi preoccupare. Sei silenzioso quanto strano, viaggiatore. Riesci a parlare?”
Samah’el scosse il capo;
“Comprendo.”
Con un grugnito di disappunto, Samah’el strofinò con una mano trifida sia il collo che i polsi.
Il capo villaggio intese, si sedette, sempre con quell’espressione fredda e autoritaria che lo caratterizzava;
“Lo abbiamo fatto perché non facessi del male a nessuno. Sempre incateniamo i Ghiashid, prima e durante il loro viaggio fuori dal corpo degli uomini.”
Samah’el inclinò il capo, vedendo la sua reazione il capo villaggio si schiarì la voce e ripeté il concetto;
“Nella vostra lingua…Le Anime Rosse. Sono spiriti feroci che entrano nella mente delle persone e le fanno diventare abomini impensabili. I fratelli uccidono le proprie sorelle, le madri sbranano i figli quando in loro danzano i Ghiashid…“
Samah’el ruggì impaziente, esprimendosi a gesti fece intendere che voleva saperne di più.
Il Capo Cacciatore levò una mano come a volerlo interrompere;
“Senza fretta, vempari…Avrai ciò che desideri.
Il mio nome è Enapay Corvo Bianco e questa è la mia tribù. Noi abitiamo queste terre fin da quando i grandi Dei dalle ali di tenebra volavano sulle nostre teste come aquile maestose.”
Disse il Capo Cacciatore nel mentre che rimuoveva la maschera di Corvo che aveva indosso posandola su di un mucchio di pelli di rettile e code di volpe.
La seduta era sopraelevata rispetto all’ospite ma l’altezza del Dumahim rendeva quella posizione di potere completamente inutile. Con un gesto imperativo e un ordine pronunciato nella sua lingua, il Capo Cacciatore ordinò che gli venisse portato una larga ciotola di terra e una bacchetta d’osso.
Tutt’intorno alla tenda, nel silenzio più assoluto, donne, uomini e bambini si accalcarono all’entrata per poter vedere cosa stesse succedendo. Il messo ebbe parecchie difficoltà a farsi largo per raggiungere la tenda e consegnare il tutto a Samah’el;
“Dimmi il tuo nome, straniero.”
Il dumahim scrisse il suo nome sulla terra per poi imbracciare lo scudo e battere un pesante pugno sul simbolo dell’Alleanza.
“Sappiamo cosa sei, Samah’el Khan Zanna di Morte.
Tu sei Vempari ….Non morto…Vampiro.
La mia tribù conosce la tua sin dall’alba dei tempi, il simbolo che porti inciso sullo scudo ci è noto. Avete aiutato la mia gente in passato, quando la natura divenne sregolata.”
Samah’el osservava con attenzione e malcelato fastidio ora il Capo Cacciatore ora gli spioni. Quando non ne poté più, si voltò e ruggì a quella frotta di curiosi i quali in primis si allontanarono ma poi, come uccellini sul becchime, si avvicinarono nuovamente. Enapay scosse il capo, serafico come era sempre rimasto, continuò il suo racconto;
“Vi siamo debitori per molte cose e per molte altre voi lo siete ma noi non siamo gente a cui piace accumulare debiti o pagamenti. Entrambi esistiamo da molto tempo e sappiamo cosa celano queste terre, quali intrighi, quali segreti, quali verità. Abbiamo sempre cercato di stare lontani dal mondo, spingendoci fino ai confini della terra stessa ma i nostri oneri ci hanno richiamato qui, ancora una volta.
Una forza oscura sta mietendo vittime senza che nessuno di noi riesca a metterci mano.”
A quelle affermazioni, Samah’el scrisse sulla terra le parole “Anime Rosse” e il vecchio cacciatore annuì;
“Si sono stabilite qui da molte lune e non hanno alcuna voglia di andarsene. Ne hai avuto un assaggio passando per i confini delle nostre terre. Sei fortunato , avresti potuto far del male a chiunque avresti incontrato se non fossimo intervenuti.
Questo è ciò che facciamo: noi cacciamo coloro che vengono risvegliati dalle Anime Rosse, li teniamo chiusi in meditazione nelle grotte dei lupi e poi, così come sono venuti, se ne vanno...”
Nella mente sua, Samah’el aveva già una specie di quadro generale. Anime Rosse, pagliacciate da sciamani, l’unica verità a lui comprensibile era quella di una presenza oscura a lui affine, la stessa che aveva reso pazzi gli abitanti di una cittadina di minatori mesi addietro;
“Il destino ha voluto che per te le cose andassero in maniera diversa, vempari …
Tu sei arrivato fin qui e hai ucciso uno del Popolo durante i tuoi deliri. Muata Coda di Serpente era il padre del ragazzo che le Anime Rosse dentro di te hanno dilaniato. Nessuno ti dà la colpa di ciò che è successo, non fosti tu a vibrare il colpo fatale…”
Istantaneamente, il Cavaliere di ferro si sentì pervaso di vergogna per aver schernito così apertamente un uomo carico di dolore e giusta rabbia. Non sapeva, non poteva sapere ma era cosa non opinabile il fatto che se fosse stato più cauto nelle sue reazioni, un tale atto di cafoneria e offesa poteva essere evitato. Dannò se stesso per quell’alterigia molto poco saggia.
Cupo in volto e serio come mai prima di allora, Enapay continuò il suo sentenziare;
”Eppure…Per quanto tu sia potente e ben accetto nella mia casa…Non posso lasciarti andare senza chiederti un pegno per sedare gli spiriti del Branco che le Anime Rosse da te portate hanno smosso.”
Samah’el snudò le zanne in una salva di schioccanti e ritmati colpi di lingua contro il palato. Quel vecchio gli aveva mentito, non era affatto libero di andare. Che novità era mai quella?
Con una mano levata difronte a se, come a voler sedare l’ira dell’ospite, il Capo Cacciatore continuò a parlare senza paura;
“La tua rabbia è prematura, vempari. Non sei obbligato a fare nulla che tu non senta giusto.
Non sono stato io a scrivere le regole e credimi quando ti dico che mi dispiace che proprio uno della tua razza ci sia andato di mezzo ma così è.
Il Branco deve riprendersi il proprio equilibrio. La mia tribù fonda la sua esistenza su un legame indissolubile tra uomo e belva, una mistica e profonda unione tra singolo e Branco. Questo ci rende forti nella mente e nel cuore, capaci di fronteggiare i più arcigni e ingannevoli avversari.
Condividere tutto per il bene di tutti. Agire, pensare, unirsi, come le dita di una mano.
Solo così possiamo continuare a salvare gli sfortunati che le Anime Rosse flagellano ogni giorno.
Purtroppo per noi, l’equilibrio si è rotto quando Lima Falce di Sole, il cavaliere di Tork, la lupa bianca, è passato a migliore esistenza.
Noi tutti lo abbiamo accettato, lo stesso Muata Coda di Serpente ne è consapevole, per quanto pervaso dal cordoglio…Il vero problema è la lupa.
Il suo dolore è tanto profondo quanto indomabile, lei è il nervo che è stato reciso, il tendine che ha reso debole la mano e mina l’equilibrio che tiene insieme il mio Popolo…e quell’equilibrio va ristabilito. ”
Con la rabbia negli occhi, il colosso di verdi carni scrisse poche parole sdegnose che ipotizzavano un suo rifiuto a questa usanza senza senso per lui. Il Capo Cacciatore fece il semplice gesto, ad indicare i trofei dietro di se;
“Condanneresti un popolo intero, gettandolo nella rabbia e nella sregolatezza. I lupi vagherebbero in preda al dolore e alla furia assassina, caciando e sbranando senza posa tutto ciò che troveranno sul loro cammino. Torneranno ad essere belve infettate dalla corruzione di Nosgoth.
Per te non significa nulla ma per noi questo è tutto.”
Con occhi colmi di riottoso disprezzo, Samah’el si alzò in piedi. Non aveva alcuna voglia di piegarsi a quelle assurde volontà che non gli appartenevano.
Era pronto a fare un massacro di tutti coloro che gli avrebbero impedito il passo se non fosse stato per una fastidiosa sensazione di colpevolezza. Il capo aveva ragione, nel suo irrazionale e impersonale atto di furia aveva nuociuto ad altri in modo brutale e violento e ora rischiava di mettere la parola fine a numerose esistenze solo e unicamente perché avevano avuto la sfortuna di incontrarlo.
Li per lì, provò a elaborare il pensiero alla rovescia; come avrebbe agito se qualcun altro gli avesse fatto la stessa cosa con un Fratello, o peggio, con la stessa Nim?
Non sarebbe di certo stato così calmo, serafico e politico nella propria reazione…anzi.
Riprese la calma sotto braccio e si sedette nuovamente, realizzando solo in quel momento che la folla curiosa aveva ceduto il passo ad una frotta di cacciatori. Si erano posizionati lì vicino, pronti a sparare dardi avvelenati nel momento stesso in cui le cose avevano cominciato a farsi complicate.
Con un respiro profondo e carico di acredine, il Bastione di Uschtenheim acconsentì alla richiesta del Capo Cacciatore il quale si tagliò una mano con un piccolo coltello da tasca e strinse quella dell’ospite per suggellare una promessa più che sentita;
“Nulla ti sarà fatto in più rispetto a ciò che tu stesso hai causato. Alla fine di tutto, sarai libero di andare e le nostre strade non si incroceranno mai più… A meno che tu non voglia il contrario.”
Come fossero giunti tempi di un gran cambiamento, il Capo Cacciatore uscì dalla tenda, accompagnato dall’ospite. Alzando le mani verso il cielo apostrofò il Popolo annunciando a tutti il risultato di quella transazione. Il capo non ebbe il tempo di finire la frase che Muata Coda di Serpente esultò in un urlo di guerra e lo stesso fece tutta la tribù.
In cuor suo, Samah’el Khan sperò solo di non aver peccato nuovamente di stupidità.
Per i due giorni che precedettero la cerimonia, il vampiro venne ospitato nelle grotte dei lupi nel mentre che i giovani cacciatori avevano ballato senza sosta, suonato e cantato insieme a sciamani e sacerdotesse.
In quella specie di solitudine forzata, il bastione di Uschtenheim ebbe tempo di riflettere sull’accaduto; per certo, le Anime Rosse nient’altro erano che la chiamata dei menhir del Padre demoniaco. L’unica cosa che non gli tornava era il come si fosse fatta così violenta e potente tale influenza, tanto da scatenare la follia persino negli animali. Non aveva senso, ogni qual volta si avvicinava ad uno di quei colossi di nero marmo venato di rosso, nulla di naturale osava restargli vicino; ne uccelli, ne mammiferi, tantomeno insetti.
Eppure, a detta di Corvo Bianco, la lupa ne era rimasta contagiata e ora stava minando il Branco intero.
L’unica possibile spiegazione che venne in mente al dumahim fu quella che potesse esserci una specie di effetto in risonanza di due monoliti vicini. Ne aveva percepito un nelle vicinanze di Provance ma che ce ne fosse un altro, così vicino e connesso con il primo, proprio non ne sapeva nulla.
La luna era alta nel cielo e curiosi spettri di pallida luce si posavano su ogni superficie riflettente facendola sfavillare. L’astro di benigna luce bianca rendeva ora giustizia all’equilibrio da risanare di un popolo spezzato dalla fatalità. Un grande cerchio di persone si accalcò intorno a quello che sembrava essere un enorme pozzo coperto da un pesante coperchio di legno e ferro battuto. Al suo interno, qualcosa di mostruoso e letale ringhiava e latrava, la lupa dal candido manto aveva sbranato chiunque gli si fosse avvicinato. Le sue caratteristiche di Metalupo l’avevano aiutata nella rigenerazione del corpo ma nulla potevano contro il cordoglio di una perdita ingiustificata. Il Popolo l’aveva rinchiusa nella Fossa del Mondo in attesa che il suo cuore venisse placato dal vempari.
Samah’el Khan raggiunse il pozzo solo dopo che tutti i preparativi per la celebrazione ebbero fine; aveva dovuto attendere ben due giorni per portare a termine quella ridicola funzione ma alla fine aveva dato la sua parola e un uomo d’onore non si rimangia una promessa fatta.
Quando giunse l’ora, gli anziani del posto si fecero avanti e si accinsero a dipingere il corpo del vampiro di calce e rena con sacri motivi tribali. Fu lo stesso Capo Cacciatore in veste rituale ad accompagnarlo nel luogo in cui la belva era stata rinchiusa.
Il popolo accolse il duo con un acuto ululato, alcuni tra i più robusti della tribù sollevarono una piccola botola dalla quale sbuffò una zaffata di maleodorante e umida aria viziata.
Con ambo le braccia sollevate e le mani strette intorno al manico di un bastone della pioggia adorno di ossa umane, Enapay Corvo Bianco proferì il discorso rituale al popolo;
"Barekuma seo, tambo! Karakute semaway vempari no te!
Olemembe sone darem, quevambi, manteque kiki. Sole takate mubari!"
"Vempari, sepulkate!“ Rispose un coro di guerrieri come un singolo uomo.
"Se maie maie, no vempari! Seumbekola, umbe HA!" Detto ciò, il Capo Cacciatore lasciò cantare il bastone della pioggia prima di dare l’ordine di portare a compimento il rituale.
A gesti, il Cavaliere di Ferro chiese cosa avrebbe dovuto fare una volta al cospetto della fiera e la risposta del Capo Caccciatore fu tanto imprevista quanto l’assalto della lupa che balzò fuori dalla botola, travolgendolo come un carro in corsa; “Questo spetta a te deciderlo.”
Come una palla di pelo e carne morta, Samah’el e la lupa si avvinghiarono in una specie di rissa tra fiere;
“DANNAZIONE! DANNAZIONE! DANNAZIONE!” ruggì nella propria mente il vampiro nel mentre che tentava di tener testa alla lupa serrandone le fauci con le braccia intorno al muso.
La lupa dal bianco pelo ancora sporco di sangue rappreso sembrava impazzita, tentava in tutti i modi di azzannare il gigante verde nel mentre che lo trascinava come uno straccio in terra a destra e a sinistra.
L’animale si chetò solo quando Corvo Bianco fece risuonare il bastone della pioggia, imponendone obbedienza. Gli occhi verde acceso della lupa si riflessero in quelli glaciali e caprini del mezzo sangue, per un istante fu come se Samah’el riuscisse a vederle l’anima. Lentamente ma sempre con il pelo irto di rabbia, la lupa cedette e rilasciò la sua preda mantenendo sempre il contatto visivo con quell’immondo essere che lei conosceva come l’assassino di Falce di Sole.
Il dumahim ebbe la possibilità di rialzarsi, evitando accuratamente i movimenti bruschi. Enapay Corvo Bianco si affiancò alla lupa, ponendole una mano sulla testa;
“Ombe soe, Tork. Darem, darem. Quevambi, mankique vempari tuk. Sole takate mubari, Tork.” disse in un sibilo a quell’enormità di pelo bianco.
La reazione non fu affatto quella che ci si aspetterebbe da un domatore di fiere.
La lupa ruggì e latrò con disprezzo per poi fare lo stesso in direzione del dumahim che le ricambiò la cortesia con altrettanta rabbia e violenza. Quasi fronte contro fronte, Tork e Samah’el si fissarono per qualche istante, entrambi con le zanne snudate e frementi di rabbia, nel silenzio più totale.
“Il suo spirito è pronto, vempari. Le Anime Rosse sono state convogliate e sono pronte per essere estirpate dalla sua mente…ed è qui che entri in gioco tu.
Dovrai portarla con te, dovrai essere il fulcro del suo equilibrio e, quando sarà il momento, dovrai metterla alla prova.”
Samah’el buttò una rapida occhiata a Corvo Bianco e poi riprese a guardare la lupa, come se da quegli sguardi dipendesse la vita o la morte dell’uno o dell’altro;
“Ti sgozzo appena girato l’angolo, bestia infame…” pensarono entrambi digrignando i denti nel mentre che l’intera popolazione gli faceva corteo nell’abbandonare il villaggio.
Tra se e se, Enapay sperò nella riuscita di quel rituale, che potesse al fine riportare l’equilibrio ad una tribù spezzata. Egli aveva fiducia nella Parola che i suoi avi avevano tramandato oralmente fin dall’alba dei tempi e sapeva che il Fulcro sarebbe tornato e che nulla di più di ciò che egli aveva causato gli sarebbe stato fatto dalla lupa.
Nel Nome del Diavolo - Soundtrack
Il caldo vello bianco ondeggiava al gelido vento come germogli di pallida erba appena destati dal torpore estivo, le zampe affondavano nella neve rilasciando piccole impronte di sangue e terra. Al suo fianco, senza mai staccarle gli occhi di dosso, Samah’el Khan procedeva senza emettere un singolo suono. Mille erano i pensieri che assillavano la mente del dumahim, il primo di questi era perché diavolo aveva deciso di accollarsi problemi che non erano suoi. Quel dannato cane fuorimisura gli sarebbe stato solo d’intralcio se non la causa della sua morte. Avrebbe dovuto tenerla sempre sotto occhio, non avrebbe dormito senza saperla prima o lontana o assopita nel più profondo dei sogni.
Con uno sbuffo furioso di gelido vapore, i due improbabili compagni di viaggio si rimisero in moto.
La lupa, dal canto suo, sembrava di molto fastidiata dalla presenza del Dumahim e non perdeva occasione per ricordargli quanto odio provasse per lui.
I due decisero di tagliare per le montagne, sarebbero giunti assai prima rispetto che costeggiando il litorale e avvicinandosi a Meridian, una città pericolosa per tutti in quei tempi bui.
Durante il loro pellegrinaggio, la lupa e il vampiro ebbero di che discutere parecchie volte.
Ora era la lupa ad attaccarlo senza motivo, ora era il vampiro a staccarle feroci morsi quando eccedeva nella sua impudenza.
Persino cambiarle il bendaggio alle ferite era diventata un’impresa. Alla quarta volta che la lupa gli addentò un braccio durante una sfuriata Samah’el perse il controllo e le saltò letteralmente addosso, facendo ruzzolare entrambi giù da una scarpata durante la colluttazione.
Fortuna volle che ci fosse un piccolo lago dove i due caddero senza troppo farsi male.
La lupa nuotò uggiolando di fatica e umiliazione verso riva, il vampiro fece lo stesso non troppo distante da lei. Piantato a quattro zampe sulla ghiaia del fiume, ansimando di fatica per le innumerevoli volte in cui erano giunti alle zanne, i capelli bagnati sul viso e la schiena inarcata come un animale adirato, lo sguardo furente fisso su quell’animale maledetto.
Il metalupo dagli occhi verdi giaceva steso su un fianco, la grossa testa canina posata sul terreno, ogni respiro era un uggiolare prolungato e ululante.
Con la vergogna negli occhi il cavaliere di Uschtenheim si rese conto a cosa si era ridotto; litigare con un animale a cui aveva fatto torto per primo ed essere così altezzoso da pretendere di averla vinta con una fiera.
Con un pesante sospiro e non poca fatica, Samah’el Khan si tirò su e si avvicinò a quella lupa ferita. Gli occhi lupini lo fissarono per tutto il tempo, un grave ma debole ruggire accompagnava ogni sua mossa.
Non c’era alcun bisogno di parlare a quell’animale, lei capiva semplicemente per empatia e fu così che il vampiro decise di farle comprendere il suo rammarico. La aiutò nel rialzarsi e ne fasciò le ferite adoperando anche brandelli delle proprie vesti. La lupa gli piantò le zanne nella gamba e strinse tanto forte da smostrare il volto del dumahim dal dolore ma egli non reagì, continuando a medicarne le ferite come poteva. Con delle liane robuste, il vello di capro e il pesante scudo torre compose una lettiga improvvisata dove la ripose con innaturale dolcezza.
Il vento batteva violento contro il torace del dumahim ormai esposto alle intemperie, gran parte della sua giacca era diventato giaciglio per quella belva ferita che lo fissava, rimuginando, con ancora il muso sporco di nero sangue.
Il sole del mattino lasciò campo libero all’astro lunare per ben sei volte prima che i due viaggiatori scorgessero al fine le coste più estreme delle terre di Nosgoth.
Le alte vette che circondavano le terre dell’Alchimista erano state acide nel loro ausilio e i pericoli erano stati talmente tanti da costringere il vampiro a manovre di scalata assai avventate.
Ben presto anche la lupa poté nuovamente reggersi salda sulle zampe, grazie all’aiuto dell’ematofago silente che ne aveva saziato l’appetito dividendo con lei il pasto; carne alla fiera e sangue al vampiro.
Con cautela e non poca difficoltà discesero il costone della montagna per poi proseguire fino alle pendici di un’alta scogliera.
Una sensazione di totale sconforto colpì il cavaliere dell’Alleanza come un calcio ben piazzato negli zebedei.
Non c’era NIENTE, né Menhir, né demoni, né allucinati. Niente.
Ruggì furioso il dumahim, scaricando la sua ira contro la prima cosa che gli capitò a tiro nel mentre che la lupa lo osservava con occhi gelidi e le orecchie alte sul capo arruffato.
Il sensibile tartufo ispirò avidamente l’aria per poi guidare le zampe in una ricerca spasmodica di qualcosa che potesse aiutare il suo compagno nella ricerca. Samah’el si sedette su di una radice aerea di un salice ormai morto, pugni sotto al mento e ingranaggi celebrali in pieno movimento.
La fronte corrugata, paralizzata in un’espressione cogitante, lo sguardo concentrato non si staccò dalla linea dell’orizzonte finché qualcosa di umido e caldo non gli sfiorò il fianco.
I grandi occhi verdi della lupa fissavano quelli caprini del mezzo sangue, tra le fauci stringeva un grosso blocco di pietra nera che cominciò a brillare di rosso vermiglio quando le mani bifide la strinsero.
Lesto il Bastione di Uschtenheim balzò in piedi e, con un rapido zampettare, la candida belva lo guidò verso l’orlo del precipizio che a piombo dava sul mare. Li si sedette, esattamente dove la terra si faceva più scura, come fosse stata fusa dall’interno.
Sporgendosi quel tanto che bastava per avere una vertiginosa visione del nulla sotto di loro, il gigante dalle verdi carni riuscì a vedere delle grosse vene di pietra nera con riflessi rossi salire dal mare e penetrare nella terra.
Ora gli era tutto chiaro.
Con molta cautela allungò le dita della mano in direzione del collo della lupa per poterne carezzare il candido manto. Quella non fece nulla e lasciò che la mano deforme le accarezzasse il collo e la testa.
“Perdonami…” sussurrò contrito Samah’el nella mente di Tork che non ebbe di che ascoltare per capire cosa volesse dire.
Senza alcuna paura Samah’el Khan pose la fronte su quella del gigantesco lupo, accarezzandone le soffici orecchie e le guance pelose. La lupa socchiuse gli occhi ed emise un lieve e dolce mugolio per poi mettersi salda sulle quattro zampe e balzare via, nell’oscurità della notte, per tornare dal suo Branco.
Il gigante di carne la salutò con un prolungato e gorgogliante ruggito di commiato per poi sporgersi nuovamente ad osservare il vuoto; il Menhir era laggiù, nelle profondità dell’abisso.
Il collo coperto di cicatrici schioccò come una frusta sotto torsione volontaria della testa e lo stesso fecero le spalle quando portò indietro le braccia. Come a voler riscaldare i muscoli, il cavaliere fece pochi balzi sul posto prima di retrocedere di qualche metro e gettarsi in una corsa suicida che terminò con un vertiginoso salto nel vuoto.
Dall'Abisso e Ritorno- Soundtrack
Le nere acque accolsero riottose il corpo in caduta del vampiro, sommergendolo di colpo dopo aver sbuffato una miriade di schizzi, in un’assordante sciabordio che si chetò solo quando il dumahim sprofondò nel buio sommerso. Per poter comprendere dove si stesse dirigendo, il Cavaliere di Ferro si fece luce con la sfrigolante ascia accesa di fiamme che scoppiettò e ribollì come lava subacquea a contatto delle acque oceaniche. Il peso dello scudo torre lo portò a piombo sempre più giù e fu solo grazie alla forza dei propri arti che riuscì a non perdersi, nuotando senza posa verso una curiosa e inquietante luce rossa.
Una paurosa massa scura, sagomata come un gigantesco artiglio levigato dalla marea, prese forma sempre più distintamente agli occhi del mezzo sangue, fino a manifestare tutta la sua grandezza e malvagità.
La mostruosità di pietra nera pulsava di un luce malsana, tingendo di rosso sangue l’oscurità dei flutti.
Nel suo emergere dalla terra il menhir demoniaco aveva fatto collassare il terreno sotto di se, trasportando una gran parte del costone roccioso su cui posava in mare. Per quasi un secolo aveva atteso, immacolato nella sua corruzione, come una murena in caccia. L’alta e la bassa marea ne avevano smussato gli angoli e trasportato tanti di quei detriti sulla sua sommità da smostarne le forme e farlo rassomigliare ad un’enorme testa di seppia.
Sulla superficie incisa di damascati decori e rune demoniache non vi era cresciuto niente, neanche un’anemone ma tutt’intorno alla base dell’enormità si erano depositati cadaveri di pesci, molluschi e mammiferi di mare di ogni dimensione sui cui corpi banchettavano necrofagi e batteri.
Samah’el si lasciò guidare dalla gravità fin sul fondale e da lì proseguì a piedi, in una lenta marcia sottomarina. I suoni erano così distorti e strani in quel mondo immenso che gli sembrò quasi di poter udire nuovamente il pulsare del proprio cuore oramai muto da tempo ma era solo un’impressione.
Proseguì finché lo stesso monolito non si accorse di lui e gli diede il benvenuto accendendosi di rosso fiamma e rivelando lo sfacelo che lo circondava. Centinaia e centinaia di relitti spettrali circondavano l’enigmatico obelisco come fosse stata la pietra tombale di un cimitero di marinai. La follia che infettava quel immoto simbolo di malignità aveva fatto perdere la rotta a molti innocenti, catapultandoli nell’oblio e nel freddo abbraccio dei flutti assassini.
Senza indugio, il gigante richiamò a se l’energia del Padre con il solo tocco delle mani sulla pietra, scatenando una serie di eventi catastrofici che conosceva ormai molto bene. Le rune si fecero largo sulla sua pelle, bruciando e ribollendo come spade incandescenti nell’acqua ghiacciata. L’esplosione e lo sprofondare del monolito nella terra richiamarono e scalzarono tanta di quell’acqua da risputare il dumahim fuori dall’oceano con una tale violenza da fargli fare svariati metri in aria prima di ricadere secco sulle rocce della scogliera lì vicino.
Sconvolto e confuso dal dono del Padre Silente il mezzo sangue fece quel che poté per trascinarsi a riva per poi vomitare litri e litri di acqua salata che gli era rimasta in corpo e accasciarsi sulla spiaggia, in cerca di ristoro.
Chiuse gli occhi e sospirò pesantemente, il torace era stato squarciato dalla caduta sulle rocce affilate così come mani e gambe. Ci avrebbe messo un bel po’ prima di potersi rialzare se non fosse stato per un’ombra misericordiosa e selvaggia, una creatura di bianco pelo tornata da lui per rendergli ausilio.
Si accoccolò al suo fianco e lasciò che le mani bifide afferrassero il folto pelo del garrese per potersi al fine posizionare a cavalcioni sul dorso dell’animale.
Con calma e senza troppi scossoni, la lupa si mise in cammino portando al villaggio colui che le aveva restituito la pace.
Per tutta la notte e in tutta la tribù si sparse la voce del ritorno a casa della lupa di Lima e fu grande festa. Sgomento ed euforia cinse i cuori dei molti nel vedere nuovamente la pace negli occhi del cucciolo smarrito e che aveva ripreso volontà e vigore. Il Capo Cacciatore Corvo Bianco diede il benvenuto al vampiro e alla lupa con un vigoroso abbraccio, assai molto poco caldamente ricambiato dal dumahim.
Samah’el si inquietò decisamente, l’ultima volta che quegli invasati si erano emozionati, si era ritrovato a dover lottare con un lupo enorme. Lo stesso uomo che fino a qualche giorno prima ne desiderava il sangue sulle mani, lo accolse a braccia aperte apostrofandolo con parole dette con le lacrime agli occhi.
Con una lieve carezza sulla testa della lupa, Enpaya le diede il bentornato a casa. il metalupo dal folto pelo accolse con gioia quel benvenuto ma qualcosa i lei lasciò sgomento il cacciatore che annunciò qualcosa al suo popolo con grande enfasi e nella solita lingua intraducibile. Il silenzio si sparse, seguito da un’esplosione di giubilo.
Mitigando i suoi timori, il capo Corvo Bianco lo apostrofò con tono gentile e commosso;
“Il tuo cammino si è intrecciato con il nostro e il tuo spirito ora è legato a noi come noi lo siamo al tuo, vempari.
Hai cavalcato e conquistato la sua fiducia. Il volere della fiera condiziona ognuno di noi, ogni cacciatore, ogni lupo. Vincola il lupo all’uomo in un legame inscindibile.
Sei parte del branco e sempre lo sarai, ovunque e qualunque cosa tu deciderai di essere nella tua storia.
Come lupo sei giunto, portando la morte al Popolo. Con il lupo, ora, tu andrai, portando la vita del Popolo con te.”
Gli occhi caprini osservarono la festosità e il bene che quella curiosa tribù gli aveva concesso con un semplice atto di comprensione. Nonostante avesse portato loro la morte, il Popolo non chiese in cambio la sua pelle bensì una presa di coscienza.
Diede un nome a quella creatura enigmatica e selvaggia che ora lo legava al Popolo. La chiamò Hati, come il lupo delle storie che il padre gli narrava quando era bambino; il lupo che dà la caccia alla luna, Màni, insieme al fratello Sköll che insegue Sol, il sole.
Con il favore del pallido astro lunare il Bastione di Uschtenheim salutò il villaggio intero prima di sparire nella notte con quella cavalcatura singolare, proveniente da quel mondo arcaico e selvaggio che gli aveva donato più di quanto lui potesse chiedere.
Edited by skulker87 - 23/12/2015, 04:15. -
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"Molto bene, mezzodemone" risuonò la voce del Guardiano del Conflitto nella sala del trono.
"Molto bene, Samah'el. Sei di ritorno dalle terre dall'Alchimista, intero, vedo"
"Strada...lunga...magister"
"Lo posso ben immaginare. Ma hai anche stretto un buon rapporto con il Popolo locale, cosa molto inusuale fatta da un vampiro solo dell'Alleanza. Ma dimmi, in fondo, hai trovato quello che stavi cercando?"
"Si...senzacuore....negli abissi...."
Samah'el Khan apprende :
Bat form liv. 1 - RAIN
Consente di volare all'interno di zone già visitate, ad esempio, per spostarsi da una strada sino alla cima di un tetto. -
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Samahìel Khan
"Pensaci bene, Cavaliere..." - disse il biondo Paladino osservando il barbaro mezzo sangue di fronte a sé.
Il cielo di Nosgoth aveva accolto i due immortali intenti in una discussione assai contorta.
Il Paladino Phobos aveva ricevuto il Cavaliere sulla balconata più alta della Cattedrale, posta all'altezza della corona di guglie che cingeva il bianco cranio.
Samah'el rimase gelido e silenzioso, con ambo le palme delle mani posate sulla ringhiera in marmo della balconata. In una mano stringeva una lettera scritta con il sangue da delicate dita e femminea volontà: una missiva di Veive, Sterminatrice di Razielim, che reclamava il suo 'cucciolo' per potergli donare il sangue puro dei dumahim.
"...necessario..." - rispose lui in un quieto sussurro
"Forse ma questo non riguarda l'Alleanza, né la Cattedrale del sangue. Hai giurato fedeltà al Senzacuore, ciò che cerchi laggiù non è necessario per noi!"
"Lo è...per me...un nobile Cavaliere...come può fregiarsi...del suo titolo...se avesse l'anima di un demone...a corromperne le carni?
Sono stanco....di esser...un'ipocrisia vivente...
Sono stanco...di vedere...questo....nello specchio....e negli occhi...di coloro che mi osservano." - disse indicandosi il volto sfregiato dai Tatuaggi del demone del Silenzio.
"Credi davvero che le risposte le abbia quella reliquia del passato?"
"Devo...sperare...devo...credere...
Perché...se io non credo...e non spero...in una possibilità....cosa mi resta?
Paladino Phobos...ha molte cose...per cui combattere...
Molte contraddizioni...ma molti motivi.
Io ...lotto per il clan...ma sono mezzo sangue...
Io ...combatto per la Cattedrale del Sangue....ma sono per metà... ciò che la cattedrale vuole estirpare.
La sola volontà...non basta.
Integrità...coerenza...ne ho bisogno...o impazzirò." - disse, senza mai levare gli occhi da quel pezzo di carta.
" Ho...bisogno...di credere.
Ho bisogno......di speranza."
Il Paladino, che ora osservava braccia conserte Samah’el, tamburellava freneticamente l’indice sul bicipite...non era sicuro di poter prendere quella decisione da solo, ma al tempo stesso capiva benissimo ciò che affliggeva il Cavaliere.
“E così sia...” - concluse dopo qualche istante di silenzio e portandosi vicino a lui ed obbligandolo a guardarlo fisso negli occhi - “...ma torna. Torna con la pace che tanto aneli, o così come sei ora. Mi sto assumendo la responsabilità, quindi qualsiasi cosa di diverso dal tornare tra le file della Cattedrale sarà considerato tradimento, e sarà mia premura di venirti a cercare io stesso...”
Sorrise poggiandogli una mano sulla spalla per smorzare il tono con cui le parole gli erano uscite. Samah'el reagì al tocco del Paladino con un lieve e scorbutico scuotere di spalle involontario.
Phobos non se la prese.
Era dovuto scendere a patti coi suoi demoni per riuscire quasi ad accettarlo, e ora non era felicissimo di quanto si prospettava, ma capiva...e credeva.
LDR: ???. -
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PROLOGO – The Unforgiven, soundtrack
GIORNO 1
Ora o mai più, devo agire.
Ora o mai più, devo scoperchiare le tombe dei miei avi, per prelevarne le sacre ceneri.
Ho visto cosa c’è dall’altra parte e non posso più aspettare.
Il Visir delle Ombre Amorfe che ho incontrato scortando il mellifluo Lucian me lo ha mostrato, nel momento in cui ha serrato la sua fredda mano intorno alla mia anima. Quando tornai in me, dopo una notte di orrori senza nome e incubi raccapriccianti ad occhi aperti, corsi alla biblioteca e cercai novelle su quell’essere.
Ciò che scoprii mi diede una strana sensazione di disgusto e orgoglio.
Egli era un membro della cerchia di Víðarr, abitante di Nunkound, Nono Serafino corrotto, venuto a mordere la coda del figlio bastardo del demone capro.
Ed io…gli ero sopravvissuto.
In tempi più antichi, sarei stato sicuramente disintegrato da un tale abominio, ma da quando ho cominciato ad assimilare la forza dell’Immondo, mi sento capace di qualsiasi prodezza...
Invincibile, come un Dio dei tempi che furono.
Superbia, tracotanza, tipica del mio clan...Si...Innegabile.
Sentirsi così fieri di se stessi dovrebbe essere proibito...Chi altri può vantare tanta alterigia giustificata? Tanta potenza dannatamente concreta?
I Dumahim hanno acciaio fuso nelle vene, la pietra sostiene i nostri muscoli.
Mi sento pronto. Sono pronto!
Lo devo al mio Clan, al mio nome e anche al giovane allievo Kairon Darvos che ho deciso di tenere ben protetto sotto la mia ala, che tanto vede e si aspetta dal suo Maestro.
Non appartengo più a questo mondo come schiavo, né come guerriero.
Devo rinascere Monarca.
GIORNO 6
Il Sangue di Dumah è vivo.
Riesco a percepirti nella mia mente e nella mia lingua quando proferisco la tua Parola. Nonostante Il Mostro d’Ombra mi abbia torturato corpo e mente, forte in Te sono sopravvissuto all’incontro…
Sono quasi dodici notti che non riesco più a destarmi nello stesso luogo in cui mi sono addormentato la notte prima. Loro mi chiamano, Loro guidano la materia di cui sono composto.Più ne ascolto, più li bramo.
Devo trovarli e non posso farlo finché le mie ossa saranno legate non tanto alla Cattedrale, quanto all’Alleanza. Il Paladino Phobos mi ha dato la sua benedizione. Sapevo che avrebbe capito, per quanto rancoroso e turbolento sia il nostro convivere, egli sa….Comprende.
HellGate mi fissa mentre ne riparo le cinghie. Una superficie su cui specchiarsi, che ti osserva e giudica. Finisco di accomodarlo per poi posarlo sul coperchio della mia bara.
Hellgate porta le effigi dell’Alleanza…
Hellgate non verrà con me.
GIORNO 30
Giornata proficua per questo figlio bastardo di Dumah.
Nascosti nell’ombra del tempo, ho trovato alcuni dei Menhir demoniaci e li ho assimilati. Erano singolarmente lontani, a Est del Dark eden e a Nord ovest della Forgia dello Spirito.
Veive guida i miei passi con incredibili risultati, la sua sapienza e i suoi consigli sono davvero preziosi.
Ad ogni pietra tombale del credo dell’Immondo assimilata, accumulo coscienza e conoscenza e un pezzo di quell'inferno in cui il mio vero padre ha vissuto entra nella mia anima.
Comincio a sentire le voci, a percepire il potere.
Mi ritrovo a pensare cose che prima non avrei mai neanche potuto sognare.
La corruzione, la via, la fede. Il vero significato del controllo.
Come tutto questo può muovere gli uomini, in un moto ondulatorio, da una parte e dall'altra, come il mare in tempesta muove delle effimere meduse.
Tutto mi sembra miserevole, futile in confronto a ciò che degli Dei come noi possono fare alle patetiche esistenze dei mortali.
Le loro vite sono povere, senza un vero scopo più elevato del semplice nutrirsi, conquistare, dividere, bruciare e riprodursi.
La loro esistenza dura troppo poco, non hanno mai avuto davvero l’occasione di cambiare le cose.
Non ne hanno mai avuto il tempo.
Io sono immortale, eterno, ed eterno duro. Io posso.
GIORNO 65
Altri ritrovamenti.
A Sud di Provance e a Valeholm, praticamente sotto la città, ad un passo da dove ho portato Nim, dove la credevo al sicuro.
Nim, piccola, dolce, pura.
Sono notti e notti che tentenno ogni volta che mi impongo di andare da lei. Temo per la sua integrità, tremo al pensiero di ciò che potrebbe farle la Madre se mi scoprisse in sua compagnia.
Nonostante tutto, quando posso, volo da lei.
Si è fatta grande, una donna a tutti gli effetti, di straordinaria bellezza, con capelli color dell’ebano e sopracciglia che scattano diritte all'insù come piume di gazza. Gli occhi così profondi da poter contenere tutto il regno spettrale, delicatamente decorati da linee sottili di nero eyeliner.
Forte, allegra, sempre con una parola gentile e un gesto caritatevole, per chiunque.
Ormai riesce a sentire i miei pensieri, anche se inizialmente ne era spaventata.
Come biasimarla, ha scoperto il mio vero essere nel peggiore dei modi.
Era una notte relativamente tranquilla, c' eravamo incontrati nella piana a Sud di Valeholm. Nelle mie forme ferali la vegliai ma non bastarono tutti i miei doni per prevenire un attacco di Zephonim. Mi ridussero all'impotenza con orride tele di ragno, e intanto avanzavano famelici verso di lei. Non potevo tollerarlo, e così…mutai nelle mie vere sembianze. Feci una carneficina, ma non ne fui affatto appagato.
Nimue era tremebonda, nascosta nell’incavo di un tronco cavo, una mano sulla bocca e con l’altro braccio si teneva le ginocchia strette al petto. Gli occhi color del ghiaccio terrorizzati, colmi di lacrime nel rimirare il mostro che ero…che sono sempre stato e che mai avrei voluto mostrarle.
Le inviai il mio pensiero, implorandola di non aver paura ma lei sembrò non ascoltare.
La mia anima...andò in pezzi.
Passarono numerose clessidre prima di udire le foglie marcite nel tronco crepitare sotto il suo esile peso in movimento.
La piccola figura emerse dall'oscurità con cautela, osservando prima a destra poi a sinistra e, infine, sobbalzando lievemente nel vedermi ancora li. Lorda di fango, ragnatele, lacrime e paura.
Tutto in lei stava urlando alla fuga, minute orme di lacrime versate avevano segnato quel volto d’angelo che ancora trasudava parecchia dell’angoscia che la mia vista le aveva evocato.
Non disse nulla. Non c'era nulla da dire, fare, pensare in quel momento.
Si fece spazio tra le mie imponenti braccia e li si accucciò, abbracciandomi stretto come fossi stato un fratello da perdonare, posando il capo sul mio morto e freddo torace;
“Andrà tutto bene…” Disse con voce soave.
Come può ancora esistere una tale purezza a Nosgoth…
GIORNO 70
Ho la costante sensazione che tutto mi si stia facendo più chiaro in mente; passato, presente, futuro.
Tutto.
Quegli stolti dei cultisti, che con tanto fervore adoravano il demone che alberga in parte nel mio essere, credevano davvero che, evocandolo, le loro vite e il mondo sarebbero cambiati in meglio.
Posti su un sentiero che come unico scopo avrebbe visto la nascita di un demone.
Mi ritrovo a pensare che, forse, chi mi ha tatuato questi orrendi segni sul volto, credeva davvero di fare del bene.
Questo dunque li scagiona? Il giudizio del martire sarà così più clemente?
Molto tempo fa, avrei risposto di no, spinto dalla vendetta avrei preteso le loro teste su una picca.
Adesso…il mio giudizio sarebbe ancor più inappellabile ma sterilizzato dall'ardore della vendetta.
Ardisco nell'affermare che sarei disposto a...salvarli dal mio giudizio. A prendere le vite dei responsabili.
Non per Pietà, s'intende, ma per senso pratico...Il popolo è disperato, e facile da ammaliare. Se fossero pronti ad inchinarsi davanti alla mia volontà, a strisciare e a chiedere venia.
Cosa mi sta succedendo…
GIORNO 148
Non so più a chi dare retta, non so più chi ascoltare.
Non riesco a venire a capo di nulla, i miei stessi pensieri mi tradiscono ad un passo dalla meta.
Continui mal di testa e pressanti vuoti di memoria mi assillano. Mi ritrovo a fare, cercare, agire senza aver alcun ricordo del come io possa essere arrivato a farle.
Ho raggiunto il Menhir a Nord dell’Obelisco di Marte, quello ad ovest dell’obelisco di Venere e l’ultimo, ben celato tra i picchi di Nosgoth, ad est.
Ho fatto visita alle catacombe dei miei padri e la cittadella dei vampiri, ho percorso i cammini passati del mio avo e quelli del Vanesio finché la terra me lo hanno permesso. Più in là non sono riuscito ad andare, molto è celato ancora nelle trame del tempo e non mi è concesso di esplorarne le fila.
Del passato Impero e del mio Clan, Veive mi ha spiegato tutto ma la sua conoscenza è limitata ed io ormai sono andato oltre e voglio sempre di più.
Ora vedo con occhi nuovi cos’era il mondo di Kain, da dove è nato, chi lo ha creato e a cosa ha portato.
Vedo gli inganni, le trame di colui che per sete di potere ha condannato un mondo già condannato e che ha tentato di capire come davvero quello stesso mondo girasse.
Comprendo il suo sconvolgimento nel constatare quanto intricato fosse l’intreccio dei potenti, ora conosco e so il perché dei Pilastri, le ere delle Grandi Razze, il sacrificio del Vanesio e la rinascita dell’equilibrio.
E così come io impallidisco, egli trasecolò nel comprendere quanto poco sapesse al tempo e quanto caos ha originato con il suo grande rifiuto.
I figli del Vanesio si sbagliano, pensare di possedere la verità solo perché si conosce la storia del Primo Mietitore è atto figlio della stessa vanità che lo ha portato alla rovina. Vedono solo ciò che gli è concesso vedere, ignorando la storia dei vampiri, la vera storia antica e non solo il mito. D’altro canto, la genitrice Veive è rimasta invischiata nella visone di un mondo che ormai non esiste più, cieca tanto quanto i mietitori che accusa.
Il Primo sognava un impero di sangue e supremazia, poiché ha sempre avuto l’anima del tiranno, poi ha saputo, ha visto e ha compreso l’inutilità di quel mondo ormai in rovina. Un modo che non mi appartiene più.
Prendo il coraggio a due mani e decido di parlare con la Genitrice, decido di voler continuare da solo e di portare a termine i miei scopi, con o senza il suo volere.
Veive è furente, reagisce come il sangue del Padre impone ma questa volta sono io ad atterrarla e che ora le sta al di sopra, con gli artigli sguainati e le zanne snudate. Ringhiante e possente come un lupo che rimette i subordinati del branco al proprio posto. Non esito neanche un momento per affondarle le feroci zanne nel collo bianco marmo, per succhiarle il prezioso sangue quel tanto che basta a farla andare in estasi e per chiarire, una volta per tutte, la mia posizione nel Clan; come lei mi insegnò anni prima, un atto del genere è sinonimo di supremazia e dominanza.
Il suo sangue sterile è riuscito a dare la non-vita solo ad un mezzo demone indegno come me ma è incapace di garantire altre discendenze pure.
Non merita di essere un leader del Clan.
Veive si cheta, guardandomi con i neri occhi colmi di vergogna e sconfitta.
Ora, sono io che comando.
Sono abbastanza potente da proseguire senza di lei e intendo farlo. Il Clan sarà mondato dall'ipocrisia su cui si basava il vecchio Impero. Lo riporterò allo sfarzo iniziale, prima della scomparsa del Primo Vampiro. Solo così potrò onorare il Padre, il Tiranno, i Pilastri e il Clan.
Padre Dumah, Grande Inquisitore…tu eri fedele ma ignoravi molte cose, come la vera via che il Primo voleva farci imboccare. Non essere affranto, Padre, La Ruota non è stata generosa con te.
E quando tutto sarà ormai seppellito sotto la cenere del passato, il futuro sarà radioso.SAMAH’EL KHAN – Mercy of Demons, soundtrack
ianco.
Dove sono?
Pallido mondo, non mi degni di alcuna risposta?
Come sono potuto finire in un così ampio strappo tra tempo e spazio.
Ch’io sia morto? No. Avrei sentito dolore, avrei percepito la stretta gelida della morte strangolarmi l’anima.
Che sia un altro mondo? No. Non c’è terra, non c’è cielo.
Una corte di marmo senza muri, senza volte.
Bianco.
Un enorme nulla di color nuvola.
Non un punto di riferimento, non un oggetto.
La mente urla e geme per la mancanza di prospettiva. Datele un suono, un colore, un dolere, un odore. Qualcosa! L’assenza di sensi guida la ragione nel più cupo dei sentieri, non vedo altro intorno a me, solo un enorme, catastrofico, inquietante nulla che si estende per miglia e miglia.
Muore, la ragione, annichilita da tanto sterminato niente.
I sensi avvizziscono e a poco a poco muoiono.
Prendi un momento, trova i pezzi. Arti, busto, testa.
Fai la conta. Chi manca all’appello?
Le gambe le ho qui strette al petto e la fronte preme sulle ginocchia.
Credo di aver perso tutto ciò che avevo, vestiti compresi.
Non li sento addosso ma non farebbe alcuna differenza anche se li potessi vedere su di me.
La pelle, segnata dalle malignità, non sento mia neanche quella.
Embrione che fluttua mollemente, guidato dall'inerzia. Semplice, facile, poche cellule, solo potenziale.
Immagino, penso, i miei primi giorni da piccola cellula circondata da rosee volte di carne.
Niente sensi di colpa, niente istinto, niente anima, niente mente.
Solo vita, nella più effimera e umile delle sue forme.
No, non indugiare in pallidi ricordi. Prosegui.
Non ti fermare, apri gli occhi, tendi l’orecchio, sfrutta la tua coscienza.
Risveglia le membra. Muovi il braccio, stira i tendini, allunga i muscoli. I piedi non toccano niente in terra eppure mi sento saldo sulle gambe.
Ascolta il nulla.
Un passo, due passi, mi muovo, lo sento. Non vedo dove vado ma sento ora qualcosa sotto di me che oppone resistenza alla forza che imprimo al nulla.
Cerca nel bianco.
Vedo, un punto all’orizzonte, un senso, una direzione.
Ricorda, che cosa è successo prima? Non si piomba nell’abisso senza sapere come ci si è arrivati.
Vedo lontano, all’orizzonte.
Mi avvicino, passo dopo passo. Odo un boato cupo e viscerale.
Poi…lo vedo.
Un gigantesco blocco di vetro al cui interno turbinano visceri e fumo, fuoco e sangue con una tale perfidia da non poterla riferire neanche a me stesso.
Chi è quella creatura intrappolata dentro a ciò che pare essere un enorme prisma?
Lo vedo, lo riconosco.
Mio Padre.
Víðarr.
Il volto da capro ringhia e sbava contro il sottile ostacolo che lo separa da me. La bocca e intrisa di nauseante saliva giallognola, pedipalpi d’insetto battono contro il vetro, come piccole clave frustrate dalla fame. È enorme e terribile, la flaccida e corrotta carcassa fa orrore alla ragione, gigantesche ernie e viscide estremità simili a tentacoli oscillano al ritmo sabbatico di una qualche litania oscura. Gli occhi sono quelli di un demone dell’Abisso, sei forti braccia spingono e battono contro la superficie del vetro ma questo non sembra cedere, il corpo poliforme coperto di pelle come terra arida incisa da mille soli, enormi vesciche e orridi stomaci pieni di putridume pendono come sacche. Tutt’intorno all’inquieto corpo del Serafino Corrotto sgambettano creature molto più piccole di lui, scarafaggi stridenti e striscianti lombrichi, un insieme di orribili mostri neri come la pece, apparentemente composti da arti nodosi e occhi caprini sparsi su tronco e gambe. Víðarr ne afferra uno e lo schiaccia talmente tanto contro il vetro da farlo letteralmente esplodere di fronte a me, in una salva di organi spappolati e stridule grida. Il bianco sembra sparire intorno a quell’enormità maligna.
Arretro, atterrito. Sento il corpo tornare vigile, spronato e supportato da tutto quell’orrore.
La mente ode, sente, vede, elabora. Il mio peggior nemico scende in campo.
Ora ricordo, la pavida ragione mi sostiene. Vigliacca, ora che nulla ha più senso osi farti avanti?
Rido della tua codardi!
Ricordo...
La notte fredda ghermisce beffardamente il mio viso con sottili aghi di ghiaccio.
Aspetto sotto la neve che Nim mi raggiunga fuori dalla sua magione di Valeholm.
La chiamo ululando il dolce nome alla notte sotto forma di metalupo una, due, tre volte…ma lei non giunge.
Oggi è il giorno, il grande giorno in cui il mio fato si sarebbe compiuto, e più di ogni altra cosa volevo che lei fosse lì per vederlo.
Ella non giunge.
Ormai è tardi. Devo andare.
La notte mi richiama e il destino è stanco di aspettare.
Corro veloce, passando per foreste e pianure, un’ora, o forse due. Non riesco più a contarle, troppa è l’eccitazione del momento.
Poco oltre l’orizzonte, si riflette sulla superfice del lago nero pece, alto, imponente, forte della sua eterna unicità. Serafico, incassato in una scogliera scavata dal mare. Mesto egli dimora su di un isolotto al fianco della città dei Leoni.
L’ultimo Menhir.
Muto in forma umana, per onorarne la grandezza.
Il Monolito che mi reclamò per ultimo non sembra come gli altri, o forse è solo una mia impressione.
Sembra morto, quiete, non freme nell’attesa di essere sfiorato dal mio tocco, non lo sento risuonare.
Abbandono Void su di una roccia, non so come potrebbe reagire a contatto con Lui e temo per la sua incolumità.
Cammino sicuro come un monaco in chiesa, avvicinandomi all’altare dell’Altro Mondo.
È calmo, come me.
Poso una mano sul viso del Monolito e solo allora Lui mi saluta.
Le venature del blocco di pietra ardono di vorticante energia, accolgono delicatamente la mano bidifa che sprofonda nella pietra. Un suono di smisurata frequenza si leva dalla pietra che canta la sua omelia di stridii, la pelle ruvida di roccia vulcanica si sfalda sulle punte rivelando la sinuosa energia danzante di folgore.
Chiudo gli occhi e aspetto l’invasione di urla, ululati di demoni e corni di guerra.
Il Monolito non mi parla. Non li sento.
Paura. Qualcosa non va.
Cerco di sfilarmi dal suo caldo abbraccio ma il mio alleato è capriccioso.
Mi tira dentro di se, vuole gemellarmi in lui.
Non so che fare.
Una luce rossa mi acceca e poi più nulla.
Buio…
Notte…
Luce...
Bianco.
Comprendo come sono giunto ma non il perché.
Ammiro il demone nel prisma, ogni colpo che schianta sulla superficie ricostruita di quel parallelepipedo ha il suono di un sasso che scappa sulla superficie di un lago ghiacciato.
Mi volto, osservo, una scheggia di vetro, una parte del prisma.
Appena la tocco Víðarr sembra chetarsi.
Mi guarda, mi scruta dall’altra parte dell’inferno, lascia scivolare una zampa caprina sul vetro e mi indica il punto esatto da dove è saltata quella scheggia di vetro…per sua volontà.
La prendo, è pesante e nera come il buio e per quanto innaturale, non la sento estranea. Affilata come un coltello, mi taglia quando la impugno.
Una sottile linea di fumo esce dalla ferita e impatta tre volte contro la barriera. Il vetro della gabbia trasparente stride dolorante nel mentre che l’Immondo sogghigna.
La scheggia, il pugnale sacrificale…ed io, lo sciagurato toro mitreo.
Per questo sono qui? Solo per questo ho fatto tutto ciò? Per servirti?
Niente sogni di gloria, niente futuro? Il mio viaggio finisce qui?
Tutto sbagliato…Tutto falso…
Veive ha interpretato male i segni e…
No…
Lei non sbaglia…Sono solo io a sbagliare, di continuo…
Ciò che sapevo era ciò che Veive mi aveva detto, che lei mi aveva mostrato…
Ingannato…
Mesi e mesi passati a capire, trovare, contaminare la mia anima per aggiungere un pezzo di vetro a quella teca solo e unicamente per riversarci dentro il potere di quelle strutture, per nutrire Il Serafino e proteggerlo fino al momento della schiusa.
Tredici schegge si liberano dall’anima di un morente Víðarr, Tredici Monoliti nascono dalla terra per salvarne l’essenza. Tredici bambini dovevano morire per ridare corpo, anima e forza al Dio.
Dodici ne sono morti e sta al Tredicesimo recuperare i brandelli e rendere all’Immondo ciò che gli appartiene…
Il pezzo di vetro che ho in mano non è parte della teca ma l’ultimo frammento di quel demone che corruppe la mia essenza mortale tanto da condurmi alla pazzia.
Sono io, l’ultimo pezzo da allocare al giusto posto per far sì che il Serafino Víðarr cavalchi il mondo.
La scheggia nera che alberga nella mia anima era il fulcro catalizzatore, malnato passeggero in attesa di tornare a casa dal suo vero padrone.
Sfrontato e vanaglorioso, nulla era stato designato per me, tutto era stato calcolato in funzione del Suo avvento, della Sua rinascita e del Suo volere.
Saprofita velenoso, nutre l’ospite rinvigorendolo per tutto il tempo utile a portare a termine la missione.
Comprendo, con massimo dolore, il mio unico vero scopo e cado sulle ginocchia nel momento in cui realizzo che, per tutto questo tempo, l’ultimo Menhir da reclamare ero io.
Uno sprovveduto, un folle che ha tentato scioccamente di rimescolare le carte in tavola accuratamente preparate da un Dio.
Incomprensibile nell’agire ma tanto potenti da obbligarmi a cercare affannosamente una via di fuga dall’incubo in cui Egli stesso mi aveva scaraventato …Poi, miracolosamente, una madre redenta me lo procura.
Mi somministra il più letale dei veleni; la speranza.
Mi parla di rituali, esorcismi, riti occulti utili per aiutarmi nel tentativo di essere mondato dalla pestilenza che mi ammorba, quando l’unica cosa che davvero voleva era che Egli mi bruciasse l’anima e tornasse indietro tramite il debole corpo di vampiro.
Corpo di cui Veive conosce bene ogni singolo punto debole e sa come renderlo innocuo.
Il sangue del Capro nutre il Dio del Silenzio, rendendogli omaggio e donandogli nuova vita…
La Genitrice lo trae in salvo tra le sue braccia, ne assimila l’essenza.
La rende Dea in un mondo di mortali.
Questo, al fine, l’unico esito voluto.
L’unico esito possibile.
Cado sulle ginocchia, poso le mani in terra e chino il capo.
Sconfitto dalla mente superiore di quel demone, che così tanti burattini aveva adoperato per poter al fine prevalere. Non riesco ad alzarmi, troppo è lo sconforto.
Poi, adagio adagio, come un demente appena resosi conto di essere solo una delle numerose marionette che proiettano le loro ombre sul fondo di una caverna, sento infilarsi tra le pieghe del mio volto la risata della forca…
Rido.
Rido di me stesso e del Dio che ho innanzi.
Rido, affogando nel più tetro degli incubi. Rido degli inganni, del volere altrui, del libero arbitrio e del mondo intero.
Rido finché non sento dolore in volto e nel petto, finché un colpo di tosse non mi strangola, finché non odo una voce dietro di me che sussurra soavemente;
“Sia tu benvenuto, Figlio del Mondo.”
Giro il capo e ciò che vedo mi uccide.
Una donna che avevo ormai quasi dimenticato tanto la idealizzai; fluenti capelli, pelle del deserto, occhi color dell’edera. Una Dea di origine mortale, Isthar Stella del Vespro.
La dama che lasciai morta e decerebrata su una pira funebre nella Città delle Ceneri, ora la vedo qui, dinnanzi a me. So che non è lei, so che è solo un miraggio, forse sono davvero morto e questa ne è la prova o forse sono solo diventato ciò che tutti si aspettavano: un folle.
“Oh, mente crudele, anche tu mi canzoni adesso? LASCIAMI SOLO, VISIONE. Ch’io non debba soffrire oltre, anche per ciò che fu.” ruggisco d’un fiato.
Ella si avvicina e parla con dolcezza innaturale;
“Le tue volontà condussero il tuo spirito al Suo cospetto. Per ciò che tu facesti, non accusare me ma te stesso. Io sono qui solo in attesa di te e del tuo agire.”
A quelle affermazioni, mi sollevo e la osservo meglio. Non è né parto della mente né follia manifesta.
Sembra essere molto più di tutto ciò che potrei immaginare, dire o nominare per descriverla;
“Chi o cosa sei tu?
Non sei carne, né spirito, eppure osi prendere le sembianze della dama che tanto significò per me. Svela la tua identità o preparati all’oblio, il tuo peccato di simulazione non verrà tollerato oltre!”
Ride, la bella Isthar, né malignamente né con gioia.
Per quanto dolore mi provochi il vederla ridente, eterea e divina come è sempre stata agli occhi miei, nulla mi uccide animo e mente come la vergogna che provo nel vedere una donna che dell’autentica Isthar non ha più nulla.
Idealizzata, snaturata, ormai è dea celeste, priva di umanità nella mia mente.
Dimenticata e fatta idea, immortale, di questo concetto la mia mente si è nutrita, evitando di finire in pasto alla disperazione.
“Io ho molti nomi ma fosti tu a darmi forma, così come fecero tutti in passato. Voi creature di Nosgoth tenete molto alla consolazione, per questo ora sono Isthar Wildscale, strega di Freeport, morta per tua mano, e non un padre amorevole, o un guerriero fidato.”
“Sei qui per guidarmi o per distruggermi, Molti Nomi?”
“Né l’una né l’altra cosa.
Sono e sempre sono stato presente per assistere a tutti gli eventi dall'esito misero o capace di condizionare il tutto.
Eoni ed eoni hanno visto nascere e morire me e i miei fratelli, a ciclo continuo.
Maestri della forgia, custodi dei ricordi, signore del mondo che non si vede ma che esiste in tutti voi, immortali e mortali consapevoli
Nelle viscere della coscienza penetriamo inesorabile, i nostri crucci affliggono il vostro Io, le nostre gioie sono le nostre decisioni.
Io sono colui che dimora in te fin dal tuo primo vagito, il Signore delle chiavi che chiudono la tua mente.
Io sono tuo padre, tua madre, tuo fratello e tuo nemico.
”
Mi guarda, attende che io abbia riorganizzato i pensieri. L’essenza dei Viaggiatori, i Cancelli del Tutto, La Chiave del Nulla. Realizzo chi ho minacciato con tanta leggerezza.
Ho compreso e ti temo, come un folle teme la ragione;
“Sei qui per osservare, dunque. Non interverrai in alcun modo nella mia scelta?”
“Precisamente”
“Ma io non so quale scelta fare…”
“Ne conosci poche, questo è vero, ma sai cosa succederà se quella scheggia andrà al suo posto.”
Non è un maestro, non è qui per erudirmi;
“Comprendo la tua volontà di lasciarmi nel limbo per evitare di condizionare il mio cammino…
Dimmi almeno quali altre vie posso percorrere.”
“Perché dovrei rispondere a questa tua domanda?”
Una domanda complessa nella sua semplicità.
Rispondi sereno ma con saggezza, non ti spiegherà nulla se sbagli la tua risposta.
Pensa…Pondera…
Rispondo…
“Per far sì che il mio viaggio sia imparziale, devo poter sapere ogni scelta che mi sarà possibile esercitare. Ignorare le risposte non rende equilibrato il mio cammino, l’oblivione rende solo cieco e calca la mano sulla direzione che prenderò.”
La vedo, non è sorpresa, non è adirata ma acconsente; sa che ho capito il suo ruolo.
“A questa domanda risponderò.” Fluttua piena di eleganza come uno scialle di seta portato dal vento;
“Osserva, viaggiatore. Osserva, deduci e decidi poiché La Chiave che hai in mano apre tutte le Porte, non solo quella che L’Immondo ti mostra.”
Mi conduce verso il prisma, il demone al suo interno ringhia e sbava, percuotendo con maggior foga quando intravede le forme di Uno dei Nove;
“Questa, Tredicesimo, è la prima Via; l’Equilibrio
Puoi usare la Chiave contro la candida prigione per uscire…Squarciare il tessuto e distruggere le anomalie ma il tempo e lo spazio non saranno indulgenti con gli esterni.
Entrambi morirete e tutto sarà bilanciato.”
“Cosa succederà alla mia povera anima? ...”
“Questo non ti è dato sapere.”
Risponde, senza cattiveria o gentilezza. Si muove verso di me, con un gesto lascia che i miei occhi si fermino sulla Scheggia;
“La seconda Via; la Morte.
Puoi usare la Chiave contro di te, come Egli ti ha indicato...La morte del Tredicesimo renderà potente l’Immondo Serafino.
Lui e la sua prole devasteranno Nosgoth tramite l’unico corpo concessogli.
Il tuo corpo.
“La terza Via; il Tempo.
Puoi restare qui, in eterno …Sorvegliare il demone per il bene di tutti.
Eoni passeranno e il demone saprà tentarti.
Starà a te resistergli e le Scelte che rimandasti ti si ripresenteranno.
“La quarta Via; la Mente
Puoi non usare la Chiave, provare a ragionare con lui.
L’Immondo non è solo carne, sangue e tendini.
Egli ha portato gli uomini a seguirlo usando solo la propria voce. Discutere non ti costerà nulla e alla fine giungerete ad un patto.
“La quinta Via; gli Stati.
Puoi non usare la Chiave, perseguire i tuoi intenti e convincerlo a tornare indietro.
Conservare i due mondi sani, intatti, senza che questi siano contaminati dalle vostre presenze.
Nosgoth e i Piani non ne risentiranno e nessuno, in ambo i piani, ricorderà chi o cosa voi siete.
“La sesta Via; la Natura.
Puoi non usare la Chiave, combatterlo, liberare e uccidere il mostro. La tua natura umana, brutalizzata da quella vampira e bruciata dalla spietatezza del demone. Tre nature che si scontrano, sfruttando ciò che Egli ti ha donato, in un epico ed eterno scontro di volontà da cui un solo vincitore ne uscirà indenne.
“La settima Via; l’Energia
Puoi non usare la Chiave, provare a svuotare la tua anima dei suoi doni. Restituendogli l’energia che accumulasti dopo ogni transazione, riuscirai a farlo retrocedere ma di te rimarrà solo il ricordo.
“L’ultima Via; il Conflitto.
Puoi usare la Chiave contro la tua stessa anima…Convogliare il mostro direttamente nel tuo essere per poi sconfiggerne l’odio e la brama di potere.
Egli è eterno così come lo sei tu.
Alla fine vincerà ma resterà intrappolato qui, per sempre.”
“Perdo comunque…” sibilo sconfortato;
“Non si tratta di vincere o perdere ma solo di scegliere.
Sono tutte vie imparziali, uguali, logiche.
Hai vissuto per mezzo secolo nell’inseguire la tua logica, la tua visione delle cose. Furono parole tue “ dice mutando la sua voce nella mia:” Non voglio che vedano la mia vendetta come atto di Giustizia o conseguenza della mia natura mezzana.
Deve essere Logica.
Imparziale.
Pura… Così come lo sono le Vie.
Sono state scelte da altri per te ma le loro impronte non sono visibili sulla strada tanto quanto le tue.
Il tuo camminare, il tuo pensare, il tuo volere plasmerà gli eventi che scaturiranno dalla Scelta.
I fiumi corrono sempre con lo stesso moto, sta a voi mortali deviarne il corso.
Per Creare…o Distruggere.
Delle intenzioni, al fiume nulla importa, egli resta tale e imparziale scorre, facendo bene e male, in egual misura.”
“Sapiente, mi hai svelato il destino delle mie azioni. Come posso io cambiarle se sono già state scritte?”
“In tempi più giovani, vedendo, vivendo, pensando, facendo ciò che tu hai visto,vissuto,pensato e fatto, sarei stato in accordo con te ma ora che ho visto lo scorrere del tempo non sarei sorpreso se un'altra moneta cadesse di taglio a Nosgoth… “
Resto impietrito, quasi sperduto davanti alla monumentale saggezza di quell'emanazione. Ella mi arride, carezza il mio volto prima di lasciarmi con un sussurrò etereo;
“Rallegrati, immortale, poiché ho deciso di farti un dono; una rivelazione.
Qualsiasi scelta tu farai, sappi che nulla di ciò che è stato qui ti sarà noto in futuro. Gli accadimenti che scatenerai in questo luogo non avranno tempo sul tuo piano, ne memoria nella mente.
Così come iniziò, tutto cesserà, come se nulla fosse mai accaduto.”
“Perché? Perché soffocare i ricordi di questi momenti.”
“…Ne desidereresti?”
“…Credo di no…”
Sparita dal mio sguardo, così come si era presentata, lasciandomi con un comando.
Scegli…
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt …
Il destino conduce chi lo asseconda, e trascina chi gli si oppone.”VEIVE – Rise of Gods, soundtrack
eduta su una pietra, attendo il compiersi del Fato.
Dinnanzi al mio sguardo vi è un mostro del passato, ed un secondo lo fissa, impaziente.
Che strana sensazione, gran parte della mia vita in questo tempo ha girato intorno a questo Monolito e alla creatura che ha generato.
Sapevo che oggi avrebbe compiuto l’ultimo passo, quel povero stolto di un mezzano.
L’ho seguito nell’ombra, sfruttando i miei Doni Oscuri per negargli la mia presenza, passo dopo passo, Monolito dopo Monolito. Troppo cieco per vedere la verità, troppo distratto dalla sua ricerca per accorgersi di me.
Cosa pensava, che lo avrei lasciato andare per il mondo senza che continuasse ad operare sotto la MIA volontà?
Da quando giunse a casa mia, tronfio di orgoglio decadente inculcatogli da Kainh e la sua stolta Alleanza, tutto ciò per cui avevo lavorato ha rischiato seriamente di andare in fumo.
Stolto bastardo pieno di alterigia…Se ripenso a come hai osato umiliarmi, mi viene voglia di dar fuoco a tutto!
Da qualche minuto ormai è sparito all’interno della superficie rocciosa, il Padre originale lo ha richiamato a se per infestarne il corpo.
Così era scritto sui Tomi della Biblioteca Silente…almeno, i frammenti che ho decifrate lo affermavano con ardore.
Sacrificare il capro nutrirà il Dio e quando anche l’ultima scheggia sarà risanata, egli ascenderà nel corpo del Tredicesimo
Attendo nervosamente, le gambe mi tremano, quasi volessero accelerare il tempo correndo sulla Ruota del Destino. Presto, l’era dei vecchi Dei tornerà.
Squillino le trombe, si annunci il desio di questo mondo!
Tutti i passi sono stati compiuti nella giusta direzione, tutto è stato predisposto, tutto è pronto per la rinascita!
L’emozione squarcia il cuore e rende irrequieta la mia anima.
Se solo fossi qui, Padre.
Se solo potessi vedere ciò che ho realizzato per la nostra casata! Fiero e orgoglioso saresti di me, Oh Padre!
Posso quasi vederti; lo sguardo nobile e forte, gli occhi pieni di fiera e muta soddisfazione.
Tutto sembrava perduto, la nostra nobile discendenza annichilita dalla corruzione e dalla tua perdita. Ridotti a sciacalli, cani necrofagi buoni solo a bruciare per aggiungere cenere alla nostra Città.
Presto, quella sozzura sarà spazzata via e i legittimi eredi cavalcheranno il mondo.
Secoli di falsità, decenni di patti stipulati con sudice creature a sangue caldo, attrice nel ruolo di un mentore per immondi ibridi senza pudore.
Mi sono piegata alla volontà di quei poveri stolti dei Monaci del Silenzio e di Irmok Seven, quanto orgoglio mi è costato dover scendere a patti con quella sudicia nullità.
Spera davvero che, alla fine dei giochi, io spartisca il potere con lui?
AH! Stolto uomo…Il dominio di Nosgoth non può essere condiviso, l’idea di un’eterna e duratura alleanza tra vampiri e umani è risibile quanto rivoltante!
Appena mi sarà possibile, me lo leverò tosto dalla schiena e annichilirò quella squallida cosca di uomini silenti una volta per tutte. Prima di assaporare il dolce sapore del suo sangue raro dovrò attendere che tutto si compia. Non posso rovinare i giochi a causa della foga.
La fretta e la boria hanno ucciso Dumah.
Io sarò più saggia.
La notte mi parla mentre attendo il ritorno dell’immondo.
Dal Monolito non si sente più un suono da quando ha risucchiato il Tredicesimo. Non ho dubbi su ciò che succederà, ho studiato i tomi dei Silenti fino alla nausea.
Samah’el Khan Tredicesimo Infante, non vedo l’ora di strapparti l’anima e rigenerare il mio casato.
Vedrò di ucciderti rapidamente e senza dolore; almeno questo te lo devo.
Guardando indietro, feci la scelta giusta a salvare quel mezzo sangue e lasciare che vivesse come nullità in quella squallida cittadina di montagna.
Se non avessi avuto questa grande opportunità, sarei potuta diventare una marionetta dell’Alleanza.
Quegli accidiosi perditempo, potrebbero conquistare tutta Nosgoth se solo avessero il fegato di fare un massacro. Mietitori, ributtanti scarti di letamaio spettrale. Fermarono l’ascesa del Negromante con stolte parole ingioiellate di gloria e virtù.
Soul, vecchio pazzo. Avevi il mondo in mano e non hai avuto l’ardore di distruggere quei fastidiosi esseri blu. Chissà cosa avrai pensato, chissà cosa avrai visto per cambiare il tuo glorioso animo di conquistatore in quello di miserevole fantoccio dei Mietitori.
Oh, Dei! Sostenetemi nella mia giusta indignazione!
Ma tutto questo non ha più valore, ormai…Quando anche quest’ultimo Menhir verrà assorbito, il Culto sparirà per sempre e la terra sarà purificata da quell’orrida testimonianza. L’anima di Víðarr sarà completamente assorbita dall’anima del Tredicesimo, diventando un rinforzo per la mia linea di sangue, infiacchita dal tempo.
E quando finalmente avrò il potere, costruirò il MIO impero.
Non ci saranno Consigli di Guerra o altre fandonie del genere.
Ci sarò solo io e il MIO clan!
Veivehim…Un armata di vampiri puri!
Il capostipite ha fatto degnamente il suo tempo…
Ora è giunto il mio.
Finalmente! Qualcosa sta accadendo.
Il mondo si lamenta, contorce se stesso come tormentato da qualcosa di più imponente della volta celeste. Il Monolito comincia a creparsi, perde molta della sua austerità mentre si sgretola.
Le manifestazioni di quel potere mai si erano fatte così violente, comincio a sentire la pressione dell’energia sprigionata dal Monolito sulla pelle.
Retrocedo al sicuro dietro una formazione rocciosa e assisto a qualcosa che proprio non mi aspettavo.
Dopo più di un secolo, il signore del silenzio manifesta al fine, per un istante, tutto il suo ardore.
Ogni suono, ogni sibilo, tutto ciò che era possibile udire viene istantaneamente negato ai presenti nel raggio di miglia. Lo sento, lo posso quasi vedere, percepisco per pochi inestimabili secondi quel potere immenso, immaginando cosa sarò in grado di fare una volta che sarà mio.
L’enorme Mostro di pietra muore in un rantolo granitico, privo di forza, ormai troppo debole per ergersi come pria.
Del Tredicesimo non vi è traccia finché non vedo la terra stessa, che fino a qualche minuto prima era stata protagonista della discesa dell’altare demoniaco, pulsare senza ritegno come un cuore sepolto nel fango. Vedo degli artigli scavare il pantano che li seppellisce, freneticamente.
Un lamento raccapricciante fa da colonna sonora alla resurrezione del Tredicesimo, partorito dal corrotto utero della terra come un demone della fossa.
Rantola, si contorce, tossisce grumi di terriccio prima di portarsi completamente fuori dal limo come un condannato sepolto vivo. Il corpo avvolto da manifestazioni brucianti dell’alfabeto demoniaco, cade in terra e li sta. La sua pelle sembra quasi carta deformata dalla pressione di uno scrittore con la mano pesante.
La visione di quella creatura mi lascia paralizzata.
Cedo ad una cauta curiosità e attendo dietro il mio rifugio, osservando con occhio attento lo scorrere degli eventi.
Intravedo un movimento, le dita scattano come percorse da elettrocuzione. Non vedo i segni dei sigilli demoniaci, niente corna, niente coda…la cosa non quadra.
I movimenti della pelle sono ritardati rispetto a quelli del corpo, come se qualcun altro abitasse quell’involucro, qualcuno con dimensioni e forme diverse dalla crisalide che ora lo contiene.
Lo vedo agitarsi e mugugnare, artigliate e morsi vengono dati dall’interno a quell’epidermide ormai inutile.
Leggo dolore e paura nel suo sguardo, sentimenti che non si addicono ad un demone.
Sembra soffocare, urla e si dimena come un verme infilzato da un amo; è inascoltabile.
C’è qualcuno dentro di lui che tenta disperatamente di venire fuori, perso in una sacca di pelle chiusa.
La pelle si stacca lentamente dal corpo sottostante producendo dei rumori sciabordanti, ad ogni unghiata che squarcia il derma, melma nauseante color pece ne sgorga.
L’addome sembra esplodere e una mano bifida munita di artigli ne fuoriesce, coperta di nero plasma coagulato dall’odore pungente.
Come un nascituro dilania le viscere putrescenti della madre ormai cadavere, per conquistare il respiro della vita, il Tredicesimo continua ad emergere da quella specie di pelle finta che, fino a qualche minuto prima, abitava senza rogne. Una vespa letale nata in un bruco infestato, si strappa di dosso quella muta ormai inutile prima di cadere in ginocchio, tossendo la stessa melma di cui è ricoperto.
Sembra più calmo ma ugualmente spaventato, osserva le proprie forme tentando invano di pulirsi il viso da quella lordura. Guarda il suo vecchio involucro e sobbalza terrorizzato, scalciando si allontana dalla sua vecchia epidermide...non sembra capire cosa gli sia accaduto.
Scatto veloce come il vento, forte dell’effetto sorpresa e dei miei doni oscuri.
Gli pianto un paletto nel cuore, il corpo è pur sempre quello di un vampiro, deduco che ne possiede tutte le debolezze. La creatura cade come morta, privata del sostegno cosciente.
Ora posso osservarlo più da vicino.
Cosa diavolo sei?
Ha orecchie appuntite, zanne aguzze, tre falangi al posto delle dita delle mani e due artigli ai piedi. La pelle è pallida, tinta di un rosa morte tendente al verde. Il corpo è molto robusto, immacolato da ogni cicatrice che lo segnavano in precedenza. Sul volto non vedo mutazioni, non vedo malformazioni ne tatuaggi.
Scanso un ciuffo di capelli nero corvino ma non trovo le creste cefaliche.
Con i polpastrelli tento di spalancare quelle palpebre serrate; le iridi non sono deformi e oblunghe ma anch’esse antropiche, sclera gialla e occhi verdi.
Le labbra leporine da bestia sono diventate umane, senza difetti ne deformazioni apparenti. A forza gli apro la bocca e vedo ciò che più mi fa tremare; i denti erano tutti canini, alcuni più lunghi altri più corti e la lingua è coperta di sottili denti ricurvi e acuminati...Disgustosa.
Gli occhi continuano ad osservarlo, non possono credere a ciò che vedono.
Ha tutte le sembianze di un dumahim originale…se non fosse per il sangue che lo ricopre, ne avrebbe persino l’odore.
Un Dumahim immacolato.
Impossibile!
Doveva essere un demone ad uscire da quell’oscuro Totem, non un vampiro!
Per quanto puro e incontaminato, utile per me più che mai, non avrei mai immaginato che si potesse giungere ad un tale risultato. Non vi era scritto nulla del genere sui sacri tomi…e allora come diavolo è successo questo…miracolo?
Lo alzo tra le braccia, trema in modo vistoso nonostante il paletto sia saldo nel suo cuore. Non so cosa sia successo a questo corpo, e non mi importa. Insieme, spariamo nelle ombre del mondo che nostri Padri ci hanno lasciato in dono.
Quando arriviamo al tempio, ogni cosa è stata predisposta, tutto è pronto.
L’officiante è sotto i miei comandi, così come la servitù. Hanno ubbidito perfettamente ad ogni mio ordine. Quattro servi hanno preso fuoco nel tentativo di portare l’ascia di questo reietto al sicuro. Stolti umani, bastava avvolgerla in un panno per poterla trasportare.
Inutili pecore.
L’arena usata usualmente per i sacrifici è pronta; al centro è stato posto il Sigillo del Signore dei Silenzi, utile precauzione per evitare che il Tredicesimo reagisca o scappi.
Sulla sommità della colonna fluttuante è stato posto il Filatterio, pezzo fondamentale per la conservazione dell’anima prima della trasmigrazione.
L’artefatto lo sento vicino, cinge il mio pallido collo, tramite questo piccolo monile potrò iniettare l’anima pura del figlio in me, per rigenerare la forza perduta del sangue.
Ordino ai miei sudditi di assicurare le catene incise di glifi a polsi e caviglie di quell’immondo. Un modo per testare se la mia teoria è giusta; i ceppi si illuminano di energia glifica.
La cosa mi rallegra non poco.
Chiedo ausilio a due servette per lavare via quell’orrido e putrescente sangue; non voglio che mi rovini la festa. Mi detergono con latte di capra e vestono con i sacri stemmi del Clan. Ancora intenta a mettere l’ultimo dei miei ninnoli, sento il pargolo destarsi, gemere e ringhiare.
Dò l’ordine di procedere con il trattamento, dopo tutto non sono ancora pronta per mostrarmi.
Ho i capelli che sono un disastro; che lo torturino un po’ prima, facciamogli perdere sicurezza e baldanza.
Dall’altra parte delle mura riesco a sentire tutto.
I miei buoni servi sono davvero abili nell’infliggere il massimo del dolore senza causare danni mortali.
Mentre avanzo, fiera ed eccitata nell’oscurità del corridoio che da all’interno dell’arena, posso vederlo chiaramente. Si dibatte come un leone pieno di energia seppur sfiancato dall’assimilazione del Monolito e dalle percosse dei miei sgherri. È coperto di ferite, le ossa di gambe e braccia sono rotte, eppure è ancora pieno di energie.
Glie lo leggo negli occhi; è furente.
Riconosce questo posto e sa cosa si fa qui.
I miei buoni servitori lo hanno ridotto uno straccio, sanguina da ogni poro e gli mancano diversi denti in bocca.
“Calmati, figliolo. I tuoi sforzi sono futili.”
Che comicità, sembra quasi incapace di controllare i propri movimenti, scatta e si slancia senza senso per evadere da quei ceppi e torcermi il collo.
Adoro quando le vittime si alterano, mi inebria di potere sentirle gemere.
Che sublime sensazione mi stai regalando, Samah’el Khan.
Cammino in cerchio come uno squalo che gira intorno ad un incauto nuotatore;
“Tu non sai quanto mi dia gusto vederti qui mentre ti contorci…mentre ti dimeni come una bestia ferita…Nonostante tu sia non-morto come me, riesco a percepire il puzzo del tuo odio…”
Ringhia, cerca di mordermi mentre gli sfioro la testa come farei ad un cane incatenato. Pretende di farmi del male avendo in bocca solo una dozzina di denti.
Pateticamente sublime;
“Agitati. Abbaia, ringhia, mordimi se puoi.
È tutto inutile, mio prezioso, quei glifi incisi sui ceppi che hai al collo sono stati fatti a posta per te.
C’è solo un ultimo dettaglio da sistemare e poi potremmo cominciare a giocare…”
Persiste nel tentativo vano di liberarsi, senza mai staccarmi gli occhi di dosso. Non deve vederci troppo, quegli splendidi occhi sono nuovi, inadatti ad un posto così illuminato.
Poco male, presto li chiuderà per sempre.
Entra nella mia mente, che arroganza!
La voce è rimasta la stessa. Non credo sia migliorato molto a livello cognitivo, resta sempre un fenomeno da baraccone alla fin fine. Raglia indignato, chiede spiegazioni, il motivo che mi spinge a fargli questo. Rido di gusto, assaporo la comicità di quelle parole dette con tono autorevole ma proferite da un uomo piegato.
“AH! Bestiola cenciosa. Gioisci poiché oggi avrai l’onore di partecipare alla mia ascesa! Per far sì che tutto sia al fine funzionale, il sacrificante deve dare il proprio consenso all’offerta.
Ergo, prepara la tua sudicia anima perché presto dimorerà nel mio regale corpo.”
Mi sputa addosso del sangue coagulato, dritto sul mio splendido vestito di seta…Cafone.
Se c’è una cosa che odio è quando le persone si intestardiscono.
Non posso di certo lasciargliela passare liscia! Ne va del mio orgoglio e del rispetto per tutte le donne!
Gli spezzo il braccio in due punti prima di ordinare alla servetta più vicina di ripulire quello schifo dalle mie preziose vesti.
Latra e sibila per il doloro…poi lo sento ridere beffardo, insiste col dire che mai si piegherà alla mia volontà. Sporco bastardo, di certo non hai preso l’intelligenza dal Clan ma la spacconaggine, quella sembra essergli arrivata da Dumah in persona!
“Sei sempre stato un problema, figlio mio, tu non sai quante me ne hai fatte passare…
Se ne avessi avuto l’opportunità, ti avrei spiccato la testa dal collo la notte stessa della tua nascita ma vai a sapere cosa ha in serbo la Ruota per ognuno di noi…
Pensi davvero che abbia avuto mera pietà di te quella notte?
AH! Non essere ridicolo…Chi mai, sano di mente, avrebbe avuto sola compassione per il figlio di un demone? Oh, no…Mi servivi.
Avevo bisogno del tuo sangue, della tua sudicia anima. Sei una MIA proprietà e solo per questo sei approdato fin dove sei.
Ora, è arrivato il momento per me di riscuotere il tuo debito e di liberare Nosgoth dall’immondizia che rappresenti.”
Gli sfondo la mandibola con un calcio prima di schioccare le dita.
Leste due serventi trascinano una pesante gabbia in cui, sorpresa sorpresa, ho rinchiuso la piccola umana a lui tanto cara; credo che la puttanella si chiami Nimue Uruk-qualcosa…
Bha! Poco importa.
L’importante è che l’effetto sia assicurato.
I miei buoni servitori la tirano fuori e tengono stretta, le membra femminee non sono capaci di lottare come si deve, sembra uno scarafaggio che si dibatte mentre un bambino gli strappa le zampe.
Mi scappa una risata nel vederla dimenarsi.
Il Tredicesimo sgrana gli occhi, tenta invano di rialzarsi; ha la rabbia nelle vene e la follia nell’anima.
Che spettacolo.
Abbaia, il cane. Ringhia e ruggisce contro le catene come fosse un animale, sa bene che posso fare tutto ciò che voglio con lei. Finalmente, si calma, quei begli occhi verdi fissi su di me, lo sguardo supplicante.
E’ così eccitante.
“Oh, si…Adoro quello sguardo.
Cocciuto di un bufalo. Te l’ho dissi la prima volta che ti feci dare alle fiamme i tuoi cenciosi stracci; sei sempre stato troppo legato al mondo mortale …
La condizione a cui quel cucciolo di umano è legato non ti appartiene più, lo vuoi capire?
Sei andato oltre, sei molto più in là e né lei né quella puttanella di cui eri tanto invaghito, potranno mai raggiungerti.”
Ops, nella mia superbia ho parlato troppo!
Glielo posso leggere negli occhi, gli ingranaggi della mente si sbloccano e corrono. Ricollegano. Elaborano fino a portarlo alla verità.
All’inizio, sembra quasi morire sotto i colpi di ciò che ha appreso…poi, oh, oh, oh,..poi diventa una fiera!
“…Non venirmi a dire che non lo avevi ancora capito?!
Le disgrazie a Nosgoth non esistono. Tutto è ponderato e calcolato per far sì che l’ago della bilancia penda a favore di questa o quella fazione.
La tua sgualdrina di Freeport, Isthar Windscale, puttana di bassa lega…L’ho cercata, cacciata, predata…era davvero divertente vederla ai ceppi mentre gli uomini assoldati dal mercante che IO STESSA pagavo per tenerla rinchiusa, la violentavano. Giorno e notte, per il puro desiderio di distruggerla e fargli perdere speranza e fede nelle tue capacitò di “mastino”
Era tutto perfetto finché non hai deciso di cercarla…e allora ho dovuto prendere provvedimenti.
Ti avrebbe fatto perdere di concentrazione, per questo l’ho denunciata come strega.
Pagare un povero perdente per accusarla di questo e quello, roba di poche once d’oro. Corrompere il giudice alla pena massima e spingere il suo dolce maritino a fare ammenda per lei e abbassargli la pena; quello è stato un po’ più impegnativo…ma una volta che sai leggere le menti degli altri e governarle a tuo piacere…il gioco è fatto.
Non sarei mai arrivata né a lei né a quest’altra puttanella se non fosse stato per te e la tua mente contorta.
Leggerti il pensiero è stato facile come rovesciare dell’acqua in terra.”
Gli occhi si infiammano, si infervora ad ogni singola lettera che pronuncio con tono sprezzante e velenoso. Capisce che tutto è partito da lui, dal suo incessante pensarla, dal suo occludersi la mente notte e giorno sul di lei pensiero e che ha dato a me l’occasione di poter capire i suoi patemi, i suoi punti deboli e sfruttarli per ottenere ciò che più volevo.
La sua “adorazione” per questa creatura pura lo ha portato alla rovina.
Ringhia sputando sangue e, per un istante, quasi sembra potersi liberare tanto violento sembra esser diventando. Aggressivo, brutale, animale, possente nel suo ultimo tentativo di massacrarmi.
Assolutamente inebriante.
Meglio rincarare la dose, giusto per farlo andare ancor più nel panico; spezzo un dito a quella dannata sangue caldo che non la smette di offendermi e rassicurarlo.
Più lo punzecchierò, più in fretta si spezzerà e darà al fine la sua approvazione.
Afferro con disprezzo il volto della ragazza e ne studio i lineamenti; è davvero molto bella per essere un sacco di carne, patetica e schifosa come tutti gli esseri umani.
Cosa ci troverà mai in una così;
“Te le sai scegliere le donne, figliolo. L’ho sempre detto. Non c’è niente da fare, queste creature dal sangue caldo ti fanno uno strano effetto. Pelle di marmo, occhi ghiaccio, capelli color del legno, viso affilato e tratti regali…Conoscendoti, non l’avrai mai toccata neanche con un dito.
No, non sia mai. Questa è la tua luce, la tua Stella Polare, la tua piccola dannata bastarda che ti lega ancora ad un barlume di inutile umanità.
Tu sei troppo in alto per noi donne, vero?
Se vuoi posso farti un favore…La potrei far deflorare da uno dei miei cani prima di darcela in pasto …
Oppure potrei controllarne la volontà e farti supplicare di possederla per poi costringerti a squarciarne la gola e berne il sangue…Oppure potrei farla lavorare per bene dal carceriere per poi applicarle il Marchio della Strega.
Scommetto quel che vuoi che pagherebbe per infilare e rinfilare la sua spada nel fodero di questa cagna, eh eh eh eh”
“Non ti azzardare a toccarmi, mostro!” dice lei, quasi mi stacca un dito a morsi.
Che caratterino, eheheh. Mi piace!
La belva ai ceppi le parla, a modo suo, e gli occhi della donna si aprono, dapprima increduli poi sempre più colmi di preoccupazione e terrore;
“Vigo…” sussurra lei come se fosse la prima volta che lo vede in faccia.
”AH! Che codardo che sei.” Esplodo in una risata divertita” Non ti sei mai fatto vedere in volto dalla donna a cui tanto tieni?
Malandrino! Non si mente alle donne. Prima o poi la verità, si sa, la facciamo saltare fuori!”
Quel cane di mio figlio abbassa il capo, senza mai smettere di guardarmi con odio.
La donna sputa ai miei piedi, cagna maledetta.
“Tu possa morire, bestia immonda! Cosa gli hai fatto! Lascialo andare!”
Osa darmi ordini? AH! Sciocca mortale.
Le tiro un manrovescio dritto sul volto, il colpo non è poi tanto forte ma le sue gambe cedono. Con un artiglio le incido il volto, disegnandole una croce che le va dalle tempie alle guance.
Lei urla di dolore tutto il tempo, Il Tredicesimo scalcia e ruggisce, è furente! Buon segno, vuol dire che sto agendo sulle giuste corde.
Rincaro la dose, le sfregio le guance, la fronte e il mento, il sangue le cole dal viso insieme alle lacrime.
La voce di mio figlio si fa meno autoritaria, più disperata.
Siamo vicini all’obbiettivo, al fine!
Do l’ordine, non devo neanche fiatare e i miei bravi servi decerebrati la prendono con forza.
La ragazza grida e subito la voce del dumahim si infila nelle pieghe del cervello, implorando clemenza. Oh, che splendida canzone che risuona nella mia mente.
E quegli occhi, si, sono proprio quegli sguardi che nutrono la mia anima di puro godimento!
“Sai cosa devi dire per far finire tutto. Dai il tuo consenso o ti giuro che la scuoierò e ne bollirò le carni in acqua salata da viva!
E tu guarderai, oh se guarderai. Tu stesso ne sarai il conciatore!”
Sembrano più intenti a fissarsi che ad ascoltarmi, lei lo implora di non darmi credito, di non piegarsi alla mia volontà.
Il capò chino di mio figlio mi dona la serenità che cercavo. Acconsente al sacrificio rimanendo in ginocchio, la testa abbandonata sul collo come non gli appartenesse più, lo sguardo basso e disilluso. La sua volontà piegata al mio volere. L’unica cosa che chiede è di lasciarla vivere.
Il Filatterio sembra esplodere in una bolla di luce, le catene coperte di rune glifiche brillano, ebre dell’energia di quel dumahim puro.
Spezzare l’animo di un dumahim.
La più ardua delle imprese, compiuta.
Prendo posizione, i miei schiavi rimettono la ragazza nella gabbia da belve. Lei piange più di prima, stringe furiosamente le sbarre, fissando il suo “prode cavaliere” con gli occhi gonfi di lacrime.
Non le sarà torto un capello né da me né dai miei servi. Sono una donna d’onore io.
Padre!
Ammira il mio operato…
Il momento di pura gioia si infrange come una specchio colpita da una dama scontenta nel vedere il proprio riflesso. Risa furiose, gravi e assolutamente grottesche, miste all’inconfondibile rumore di armature in movimento sconvolge e annienta i miei sogni di gloria.
All’improvviso mi ritrovo circondata da file e file di Cavalieri e Paladini Sarafan.
Come è possibile?! Il panico mi assale. Chi ha osato farli entrare!?
Gli oggetti meravigliosi continuano la loro marcia, le catene drenano e il Filatterio assimila. Stringo forte l’artefatto sul mio petto mentre, nell’altra, ho il coltello rituale. Quei porci indottrinati hanno il sangue dei miei ottusi servi sulle loro cape dorate, un massacro di seguaci ordito da mani occulte.
Come sono giunti sin qui! Come!
Solo due persone sapevano come entrare in questo luogo sacro, predisposto per il sacrificio e la Transizione. Me medesima e il sacerdote del rito …
Mentre proferisco queste parole nella mia mente, il velo si solleva dai miei occhi e comprendo. Non posso credere al mio ragionamento, mi volto rapida verso l’officiante del rito vestito di una longa toga che, passandosi una mano sul viso, rivela il suo vero volto in una salva di scintille.
Irmok Seven ride vittorioso…
Il suo lacchè, il paladino Gargan De la Cruz, accompagnato dal cucciolo del Mastino, Jeager De la Cruz, compaiono da un tunnel alla mia sinistra. La sconfitta è totale…ma se pensano che gli lascerò rovinare la mia felicità si sbagliano di grosso…
Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi.
Ho gareggiato in una bella gara, ho concluso la mia corsa, ho mantenuto la mia fede.GARGAN DE LA CRUZ – Wrath of The Saraphan Order, soundtrack
r l’oscura cava da cui lo corpo mio cinto di sacre rune s’avanza dirada le orride cime per favorire il guardo.
Lo demonio a me innanzi sgrana l’oculo e sibila, con passo deciso mi accingo a prenderne l’anima.
Anatema e sventura per codesto guscio senza potestà!
Sia io cento volte maledetto per esercitare, in così falso modo, non la mia volontà, bensì la loro!
Santi eristici e alti prelati, comandano alla maniera di brava marionetta. Mutatomi più in succube scudiero che Paladino dell’Ordine. Mi comandano, loro è la mente che muove il corpo.
Eppur la coscienza ancora è desta, prelevata da un tempo antico, sigillata con l’inganno in questo mondo.
Oh voi, che smorzaste l’animo mio mai domo dal cercar battaglia per la giusta causa! Carogne putrescenti, che insudiciaste lo mio agire con i vostri vani sogni colmi d’infamità!
Né più mai sentirò in me l’ardore del tempo in cui fui Sarafino dell’Ordine, fintanto che non compirò l’ingrato compito di assassinar la meretrice e sostituire l’immondo succhia sangue della notte con lo mio retaggio.
Jeager de la Cruz, parente mio di lontana generazione, affine a ciò che fui in passato più di ciò che or io sono. Salva l’anima tua, segui il destino che sceglierai da te. Scappa!
Io persi in malo modo tale fortuna, forzato nell’esercizio di questa mia nuova funzione di cane al guinzaglio.
Se potessi dirlo di mia sponte, ragazzo, tosto te lo direi; fuggi, fuggi lontano e non voltarti!
Abbandona le Sacre Vesti ormai lorde di malvagità. I tempi glorioso sono morti, non massacratori ma benefattori di Nosgoth. Protettori della terra di tutti noi fummo, mossi sol contro l’ingiustizia.
Da nobili cavalieri a facchini per Imperatori atroci.
Di salda presa stringo scudo e maglio, così come li glifi dell’armatura insensibile ardono di sfavillante luce verde. La vedo, l’oculi suoi saturi di paura, conosce i miei titoli; Malleus daemoniorum, Mozzo della Ruota, Massacratore di Notturni, Giudizio degli angeli.
Ah, che nostalgia, che pena ricordare i bei tempi della giustizia e dell’onore.
“Cancella il debito di vita che contraesti con la Ruota, demone immondo! Ch’io possa gridare a mari e monti che la bestia è morta e che Nosgoth è monda!”
La dama si fa indietro, con un gesto della mano richiama uno stocco di bianca ghiaccia.
“Ah, quale stoltiloquio colma le mie orecchie. Almeno ch’io non abbia visto male, i vostri colori si addicono più ai miei natali oscuri che ai vostri, Cavaliere!
I simboli sacri di Turel son quelli che porti con cotanta tracotanza! Emblemi di vampiro!”
” Sacripante, preparati a rendere l’anima! Lo mio scudo gentilizio ti porti sventura e morte, demone saccente! Che la stirpe tua è solo OMBRA di un Impero assai più nobile!”
Il clangore di acciaio che morde acciaio satura l’aere, ella attacca con arti demoniche che li glifi miei sviliscono. Alcuni soldati dell’Ordine, comandati dall’osceno influsso della dama d’ombra, si lanciano su di me ma nulla possono contro la mia forza. Colpo su colpo, mi faccio strada tra i miei compagni, verso di lei.
La dama è grazia letale, schiva li colpi miei da cui non può riparare e con la punta dello stocco suo mi mena di un falso impuntato. Riassetta la posta, sfonda la difesa mia, perfora l’elmo sacro e valica innanzi.
Il colpo è preciso. La morte, netta.
Cade l’elmo spezzato dal colpo, lo guardo del giovane Jeager si pianta su di me, orripilato e pavido.
Il corpo senza più prestanza né forza giace in terra senza vita e lo demone femmineo esultò e provoca Lord Irmok.
“Il tuo campione è passato oltre, lurido cane! Cosa ti mena in codesti luoghi lo ben so. Ciò che ignori, carne morta, è che non farai più ritorno a casa!
Vengo a prenderti, figlio di Uschtenheim!”
Ride la strega della notte ma ben presto il suo riso muta tosto in puro terrore quando la mia figura si ripresenta, salda sulle gambe.
Mobile, con l’arma in pugno, seppur senza capo.
La mano manca si accinge a prelevare l’elmo forato e lo pone ancora una volta sulla gorgiera ferrata.
Jeager de la Cruz quasi cade in terra per lo stupore, dilavato in viso di ogni sanguine.
La mia rifioritura lo impaurisce e paventa. Da lo cranio mio nulla sgorga, ne sangue, ne linfa, ne cervella.
L’empio stocco lama di ghiaccio centrato avea il capo, ma niente da ferir vi era incluso.
Ah, sia maledetto cento volte questo mio lercio cadavere che lo fato del Primo Guardiano subì.
Il Prode Malek , condannato tosto a l’oblivione della non forma.
Sorda armatura senza carne, ne ossa! Solo ferro di corazza e acciaio di lancia.
E così son io.
Privo di corpo ma forte di braccio, schiavo eterno di coloro che destaronmi dal sacro sonno di mrte, per incatenare lo spirito indomito a codesta corazza di antico taglio.
Siate voi maledetti!
Mille e mille volte dannati!
Con voce acida Lord Irmok impone parola;
“Oh, tu strega dei mondi oscuri, sciocca ragazza, nel tuo cuore crescano solo i germi del terrore!
Stolta succhia sangue, pensavi davvero che ti avrei lasciato compiere il sacrificio qui? Senza la mia presenza, Veive, nulla si potrebbe compiere!”
“Egli non ti appartiene più, Irmok. Non è demone, ne ibrido ma vampiro! Lui appartiene a me e al mio mondo e tu non hai diritto di rivalsa sulla sua anima.”
” AH! Rido della tua eristica supponenza!
Cosa ne sa la tua stolta razza di siffatte questioni? Così come una madre porta nel ventre il seme del Padre, egli porterà sempre con se il sangue del Signore del Silenzio. Egli è ancora legato alla sua natura di demone, rinata insieme al suo primo vagito! Anche se puro, egli è figlio diretto del Grande Capro Silente.
Egli attende dall’altra parte della sua pelle e tu sai bene che tutto ciò che appartiene ai Monaci del Silenzio appartiene a me e a me solo! Il Tredicesimo Monolito non si è ancora spezzato!”
“Sudicio umano schiavo di un mostro senza dignità, tu non sai nulla!
Egli è erede di Dumah, ora. Dimentica il Capro Immondo perché il suo animo è distrutto. Stai parlando da folle e folle rimarrai se pensi che te lo lascerò portare via!
Non ci saranno luoghi in tutta Nosgoth in cui non arriverò, non ci sarà una vita che la mia fame non consumerà. Ti ucciderò, in ogni tua forma, e banchetterò con lo sangre tuo fino all’alba dei tempi!
Non ti permetterò di sederti sul MIO TRONO!
Marcisci e dimentica i tuoi intenti, Irmok Lingua di Serpe! Niente di ciò che tu vuoi si compirà oggi!”
“TACI! MIO è IL SUO FATO, MIA È IL SUO FUTURO!” Ragliò il monatto, paonazzo di collera;
”EGLI MI APPARTIENE! Così come tutta Nosgoth!
Voi, fanatici vampiri senza Dio! Furono i tuoi antenati a condannare questo luogo ingaggiando un’assurda guerra santa con una razza avanzata che non volle piegarsi al vostro fantoccio divinizzato…e ora piangete e vi strappate le vesti in agonia mentre marcite nel vostro stesso fallimento.
I Sarafan vi sono superiori in numero e potenza, la gloriosa razza che cominciò una guerra santa non è in grado di sostenerne altre?
AH! Sapendo ciò osi pure reclamare Nosgoth come tua?
La sola rivendicazione possibile oggi sarà per ottenere una morte rapida. Per quanto possa essere possibile che una sozzura del passato quale tu sei riesca a comprendere il vero valore della parola onore! Dammi il medaglione della Transustanziazione o consegnalo tosto al giovane Cavaliere, se ti è cara la vita.”
“Mai! Preferisco perire, ma non senza averti recato danno!”
Non doma né sorpresa, la dama ancora stocca ma non verso di me. Gagliarda e potente si proietta contro mio figlio, Jeager, inerme e disarmato.
Lo mio braccio si muove, potente di uno passo obliquo, scansa il rampollo del mio retaggio.
Scudo e arma si scalfiscono, la carne della dama sullo mio maglio resta. Quando anche l’ultimo ardor svanisce nel vento della lite, ella cade, colta da pugna di scudo possente. Stramazza in terra e, come impietoso martello, l’arma mia le coste sue fracassa.
Senza indugiare in pensiero o rimorso, levo lo braccio covato di scudo per poi calarlo forte sul suo collo, come ghigliottina armata dal boia.
La belva stramazza in terra e spira. La testa ruzzola e insudicia il suolo di nero sangre.
L’oculo mi corre al demone incatenato. Osserva il tutto con sterile guardo e gelido cuore, eppure, l’ombra del giubilo scorgo sul suo volto.
Gode nel vederla giacer morta, la genitrice demoniaca. Sua madre et patrona muore e lui ride.
Cucciolo sadico o saggio martire?
Tredicesimo, infante indesiderato, scalcia, ringhia, non verso me ne verso la morta madre ma per salvar l’unica alma pura che respira in codesto luogo e che or giace chiusa in gabbia da fiera.
Agogna la libertà, non per se, ma per la dama dagli occhi blu.
Mi arretro e prelevo il poderoso gioiello dalla moncata testa di colei che fu.
Non di passo grave, ma solenne, movono lo corpo mio per volontà di Lord Irmok, verso Jeager che osserva confuso me, lo mostro e lo destino suo.
“Padre…” dice colmo di riverenza “Padre del mio casato, la vista mi confonde non poco.
Ancor riesco a mirare il segno della lotta nell’elmo che indossi, eppur è vuoto.
Cosa ti fecero, Padre mio…Cosa sei diventato? Spirito? Non morto?
Orrida visione o schiavo immortale di un tempo che fu?
Vedo in me indecisione, Padre.
Tormento e dubbi attanagliano la mia anima, non credo di esser pronto a togliere la vita per far sì che altro abiti le mie membra…L’Ordine non prevede un tale sacrifizio, non è questo vero? Vi prego, padre, fugate i miei dubbi perché io non so più cosa sia il dritto e cosa il roverso…Non dopo ciò che ho visto.”
Saggio, mio figlio dei secoli, tu mai saprai quanto condivida lo tuo cruccio e panico.
Sacrificarsi per le sorti e il potere, in una guerre tra demoni, è follia.
Fuggi! Menati lontano da questi luoghi per mai più farvi ritorno! Non dare retta a questa mia lingua ingannevole!
La volontà stritolata da antichi Dei e salmi osceni, bloccano lo mie pensiero.
“Quel che rappresento è L’Ordine e la sua podestà et volontà sul bene e male è legge.
Qui sono per guidare lo passo incerto di colui che da solo non può compiere il grande sacrificio.
Compi il tuo fato, figlio mio. Il tuo nome risuonerà di bocca in bocca, più agognato e famoso, amato e onorato dello mio.
Gloria immortale ti attende!”
Parole false, nulla di ciò che realmente esce da questo mio guscio è verità.
Eppure, ti cingo il collo con l’amuleto e stringo le spalle tue forti in falso abbraccio cortese che di gioia riempie i tuoi occhi.
“Ora va, che Il Primo Cavaliere Malek ti attende dall’altra parte per brindare con te nel Paradiso dei puri.”
Stringe le mani di metallo come a volerne percepire il calore. I fili si tendono, la lorica dannata mi conduce dalla giovane donna dal mogano crine, falangi di metallo e rivetti ne afferrano il collo.
Lo demonio incatenato smette di ruggire, il monatto esulta.
Con voce piena di boria, Lord Seven intona il canto dei Silenti, lo immondo simbolo di morte e trasmutazione si infiamma;
“Oh potente Dio dell’Abisso, mi pento e mi dolgo con tutto il core per li miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi silenzi, e molto più perché ho offeso Te, Infinitamente Potente.
Signore, perdona questo tuo figlio Immortale, che eoni fa smarrì la via per colpa di colei che ora è tornata alla Ruota!”
Il filatterio drena l’energia del canalizzatore, lasciandolo molle come argilla, spirito et corpo. Jeager de la Cruz avanza verso il Tredicesimo, armato e pronto ad estrarne l’anima per poterla al fine canalizzarla in lui. Quando tutto sarà compiuto, Lord Irmok pronuncerà il nome de lo Demonio, ridandogli vita vera.
Lo scricciolo tra le mie mani si agita e contorce.
Invoca il di lui nome, piange, ne sento l’umida lacrima sulle metalliche mani, dispera per le sorti del compare che non smette di guardarla, fiaccato dal maleficio. Ad un passo dall’Abisso, egli la mira e dispera per lei.
Nobile campione di storie cruente, possa tu trovare il conforto destinato solo ai grandi del passato.
Demone umile e d’animo nobile.
Ch’io sia dannato per i miei peccati e per l’affronto che recai a questa terra.
…Iniuriam ipse facias, ubi non vindices
Non vendicare un'ingiustizia, equivale a commetterla.JEAGER DE LA CRUZ – Circle of Nobility, soundtrack
adre, perdonami per ciò che sono.
Tutto intorno a me sembra pronto per bruciare, presto le mie membra saranno ospitate da qualcosa di più grande, più malvagio.
Non importa cosa Lord Seven mi ha promesso, non mi importa dei sacri scritti e dei grandi risvolti.
La mia anima brucerà, corrotta, lorda…per mia stessa volontà.
C’era un tempo in cui mi sentivo pronto per tutto questo, ero sicuro che il mio sacrificio avrebbe portato il bene a Nosgoth. Sapevo che avrei donato la pace al paese e grande onore all’Ordine, sacrificando la mia serenità per evocare un potere più forte, qualcosa da poter usare per il bene.
Eppure, nel momento culminante…
Padre, io mi pento di essere ciò che sono; un uomo irresoluto.
Indeciso per ciò che vedo.
Oggi non vedo il demone, vedo un uomo piegato, distrutto, che molto tempo fa mi ha tratto in salvo dal crollo di un’abazia infestata da un demone che ho contribuito ad uccidere…
Un uomo in ginocchio, deturpato nella volontà da un sadico e inumano ricatto.
Non so che grado di confidenza abbiano quella ragazza dagli occhi azzurri con questo mostro non morto, eppure sembra un legame puro. Incorruttibile, come fossero fratelli perduti, ritrovatisi in un pessimo momento.
Nessuno porterebbe sottoporsi ad un tale sacrificio, conosco pochi uomini capaci di dare la vita per salvare quella di un'altra persona, eppure…
Lui è qui, davanti alla morte, o peggio, all'annichilimento fisico e spirituale…e non si batte, non fugge, non tenta di aggredire i suoi carnefici.
Neanche mi guarda, troppo preso dal rassicurare lei, anima innocente…
Innocenza, purezza, onore, questi erano una volta i valori che permeavano i Sarafan, prima che il potere, l’odio e la morte ne infettassero il sacro corpo fino all’apice della torre d’avorio.
Lo guardo e non vedo paura per se stesso, per il suo destino…
Io vedo un uomo pronto, deciso, volenteroso di dare la vita e condannare un mondo corrotto per poter salvare l’unica anima pura in questo empio luogo…
Padre, io mi pento di essere ciò che sono; un vigliacco.
Pavido codardo che teme l’oblio.
Condannare una vita, per quanto corrotta sia, per dare vita all’avatar di un Dio blasfemo e distruttore.
Sarò giovane, inesperto e vile…eppure sento in me che ciò che si sta compiendo qui non ha nulla di giusto.
Il paladino che stringe il corpo di un’innocente non può essere mio Padre …ricordo come si parlava di te in accademia. Un uomo giusto, un protettore dei deboli e castigatore di demoni…
E guardati ora, mentre ricatti un vampiro più umano di tutti noi…
E io dovrei adempiere ad un sacrificio che negherà non solo la mia e la sua vita al mondo ma anche la bontà e la nobiltà che qui, ora, io vedo e sento scalpitare dentro di lui?
Ho odiato questo vampiro per lungo tempo, per motivi che mi sono stati inculcati talmente tanto e prolungatamente nel tempo che ormai…non riesco più neanche a sentirli propri.
Uccidere un uomo per potere, gloria e avarizia.
Un atto di viltà nei confronti dell’anima nostra, ricattarsi moralmente e fuggire dalle proprie decisioni, dalle proprie scelte, scansare i giusti pensieri per paura di non essere all’altezza delle aspettative create da altri...
Non è questa la vera codardia?
Codardia…è forse questo mio atto di sacrificio una manifestazione in terra della più grande codardia?
Padre, io mi pento di essere ciò che sono; un traditore…
Infido costrutto di un antico Ordine ormai sconsacrato, cane rinnegato, reietto da castigare, colpire, schernire e stornare.
Perdonami, Padre, perché oggi sono un traditore…che non si macchierà l’anima che hanno già spezzato per ridare energia alla tua gloriosa persona, nel compiere questo atto nefando.
Osservo il demone che ho davanti, lo costringo a guardarmi negli occhi.
È diverso nel fisico ma io so che li dentro c’è il mostro dalle verdi carni che anni orsono mostrò la sua natura misericordiosa.
Gli sorrido …e lui comprende.
Padre, perdonami se guido la mia mano contro il filatterio che consuma e drena i poteri del nostro nemico.
Perdonami se il pugnale sacrificale da me lanciato distrugge il prezioso artefatto e disintegra una volta per tutte le menzogne dette, i patti stipulati tra creature corrotte e i desideri di Lord Irmok che ti donò la vita sacrificando metà della mia anima come pegno per il tuo ritorno.
Il globo di luce che circonda il Filatterio esplode in un onda di dirompente energia.
Una potente esplosione scaraventa tutti in terra, me compreso, distrugge i sigilli e libera il Tredicesimo.
Il mondo è ovattato, il mio sguardo confuso. Vedo i bracieri esplodere e le lampade ad olio incendiarsi tanto da ferirmi gli occhi. Sento Lord Irmok urlare di terrore e fuggire da dove aveva fatto la sua entrata in scena.
Un rombo, come se fosse scoppiata una tempesta sotto terra; l’illusione di potere e gloria eterna crolla come un castello di carta, portando l’anfiteatro con se.
Mi alzo in piedi mentre fisso mio Padre, il paladino Gargan de la Cruz, che mi guarda di rimando.
La ragazza riesce a fuggire verso colui che ho sentito chiamare molte volte “il Tredicesimo”.
Tutto intorno a noi sta crollando ma io non ho più paura.
Lo vedo, lo sento…
Padre…mi sorridi.
“Perdonami, se ho voluto essere un uomo migliore” imploro.
“Va…figlio mio.” tuona potente prima di venir nuovamente manipolato da Lord Irmok che ne richiama la presenza per proteggerlo.
Lesto mi muovo, non penso al pericolo che incombe su di me e sul mio agire.
Aiuto il Tredicesimo a fuggire da quell’inferno di roccia e sento lo sguardo di mio padre su di me finché una frana non blocca l’entrata del tunnel che abbiamo imboccato per fuggire.
Corriamo, impacciati e sbilenchi, corriamo come cani sciolti e disperati.
I cunicoli sono tutti uguali, non comprendo dove la ragazza ci stia portando; è lei la prima della fila, lei conosce il posto.
Veniamo sballottati a destra e a sinistra, il demone che porto sotto braccio sembra stia recuperando lentamente le forze. Eppure sembra ancora debole, non reattivo.
Pesa come un macigno sulle mie deboli spalle ma riesco a sostenerlo anche quando parte del pavimento frana sotto i nostri piedi.
I crolli ci assalgono come cacciatori nel buio, ovunque tutto è in rovina inesorabile.
La voce della dama dai capelli marroni squittisce;
“Aspetta! Devo riprenderla! So dov’è!” dice con fare innocente mentre scatta troppo in avanti verso una porticina incassata nel muro…troppo svelta per noi.
Una voragine si apre tra noi e lei, la terra stessa desidera la nostra dipartita.
Il Tredicesimo cerca di raggiungere il luogo dove abbiamo perso la ragazza ma è troppo debole. Tentiamo di raggiungere l’altra parte ma l’intera struttura collassa e ci sbalza altrove, ci costringe a cambiare direzione.
Divisi, corriamo, non so dove andare e lui continua a guardarmi, implorandomi di tornare indietro ma vorrebbe dire morire stritolati dalle rocce.
Cerco di rassicurarlo, la ragazza è snella e agile, sapeva esattamente dove andare. Avrà sicuramente trovato un’altra strada per uscire. Lo convinco, è ancora debole e malleabile nella volontà.
Proseguiamo.
Mi dirigo verso una luce, mai mi sbagliai tanto. Il corridoio che porta all’esterno ha preso fuoco, i solchi lungo il muro vomitano olio e fiamme come bocche di demoni adirati. Un esplosione di aria calda ci investe, urlo di dolore prima di perdere i sensi.
Padre, perdonami…
Sento freddo, gli occhi sono ancora chiusi quando l’odore di erba umida si infila nei polmoni insieme al fresco vento del crepuscolo. I suoni della notte risvegliano la mia coscienza, scuoto il capo che mi pare più grande di svariate taglie e mi rimetto in piedi.
Ciò che vedo mi colma il cuore di tristezza.
Siamo fuori, il Tredicesimo deve avermi trascinato via da quell’inferno, i segni in terra e lo sporco che ricopre il dietro della mia tunica lo confermano.
Salvato per ben due volte dalla razza che giurai di annichilire.
Lo vedo, sembra essersi gravemente ustionato il volto e il torace, eppure è lì di fronte ad un’enorme caverna dall’entrata crollata, che ruggisce, grida mentre divelle strati su strati di roccia con i possenti artigli.
Impazzito dal dolore, graffia, morde, picchia sulla roccia che blocca l’entrata della caverna da dove siamo usciti. Le dita distrutte, la bocca sanguina, il corpo sconvolto da osceni tremori di spossatezza.
Continua a colpire senza posa il muro di pietra finché anche l’ultima briciola di energia che gli restava lo abbandona.
Non so perché lo faccio ma comincio a spostare anche io le ossa della terra, debole e stanco ma non posso tollerare che il fato continui ad accanirsi su di noi. Percuoto il cuore del mondo con tanta forza da squarciarmi la pelle delle mani. Solo allora mi vede. Mi osserva per qualche secondo poi, insieme, tentiamo di irrompere nel ventre della terra facendoci strada tra le rocce che riusciamo a spostare.
Alla fine, spossati, ci arrendiamo.
Lui è sdraiato contro la parete impietosa di fredda roccia che li ha divisi, batte il cranio ritmicamente contro la superficie di una lastra troppo pesante per essere spostata.
Io siedo davanti a lui, ansimo pesantemente.
Passano le ore, interminabili momenti di silenzio assoluto, gli ululati della notte sono gli unici suoni a farci compagnia. Lo vedo scuotersi, tirarsi in piedi, il volto attento e le orecchie tese.
Mi concentro… lo sento.
Suoni impercettibili di metallo che raschia contro la roccia.
Una roccia cede, alcuni ciottoli franano da sopra un pertugio, un braccio di metallo si fa strada tra le pieghe di una stretta insenatura. Artiglia la pietra per uscire come una belva braccata; ricominciamo a scavare, con le poche forze rimanenti e più brandelli di pietra togliamo, più riconosco il proprietario del braccio.
Tiriamo fuori quel che rimane dell’armatura di mio Padre dalla fredda parete di roccia.
Mio padre… o quel che ne resta di lui.
Deluso, il Tredicesimo si allontana, io accompagno il corpo di Gargan De la Cruz sul terreno, lo stendo con delicatezza, come se fosse stato ancora di carne.
Lo fisso, mio Padre, gli stringo le mani.
L’elmo contuso e abbozzato si gira verso di me, se avesse avuto degli occhi avrei potuto vederli risplendere d’orgoglio, ma quell’uomo non aveva occhi.
Anche quando era ancora in salute, la prima volta che lo vidi, ho sempre cercato i suoi occhi nell’oscurità di quell’elmo ma non li ho mai trovati…
Ora, finalmente, alla fine del mondo, li vedo.
“Assolvi l’anima mia, figlio …Fui debole…e stolto.
Perdonami…ho corrotto e distrutto innumerevoli vite, spezzato speranze e annientato puri di cuore e scoperto troppo tardi…quanto tu fossi degno delle Vesti Originali…Cento e cento volte più degno di me.
Perdonami…”
Dice in uno spietato rimbombo metallico. Le giunture cedono e l’armatura si smonta tra le mie braccia come se mai fosse stata posseduta.
Non riesco a vedere la sua anima nell’atto di elevarsi da quell’esoscheletro corrotto… ma posso percepirla intorno a me.
Libera, finalmente libera.
Stringo al petto quei poveri resti e mi accorgo che, effettivamente, c’è qualcuno in quell’armatura ormai fredda e immota. Slaccio i ganci e rimuovo il pesante pettorale e quel che trovo mi lascia di sasso.
La giovane donna era salva, protetta dalla corazza, con in mano uno straccio intorno a qualcosa di pesante e freddo; un’ascia.
Il Tredicesimo si muove verso di noi e cade in ginocchio, la giovane apre gli occhi ancora terrorizzata.
Lo vede e si calma, sorride mentre cerca di levarsi da quello scomodo contenitore.
Raccolgo le spoglie di mio padre e mi vesto dei suoi gloriosi stemmi, purificati dal suo ultimo atto di coraggio e giustizia. Quando anche l’ultimo pezzo ricopre il mio corpo, stringo l’elmo tra le mani. Fronte contro fronte, giuro che da questa notte in poi, avrei purificato l’Ordine per riportarlo agli antichi meritati allori.
Senza mai staccarsi da quell’arma, che solo ora riconosco come la pesante ascia del vampiro, la giovane sospira con voce stremata e sconvolta dalla paura;
“ Quando il soffitto mi è crollato addosso, ho sentito le mani fredde di quel cavaliere che mi afferravano, l’armatura si schiuse e richiuse su di me, come ali di falco su un uovo prezioso.
Era un brav’uomo…Portalo nel cuore, giovane Saraphan. Io lo farò per certo.”
Soppesando l’arma del vampiro, la giovane donna sorride timidamente e porge al legittimo proprietario l’oggetto ritrovato, con ancora il volto e il corpo coperto di polvere e fuliggine;
“Non ho in amore le armi ma so che quest’ascia ti appartiene. Te la vidi in mano il giorno che mi salvasti dalle miniere di rena e dagli orridi vampiri ragno. Il giorno in cui hai deciso di scegliere me, di aiutarmi, proteggermi, di essere il mio Padre Notturno.
Perciò…
Bhe, eccola qui.”
L’immortale afferra la pensante arma, la osserva stringendola forte tra le mani. L’ascia non risponde al contato del portatore, la runa demoniaca non comprende più il proprio significato, segno inequivocabile che il Tredicesimo è mondo dalla corruzione del Serafino Oscuro e prova inequivocabile dell’eliminazione della Bestia. Il vampiro la fissa senza realmente vederla per poi lasciarla cadere in terra, senza rispetto; ho visto questo essere macellare file e file di miei fratelli e suoi compagni corrotti per riavere la sua preziosa arma, ed ora la tratta come fosse nulla.
La giovane donna davanti al gigante di carne pose con dolcezza la soffice mano sulla di lui guancia e pronunciò poche parole con voce rotta dal rammarico;
“Mi dispiace, Vigo…
Mi dispiace infinitamente di essere stata solo un peso per te.
Avrei dovuto seguire i tuoi consigli, restare in allerta…Eppure, nel cuore della notte ho sentito come una chiamata e, quando sono arrivata fuori dalla mia magione, Lei mi ha preso…”
Le possenti braccia traggono a se la giovane donna, prima ancora che lei possa ritrarsi e finire la frase. Sulle prime, fremo di paura, pensando che quel mostro la voglia esorcizzare da ogni sua goccia di sangue, ma il mio animo si placa nel vederla stretta in un tenero abbraccio.
Mi sento quasi un cane ad interrompere quel momento ma so bene quanto il tempo sia un lusso che noi mortali non ci possiamo concedere, così come sono consapevole che l’alba è vicina;
“ Non posso sapere se per te sarà lo stesso ma sappi che mai più avrai noie o crucci da me. Sappi che ti renderò la vita che meriti. Distruggerò per sempre l’ordine eretico dei Monaci del Silenzio e ogni sua affiliazione, sia fuori che dentro L’Ordine e se vedrò anche uno solo dei tuoi simili mostrare ciò che tu mi hai mostrato oggi, vampiro, nulla gli sarà fatto di male. Questo, vampiro, io giuro.”
Per dar credito alle mie parole, gli faccio dono del mio arco, tramandato di padre in figlio, sino a me. Castigo dell’Ordine è il suo nome, prima della caduta dei valori di cui ci facevamo vanto in passato, questo potente strumento ha portato la morte ai nemici di Nosgoth.
La ragazza lo prende e mi ringrazia con un sorriso. So per certo che gli sarà di ausilio e che mai lo useranno per perseguire il male. Questo era il destino, l’originale fato di coloro che impugnavano tali armi.
Poi, senza che dica una parola, il gigantesco vampiro mi affida la ragazza che parla per sua vece, traducendo per le mie orecchie il significato di chissà quelli influssi mentali.
Dice di portarla al sicuro a Valeholm, anche se lei non vuol venire. La ragazza s agita e si oppone ma lo sguardo del non morto è gelido, e la sua volontà inappellabile. Gli assicuro che arriverà, sana e salva, gli do la mia parola e ci mettiamo in viaggio.
La giovane lo guarda con occhi tristi nel mentre che sparisce in una nuvola di minuti colibrì color cremisi;
“Non ti crucciare…” le dico” Egli sa cosa fa. Sarai al sicuro con me, puoi stare sicura. Non lo tradirò e non tradirò la parola data.”
Lei mi guarda con occhi che quasi svaniscono tanto sono sepolti dalle lacrime;
“Tu non capisci…” mi dice strofinando il dorso della mano sulle palpebre per asciugarsi una lacrima fuggita dalla gabbia di autocontrollo che si era imposta.
Sapeva dove era diretto ma non volle dirmelo. Comprensibilissimo, fino a qualche ora fa eravamo nemici.
Non le chiesi nient’altro e la scortai fino alle porte di Valeholm, con il cuore gonfio di fiducia e la volontà di cambiare davvero le cose.
Pater, veritas filia temporis.
Padre mio, la verità è figlia del tempo.SAMAH'EL KHAN, The Song of Silence, soundtrack
l corpo martoriato si ricompose nel mezzo del piazzale della Cittadella delle ceneri.
Cado in ginocchio, tossisco sangue, piccoli fiocchi di tenera fuliggine mi accolgono. Dolori lancinanti ovunque e la testa assalita da mille ombre.
Guardo le mani, le mie nuove mani.
Nulla di quel corpo mi appartiene, eppure, ne sento la fatica, l’agonia, la Morte che avanza.
Come un vecchio sciancato mi appoggio all’arma e arranco con fatica, osservando alla mia destra e alla mia sinistra quell’immensa fortezza che ero ad uso adorare e restaurare.
Un passo, la gamba rotta cede un po’ di più ad ogni movimento.
Un altro passo. Faccio fatica a star dritto, devo reggermi al muro per poter continuare.
Una scia di sangue e pece macchia le rovine del Primo del mio clan, battezzandone le mura nel nome mio, senza volerlo. Spalanco con molta fatica le ante dell’immenso portone che sbarra l’ingresso agli indegni e che ora si schiude, per offrirmi il più prezioso dei doni.
Luce accecante, odore d’incenso.
Una schiera di dumahim che sapevo morti. In piedi, osservano mentre mi reco dove tutto deve finire e ancora iniziare. Ne vedo i volti, sono tutti con me, li porto nel mio sangue.
Fieri nelle loro armature cerimoniali, si accalcano intorno a me.
Ruggiscono come fieri guerrieri, tirando i pugni al petto e sollevando coppe di sangue di vergine.
Mi faccio largo in quella calca finché non raggiungo il grande tappeto di velluto viola.
Ed è allora che lo vidi.
Dumah Il Grande Inquisitore, mi viene incontro e mi tende una mano.
La pelle pallida e i capelli raccolti in una coda di cavallo. Robusto, più di tutti gli altri luogotenenti, più di quanto io lo ricordi ma è noto che l’iconografia non rende mai giustizia agli Dei del passato.
Un attimo prezioso nella mia mente, un batter d'ali nel mondo dei vivi.
Quella sala è vuota…e io sono solo.
Urlo come un demone furente, sfruttando quelle mie nuove corde vocali al massimo della loro estensione. Urlo di rabbia, di dolore. Chiedo, supplico, comando al cielo di dirmi il perché di tutta quella sofferenza. Quale immensa colpa avevo io per meritare tutto quel dolore.
“ Quanto sofferenza…Troppo peso per solo un paio di spalle.
Padre…guarda cosa ho fatto per voi e quanto il nostro Clan mi è costato.
Una vita da reietto, una perdita dopo l’altra e una Madre tagliagole. Quante umiliazioni, tradimenti, delusioni.
Padre, ditemi perché!
Perché mi avete lasciato solo. Perché mi avete costretto ad un destino così folle!
RISPONDIMI, TRONO SILENTE E CRUDELE! RISPONDIMI, DANNATI SIANO I NOVE!!
DILLO! DI CHE SEI FIERO DI ME!
RISPONDIMI, DANNAZIONE! RISPONDIMI!" ruggisco con tanta furia da sputare sangue, avvelenato dal dolore.
Tento di rialzarmi, tenendomi stretto all'ascia demoniaca che ora, solo ora, stride e si strugge di incandescente fuoco per celebrare lamia disperazione e la mia ira.
Ella mi sostiene, fedele, finché le sue forze glie lo concedono.
Poi, come una torre squarciata da un colpo di mortaio, cadiamo.
Il sangue cola lento dalla mia bocca, gli occhi sono sbarrati e rivolti verso l’alto, il possente corpo è immobile negli spasmi di una morte imminente.
Non mi arrendo, avanzo sui gomiti e faccio forza sulle braccia finché, al fine, non mi ritrovo seduto sul mio trono;
“ Almeno tu…Padre…Sii fiero di tuo figlio.” sussurro con voce strozzata dalla disperazione e dal dolore, poi si fa tutto nero davanti a me.
È buio… ho freddo…
Solum nati sumus. Morietur solus
Si nasce soli. Si muore soli.EPILOGO
Il tanfo di chiuso m'intasava le narici.
Sentivo l'odore di morte stantia, polverosa, dimentica ed ormai desueta tra quelle sale.
Sentivo le lacrime ed il sudore versato tra le pareti di quella magione, la febbrile adorazione che aveva accompagnato quelle lacrime, di una creatura che pone i suoi rispetti e le sue preghiere alle attenzioni di un tempio pagano, ai piedi del suo idolo, in attesa che egli mostri clemenza al suo devoto servitore.
In quale sogno ad occhi aperti viveva il Vampiro? Un incubo dal quale mai riusciva a trovare riposo, un tarlo mentale che lentamente aveva corroso la sua mente, scavato gallerie lungo essa e si era nutrito di tutto ciò che regalava sollievo al suo spirito dilaniato dalle lame virulente dei suoi ricordi di vita.
L'uomo era divenuto un essere e l'essere era divenuto mostro, incapace di seguire una direzione che presupponesse l'integrità d'animo.
Pedina di se stesso, marionetta della sua stessa malattia, egli si era via via immerso sempre più in quel pozzo di pece e dilagante insanita che era il suo disturbo fino ad accettare ed addirittura abbracciare la natura deviata che scorreva nelle sue vene.
D'altronde una volta che ci si abitua al sapore del veleno, si inizia persino a desiderarlo e considerarlo il proprio sostentamento.
Ed io ero di nuovo lì, nella culla del serpente... Cercando di stanarlo ancora una volta, per poterlo ricondurre alla ragione.
Rekius il Gelido, pronto a fare la parte del serpentario.
Inspiravo aria insalubre mentre percorrevo le stanze vuote della fornace, il passato di quelle mura si avvinghiava alla mia pelle e la percuoteva con brividi e pizzicore. Lì si era consumata l'immolazione di un immondo per la purificazione di una terra intera.
“Vanesio” l'unico abitante di quella magione chiamava Raziel, Vanesio.
Fatuo e vanitoso, così Raziel veniva etichettato dal Cavaliere della Cattedrale del Sangue.
Nelle sale sentivo risuonare i miei passi, solitari e carichi d'eco, mentre i mattoni che calpestavo raccontavano la silente storia di un fratello traditore ed incapace di opporsi ad un ordine scellerato.
E con i miei passi potevo ancora sentire il tremore delle sue pesanti ossa che accompagnavano l'inarrestabile movimento del corpo, la marcia senza fine che poteva scaturire dalla forza nelle sue vene d'antica genia Vampirica.
Eppure... un pensiero mi colse.
"Solo chi teme l'inferiorità proclama la propria superiorità..."
Sogghignai sinistro, ripensando alla fine dell'Immortale Signore delle Ceneri...
Continuai sulla mia strada mentre tentavo di scorgere un qualsiasi segno da parte del Vampiro che abitava quel luogo... Ma la fornace sembrava deserta.
Mi diressi dunque verso la sala del trono, il luogo in cui un antico spettro aveva ridestato da morte un colosso, lo aveva sfidato, lo aveva sconfitto.
Varcata la soglia, mi accorsi di quanto l'atmosfera fosse irreale.
Fu sorprendente la cura con cui l'ambiente era stato ristrutturato. Sembrava che ogni singola pietra che componeva quella sala fosse stata tirata a lucido...ancora un segno della immota devozione che Samah'el aveva per quel luogo, pensai.
Mi percorse un brivido mentre mi avvicinavo al sedile di pietra che un tempo ospitava il corpo esanime del capostipite di quella genia.
D'un tratto sentii un lontano rumore echeggiare tra le arterie di quell'apparato immobile.
Uno strascicare convulso di passi, accompagnato da rantoli e lamenti d'agonia.
Non avevo idea di quali demoni potessero abitare la dimora del Vampiro, per cui mi affrettai a trovare una posizione dalla quale passare inosservato alle spalle del trono stesso.
Non era mio uso nascondermi, ma non volevo alcun tipo di sorprese in quel momento. Se avessi potuto evitare uno scontro, lo avrei fatto volentieri.
La creatura entrò nella sala del trono zoppicando.
Potevo udire il suo respiro spezzato, breve, che tentava di sostentare un corpo di certo logorato...Non potevo scorgermi ora. Dovevo aspettare...
Sentii un tonfo, seguito da un sospiro di rabbia e disperazione.
Posi la testa al di fuori della mia copertura, solo per un istante.
La creatura era antropomorfa, la sua sagoma era sicuramente imponente e sembrava in estrema sofferenza. Giaceva per un istante in ginocchio, il capo chino. Sconfitto.
Si era portato fino a lì lasciando al suo seguito uno strascico di sangue scuro che ora stava gradualmente creando una pozza lì dove egli rimaneva immobile.
Lo sentii sussurrare qualcosa di incomprensibile. Che stesse pregando...?
Non riuscivo a scorgere il suo volto, ancora in penombra.
Non appena notai i movimenti delle sue gambe che disperatamente tentavano di porlo nuovamente in piedi tornai a nascondermi.
Altri cadenzati passi, l'essere mi si avvicinava...
Sentii gocce di sangue cadere sul marmo che adornava i gradini alle mie spalle.
Sentii il corpo afflosciarsi sul trono come un manichino senza legamenti.
Un altro rantolo, per poi...lo sento ruggire e gridare parole furiose.
Il tono di quella voce risvegliò qualcosa nella mia mente come un getto d'acqua gelida.
Istintivamente mi sporsi, uscendo dal mio nascondiglio e finalmente palesandomi all'essere.
Mi misi di fronte a lui, osservandolo con attenzione.
Tra tutte le ferite aperte sul suo corpo e la maschera di sangue e pece che trasfigurava il suo volto potevo notare dei lineamenti quasi umani.
Quasi umani, più che umani. Le orecchie a punta ed i canini che lievemente sporgevano sulle sue labbra insozzate di liquido scarlatto e ombre liquide riconobbi senza alcun dubbio il gene vampirico in lui.
Era un essere grosso, muscoloso, possedeva mani trifide...
Mani trifide.
I suoi occhi semi-socchiusi erano di un malato color giallo, ma la pupilla era verde e regalava una strana armonia al resto del suo volto la cui pelle, per quanto ricoperta di sangue, sembrava fresca e morbida.
Tossì una quantità spropositata di sangue, mentre il suo fiato si faceva lentamente più quieto, lungo.
L'essere era evidentemente in fin di vita...
Lo sentii ancora una volta invocare invisibili responsabili e spiriti del passato, implorando di dargli delle risposte.
Un'immagine passò con un baleno davanti ai miei occhi.
Ero al di fuori della Cittadella delle Ceneri e fissavo lo sguardo caprino del Cavaliere della Cattedrale del Sangue, sguardo che egli ricambiava e non voleva abbassare per nulla al mondo. La sua ascia ribolliva di fiamme alle sue spalle mentre io gli urlavo di far appello alla sua umanità, di non essere un semplice cane.
Incredulo, feci un passo indietro. La gravità di quel momento sembrò colpirmi tutta d'un tratto, come a volermi schiacciare e spedirmi al centro della nostra Terra.
Sgranai gli occhi.
Impossibile.
"...Samah'el...?” sussurrai a mezza bocca.
Egli mi fissò, sforzandosi di tornare ad uno stato di coscienza che per molto poco tempo ancora sarebbe durato. Osservandomi con quei suoi nuovi occhi, così umani, così puri, e quando la mente tornò dal delirio mortifero in cui l’aveva scagliato, le uniche parole che seppe rivolgermi furono gelide, gravi ma incredibilmente supplicanti;
“Rekius...ti prego.....aiutami….
Desidero….tornare…alla cattedrale.”“Il morto astro lunare era in pallido plenilunio, colore funereo simile al paesaggio che la Cittadella delle Ceneri aveva sempre propinato a coloro che le facevano visita.
Molti vampiri e molti umani erano trapassati in quel tetro luogo di morte e rinascita. Eppure, quella notte, non si aggiunsero altre ceneri a quel mondo di polvere.
Il figlio del Clan di Dumah fece al fine ritorno, chiuso in una bara glaciale per volontà di Rekius il Gelido. L’ascia posata sul torace e tenuta stretta tra le potenti mani, gli occhi chiusi e il volto ferito.
Il corpo possente, seppur spezzato, aveva conservato il muto rispetto e terrore reverenziale che incuteva nel cuore dei molti.
Il cavaliere tornò sullo scudo alla adorata Cattedrale del Sangue, onore concesso agli antichi guerrieri, in una bara di ghiaccio trainata dal più impensabile dei becchini.
Nosgoth…quanto altro ancora dovrai chiedere ai tuoi figli prima di essere saziata.”
FINE
Edited by skulker87 - 3/9/2016, 21:39. -
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La Stanza dei Ricordi - Viaggio verso la Prigione Eterna
Parte Prima
Le fiamme delle torce crepitavano severe nelle segrete della Cattedrale del Sangue.
La sacerdotessa Sarafan sentì dei passi farsi sempre più intensi, segno che qualcuno si stava avvicinando.
Dapprima ebbe un tremito di gioia e di speranza, pensando che forse era giunto il momento della sua libertà, poi ebbe un altro sussulto, di paura.
E se invece i vampiri erano tornati per giustiziarla o peggio?
Riafforarono i ricordi della sua cattura e del suo successivo imprigionamento.
Di come si era sentita indifesa e di quanto avesse provato paura nel cadere nelle mani del nemico.
Ma i vampiri non l'avevano trattata male, un barlume di rispetto e forse qualcosa di più, era sempre acceso nella Cattedrale; temeva di aspettarsi il peggio, ma non accadde.
Tuttavia era ancora lì, forse in attesa di essere interrogata sulle sue conoscenze dei santi cavalieri di Nosgoth.
D'un tratto la sala venne illuminata da una luce magica, distogliendo i suoi innumerevoli pensieri.
Due vampiri entrarono nelle prigioni, uno con l'armatura verde e l'altro con la corazza argentata.
Quello che recava le insegne verdi conduceva forzatamente l'altro, ma sul suo viso non vi era soddisfazione, bensì tristezza.
“Dentro, per il tuo bene, Phobos!” gli disse, mentre lo conduceva nella cella accanto
“Quanta premura! Grazie mille, Epico.” - rispose sarcastico Gryxis
“Smettila per favore, lo sto facendo solo per te” replicò l'altra figura accanto “non riesci a capirlo, e la mia pazienza sta venendo meno”
“Phobos vi reputava 'amici', forse la cosa non è ricambiata? In ogni caso se farete male a me dovrete farlo anche a lui.”
“Io sono amico di Phobos, non tuo di certo” rispose seccandosi il vampiro con l'armatura verde “e stai pur certo che non gli farei del male, a meno che non sia necessario”
“Bla bla bla...dunque dove stiamo andando di bello?” ribatté quello con l'armatura che sembrava un demone
“Andiamo in un posto che al mio amico Phobos non piacerebbe, ma che tu probabilmente conoscerai molto bene. La gabbia”
“Le mie conoscenze sono quelle del tuo amico, come le mie esperienze...differiamo solo in emozioni, principi e obiettivi. Ciò che io subirò, lui la subirà in egual misura. Continuerai dunque a mantenere tale ostilità nei miei riguardi?”
I due si avvicinarono alla cella accanto alla sua e la sacerdotessa si mise nell'angolo più lontano, quasi avesse terrore e fosse indifesa, nonostante le sue abilità nel contrastare i vampiri.
Poi la curiosità la spinse a tornare verso le sbarre della sua prigione per scrutare cosa accadesse.
“Dentro” disse il vampiro che conduceva l'altro contro il suo volere “per intanto resta qualche giorno qui. Poi ne riparleremo”
“Ai-Tar Emart, Krima Imne” fu la risposta del vampiro disertore.
La donna sapeva bene cosa volesse dire.
L'altro vampiro invece non disse nulla, chiuse la cella e lanciò un incantesimo per evitare che qualcuno fuggisse, poi se ne andò, lasciando i prigionieri soli ai loro pensieri, e alla fioca luce delle torce.
Gryxis si trovò da solo e al buio, nell’angusta cella. Si spostò verso la parete proprio di fronte alla spessa porta e qui alzò la testa verso i pallidi raggi lunari che filtravano tra le grate.
Una nuvola passò dinanzi alla piccola apertura, gettando la prigione nell’oscurità totale per degli attimi che sembrarono non finire mai.
Inspirò profondamente, spostando il capo all’indietro con gli occhi socchiusi.
Da tanto desiderava essere ‘libero’ ma appena ne aveva avuto l’occasione, anziché scappare via, lontano e ricominciare di nuovo a vivere all’insegna dell’odio verso i vampiri, era rimasto lì, nel loro covo, come uno di loro.
Non capiva il motivo che l’aveva spinto a fare tale scelta, ma proprio la volontà di avere risposte l’aveva portato a sfidare KainH e a farsi imprigionare.
Odiava Phobos, perché aveva abbandonato la via della vendetta, infrangendo la vecchia promessa fatta sulla tomba dei genitori...
L’odiava perché era riuscito ad avere buoni amici, e qualcosa di simile ad una famiglia, proprio dopo aver abbandonato quella strada...
L’odiava perché ora era un vampiro, l’essere per la cui distruzione aveva sacrificato gioventù, amori ed amicizie...ed in seguito persino la vita.
La luna ricomparve lentamente da dietro le nuvole, e, come per imitarla, Gryxis aprì nuovamente gli occhi.
Si sedette poggiando la schiena alla parete di pietra. Il contatto della pelle, protetta solo dal sottile strato di lino che formava una maglia senza maniche, contro la gelida e umida roccia gli provocò un brivido, facendogli nuovamente ricordare che aveva rinunciato alla libertà e ora si trovava disarmato a languire in una prigione...
Si sentì stranamente triste come se qualcosa gli mancasse.
Portò le ginocchia al petto appoggiandovi il mento e cingendole con le braccia.
Piano piano nel silenzio del luogo, realizzò quello che già sapeva ma che non voleva ammettere: ciò che provava non era effettivamente odio, ma qualcosa che si nascondeva dietro tale maschera: si sentiva deluso e tradito...tuttavia non odiava Phobos, voleva solo capire...
Distese la gamba sinistra, poggiando l’avambraccio destro sull’altro ginocchio ancora alzato. In quella posizione trascorse molto tempo pensando a tutto ciò che era successo e su quanto ancora sarebbe potuto accadere, fin quando ormai sfinito non cedette alla stanchezza.
I giorni passarono, tanti da perderne il conto.
Il vampiro, quasi abbandonato a sé stesso, aveva smesso di tormentarsi e di porsi domande.
Veniva sfamato, sì...ma troppo poco per la sete che provava.
Le forze piano piano gli si erano affievolite, e col passare del tempo aveva iniziato sempre più a cadere in uno stato di incoscienza, in una sorta di sonno senza sogni. Immagini gli si materializzavano nella mente, spesso confuse e senza senso, mentre altre volte si ridestava da quello stato in modo brusco senza nessun motivo apparente e più debole di prima.
Dei rumori di passi, all’apparenza di due individui distinti riecheggiarono al di là della porta che separava le celle dal corridoio che conduceva al corpo centrale della Cattedrale, ridestarono il vampiro.Nelle celle dei sotterranei nella Cattedrale del Sangue regnava il silenzio.
Gryxis giaceva ancora lì, abbandonato a sé stesso in quella fredda prigione silente, probabilmente a contemplare il sé stesso in conflitto.
Venne svegliato da qualcuno che lo chiamò col suo nome malvagio.
“Gryxis”
Quando i suoi occhi ripresero a vedere bene, vide che era Kainh, il senzacuore.
“Cosa ci fai ancora qui? Dov'è Radriel?”
“Lo domando a te dove sta la fata turchina, non si fa vedere da mesi. Ed io rimango qui ad espiare una colpa che non ho”
“Anche io non la vedo da molto tempo in effetti. Chissà che fine ha fatto? E' molto strano” rispose il senzacuore
Ad ogni modo doveva fare qualcosa, se Radriel non si faceva vedere da mesi, la situazione doveva essere riportata alla normalità.
“Non ci sono alternative, Gryxis, verrò io con te alla Prigione Eterna, visto che la paladina del drago pare svanita nel nulla”BRIEFING MODIFICATO
Phobos/Gryxis - Kainh
La tua follia, Gryxis, ti condurrà alla Prigione Eterna.
All'interno di questa enorme costruzione, vi è una sala che devi visitare, ovvero la Stanza dei Ricordi.
Questo luogo ha la facoltà di far ricordare al detenuto le sue rimembranze più buone e all'occorrenza eliminare quelle malvagie.
Non sono del tutto certo che Gryxis se ne andrà per sempre, ma perlomeno possiamo tentare.
Entra in quelle stanze, e trova il tuo vero essere. Forse sarà doloroso, ma alla fine sarai libero.
Ti accompagnerò io in quel posto tormentoso, in un modo o nell'altro, sperando di mutare il tuo destino nel ritorno di Phobos
LDR: ???
Nonostante la palese difficoltà che aveva perfino nel parlare, Gryxis riuscì a rivolgersi all’epico vampiro con tono di sfida, giochicchiando distrattamente con un filo di paglia:
“Oh...ma dimmi: mi costringerai tu a seguirti? Perché io di certo non ho intenzioni di muovermi da qui: ci sto così bene.”
”Lo posso immaginare che stai bene, ma l'apparenza non è mai quel che sembra” disse Kainh “e nemmeno tu sai che stai bene, dal profondo”
Gryxis rise “Sei proprio nostalgico, vampiro. Ti perdi nei meandri remoti della tua mente onesta e dai valori nobili, non rendendoti conto che con me non funzionerà questa tattica. Come dicevo, mi dovrai costringere a seguirti”.
Il senzacuore fece finta di non sentire le descrizioni che la metà di Phobos gli proferì, sorvolando e tagliando corto: “Lo farò. Fra qualche giorno non avrai altro bisogno che di nutrirti. Mi spiace amico mio, ma ti costringerò con la sete di sangue a venire con me”
“Penso che sia più facile che non ti chieda una goccia di sangue piuttosto che seguirti in quel postaccio infame”
“Ci proverò, se non altro”
In cuor suo, Kainh era dispiaciuto di dover trattare con le maniere forti il suo amico Phobos, ma voleva almeno tentare di far ragionare il suo ospite malvagio, “Gryxis”, e domare così il suo spirito fino al suo compito finale alla prigione eterna.
Il senzacuore poi, non era del tutto dispiaciuto di dover visitare la prigione eterna, dal momento che stava vivendo un momento della sua vita, viva e oltre, in cui voleva accantonare i problemi e concentrarsi su una cosa sola lasciando se possibile i pensieri.
Certo, il luogo che dovevano raggiungere non era di sicuro il più allegro e rassicurante del mondo, ma a maggior ragione avrebbe avuto poco a cui pensare, se non la sopravvivenza sua e di Phobos.
Quando fu nuovamente solo, molti dubbi gli si affacciarono alla mente. Aveva iniziato a detestare quella situazione, ma aveva deciso di sopportare fino in fondo per vedere cosa avrebbe ottenuto.
Il primo giorno trascorse, e, come il suo carceriere gli aveva promesso: il solito servo con la fiaschetta di sangue non si presentò, ma fece finta di niente senza nemmeno una protesta.
Quella giornata gli sembrò interminabile, ma con un grande sforzo di volontà, riuscì a resistere fin quando stremato non si abbondò al torpore.
Il giorno seguente, passata l’ora in cui veniva sfamato, la situazione peggiorò. Le forze gli si erano notevolmente affievolite e la debolezza aveva portato con se una violenta febbre e spasmi.
Si sforzò comunque di resistere spinto dall’orgoglio, ma non poté fare a meno di farsi sfuggire qualche lamento.
Il sole calò, e la sua agonia fu un po’ mitigata da una leggera brezza serale.
I raggi della luna lo accarezzarono come per confortarlo mentre ancora sofferente stava raggomitolato sul pavimento, con la camicia di lino, intrisa di sudore, attaccata alle sue carni.
La notte passò, ma il vampiro non riuscì a riposare.
Avrebbe ceduto, dando a KainH ciò che egli voleva, ma l’avrebbe fatto a suo modo, e perciò avrebbe atteso che fosse trascorso un altro giorno.
La routine dei giorni precedenti fu di nuovo rispettata, mentre l’agonia di Gryxis aumentava.
Il suo corpo, come ribellandosi alla privazione di sangue, veniva scosso da fremiti più violenti accompagnati da urla angoscianti.
Dalle altre celle, a differenza del solito, non provenivano rumori, a parte qualche colpo di tosse, qualche lieve lamento ed un suono strano, quasi ritmico, di oggetti fatti cozzare tra loro.
Non riusciva a spiegarsi il perché di quel silenzio. Se le sue urla avessero terrorizzato gli altri a tal punto o se fosse una scelta volontaria, come per dar rispettosamente spazio al dolore che egli provava.
Ogni qualvolta urlava riusciva a distinguere che quel suono ritmico aumentava di intensità, come se colui che lo causava cercasse di sovrastarle.
Con il passare del tempo la sua mente iniziò a cedere ad una sorta di trance furiosa, probabilmente spinta da un profondo istinto di sopravvivenza.
Con sforzo immane si concentrò sul quel suono che lo accompagnava da ore, aggrappandovisi come ad un ancora di salvezza dalla follia incombente.
Nonostante tutto riuscì nel suo intento, ed un altro giorno passò.
La mattina seguente, come se fosse stato a conoscenza delle intenzioni di Gryxis, KainH si presentò davanti alla porta della cella. Il prigioniero era in una condizione pietosa: il viso già naturalmente eburneo appariva ancora più pallido, quasi osseo, la pelle lucida per il sudore, gli occhi incavati e profonde occhiaie nere.
Una palese espressione di rammarico e tristezza attraversò il viso dell’Epico, che comunque facendosi forza, rammentandosi il motivo che l’aveva spinto a quella scelta, parlò con una lieve nota di ironia:
“Mi devo congratulare con te, non credevo che avresti avuto così tanta forza d’animo per resistere tanto a lungo. Ma che ne dici ora se fai un favore ad entrambi, metti da parte il tuo testardo orgoglio e provi ad assecondarmi?”
La risposta di Gryxis non fu espressa a parole, ma in un solo sguardo carico di tutti quei sentimenti negativi di cui era pervaso.
KainH come sconsolato aggiunse: “Come vuoi, visto che non mi dai altra scelta ti darò qualche altro giorno per riflettere...”.
Si voltò per abbandonare la prigione, ma Gryxis lo fermò: “A-aspetta...”
Sul volto triste di KainH apparve un sorriso: anche se costretto ad agire duramente, ora aveva la speranza di poter aiutare il suo amico.
Ma c’era qualcosa che KainH non poteva vedere, ed era il sorriso di soddisfazione stampato sul volto di Gryxis che si tramutò rapidamente in un’espressione di sofferenza non appena l’Epico si voltò nuovamente verso di lui: aveva fatto un altro passo verso ciò che desiderava, facendo inoltre credere di essere lui ad essersi arreso alla volontà altrui.
”Hai vinto senzacuore”
“No, hai vinto anche tu Gryxis” disse Kainh tirando all'amico un otre pieno di sangue nobile “e anche di alto lignaggio, non dire poi che non ci tengo a te” finì il vampiro scherzando.
“Ciò non toglie che ti tengo d'occhio, fai qualcosa di sbagliato e non mi importerà se dovrò far del male a Phobos” mentì “Avanti”
La cella venne aperta e quando il cavaliere finì di consumare il suo pasto uscì dalla cella e seguì Kainh nella cattedrale.
“Mi dispiace per Phobos di avergli fatto passare un paio di notti al fresco, nelle segrete della cattedrale”
“E per me non ti interessa?”
“Se devo essere onesto Gryxis, nemmeno un po’”
“Ben gentile senzacuore”
“Ti è stato risposto al perché ho questo soprannome in effetti”
“Bah, andiamo solo avanti, Epico Giullare”
Scherni a parte, doveva studiare come raggiungere quel posto remoto che era la Prigione Eterna.
Senza l'ausilio del volo di Radriel il viaggio sarebbe stato di certo più lungo e pericoloso.
“Già, Radriel” pensò Kainh
Era da tempo che non vedeva la sua amica paladina, pensava che dalle ultime parole che avevano proferito, difficilmente sarebbe tornata in quelle terre.
Scelte, che lui aveva rispettato con un poco di dispiacere ma anche con rabbia per cosa aveva sentito dire.
Non era il tempo dei rancori, non quello.
Avevano due alternative per raggiungere la Prigione: una era via mare e l'altra attraverso dei portali che conducevano direttamente là, ma all'interno di fortezze Sarafan, quindi decisamente più pericolosa per entrambi.
“Che ne dici Gryxis, ti piace navigare?”
Gryxis guardò KainH di sottecchi. Si chiese se quella domanda fosse un qualche tipo di prova o di inganno, ma non avendo certezza alcuna a riguardo decise di stare al gioco seppur non lasciandosi sfuggire l'occasione per lanciare qualche frecciatina.
Scrollò le spalle in modo non curante e rispose a tono all'Epico: “Non capisco la ragione della domanda: sono stato buttato in una cella e poi dimenticato, spogliato di tutto se non di questi stracci, costretto con la forza a accettare qualcosa che TU hai voluto impormi per il bene del tuo Phobos e l'unica cosa di cui hai la premura di chiedermi è se mi piace navigare? Sono disarmato, senza armatura, impossibilitato ad usare i blasfemi poteri di voi vampiri, e mi chiedi davvero se mi piace navigare?” - scoppiò in un sonora risata, poi facendo finta di riprendere fiato ed asciugarsi le lacrime per il troppo ridere, continuò: “Se l'unica cosa di cui dovrò preoccuparmi è se mi piace navigare, beh di sicuro non lo disprezzo anche se negli ultimi periodi, come ben saprai, ho avuto un po' di problemi con l'acqua...ma, perché no?”
Di fronte all'evidente messa in scena del vampiro mirata a farlo innervosire, sul volto di KainH diverse emozioni contrastanti si susseguirono, ma nonostante tutto riuscì a non perdere la calma di fronte a quelle provocazioni: “Bene, il tempo di preparar alcune cose per il viaggio e ci metteremo in cammino. Ti farò condurre alle stalle. Non dovrai attendermi molto e poi partiremo.”
Fece un gesto ad un uomo che l'aveva accompagnato e che era rimasto in disparte per tutto il tempo senza mai intervenire. Mentre KainH lasciava la prigione, l'uomo si avvicinò a Gryxis e lo prese per un braccio strattonandolo rudemente per farsi seguire.
Sul volto di Gryxis un nuovo sorriso beffardo fece capolino insieme ad un pensiero dai mille significati nascosti “Non vedo l'ora, KainH. Non vedo l'ora...”
Mentre vagava per i cunicoli della Cattedrale dei Vampiri, KainH rifletteva su diverse cose.
In primis alla dura prova che, in quel piccolo frangente, Gryxis lo aveva sottoposto, ovvero la pazienza.
In secondo luogo gli aveva grosso modo rivelato cosa avrebbe dovuto affrontare tutto il viaggio, per poi, si sperava, risanare l'anima dell'amico Phobos, ponendolo di fronte alla scelta finale se far vincere la sua personalità malvagia oppure quella nobile che conosceva bene.
Sperava di tutto cuore che la volontà di Phobos vincesse e senza lottare troppo; solo quella sala misteriosa nella Prigione Eterna avrebbe rivelato il verdetto.
Il viaggio era molto lungo.
Quei cunicoli scuri, illuminati di tanto in tanto dalle torce crepitanti del magico fuoco bianco e blu, facevano rimbombare i suoi passi.
O meglio, quella era la sensazione che il senzacuore stava provando mentre li muoveva per raggiungere la stanza, quasi come se i suoi pensieri si amplificassero sempre più in crescendo.
Aveva ben poco a cui pensare, tuttavia: doveva solo portare il suo amico in un postaccio infernale abitato dalle persone e creature della peggior specie, tenute a guardia dai peggiori e severi guardiani di tutto il creato.
C'era ben poco a cui pensare in effetti.
Quando raggiunse finalmente le sue sale, in quel piccolo percorso ma per lui inspiegabilmente interminabile, KainH decise che era meglio usare la prudenza e armarsi bene, dal momento che Phobos, ergo Gryxis, non avrebbe avuto nelle sue mani le sue armi fidate; di Phobos, neanche a dirlo, si fidava, ma non voleva guardarsi doppiamente le spalle una volta raggiunta la Prigione Eterna.
Per cui si armò di Frost sword e si vestì dello smeraldo runico di Greenstone, non si poteva mai sapere quale pericolo avrebbe incontrato alla Prigione.
Mentre usciva dalla sala, guardando come tutte le volte la sua dama che dormiva eternamente in quella trappola psichica, cercando di sorriderle rassegnato, come se lei avesse modo di vederlo.
Prima di ricongiungersi a Phobos, si dilungò a recuperare un artefatto che nascose in un fodero e dentro ad una cappa che celava il suo contenuto.
Ecco, su quello avrebbe dovuto vegliarci eccome, soprattutto fare attenzione alle mani di Gryxis.
“Bene Gryxis, andiamo” disse KainH raggiungendo il cavaliere posseduto.
Il ghoul lasciò il braccio di Gryxis e poi senza dire nulla si congedò tornando ai suoi incarichi nella Cattedrale.
“Ce ne hai messo di tempo Epico, dovevi lisciarti i capelli?”
“Cammina, amico. La strada è lunga” disse indifferente KainH e in modo secco
“Cammina? Pensavo, se non altro di andare a cavallo”
“Mi sono espresso male, allora. O non mi sono espresso su questo, in effetti”
Altri due ghoul, poco fuori i cancelli del rifugio dei vampiri, apparirono per porgere due cavalcature sellate e pronte.
“Sarà meglio” disse stizzito Gryxis
“Sarà un viaggio lungo sino Meridian” sussurrò il senzacuore
I due vampiri cavalcavano fianco a fianco da ormai diverse ore.
A causa della lunga prigionia, e degli ultimi giorni tormentati, Gryxis sentiva le membra pesanti. Mentre cercava alla meglio di trovare tepore nella cappa di lana nera che Kainh gli aveva procurato, cambiava spesso posizione sulla sella...operazioni entrambe rese difficili dal giogo ai polsi.
A parte il respiro dei cavalli, il calpestio dei loro zoccoli e qualche suono dall’ambiente circostante ad accompagnarli, i due non si scambiarono neppure una parola.
Il Cavaliere, spazientito per la situazione in cui era costretto a viaggiare, colse l’occasione di rompere il silenzio lanciando una frecciatina al suo compagno di viaggio: “Siamo vampiri, creature sempre più divine, come disse qualcuno molto tempo fa, e l’unico modo che hai trovato per raggiungere Meridian è su questi ronzini buoni solo per il macello?”
Il senzacuore incassò la provocazione senza batter ciglio e senza distogliere lo sguardo dalla strada di fronte a sé.
Quella reazione irritò maggiormente Gryxis che, mordendosi le labbra, desistette dal rincarare la dose, più per stanchezza che per altri motivi.
Giunsero ad una curva, in cui la fitta vegetazione ai bordi della strada impediva di vedere cosa ci fosse oltre.
Svoltando, i due viaggiatori intravidero alcuni uomini che armeggiavano con un carro, evidentemente finito fuori strada
L'Epico, alzandosi il cappuccio, fece cenno al compagno di fare lo stesso, e di tenersi in disparte mentre lui sarebbe intervenuto.
Uno degli uomini vicino al carro, vedendoli arrivare gli si fece incontro attirando maggiormente l’attenzione agitando le braccia.
Quando furono abbastanza vicini per poter parlare senza dover alzare la voce, KainH chiese all’uomo cosa fosse successo, e questi, indicando il carro e implorando il loro aiuto, riferì che i raggi di una ruota avevano ceduto facendoli finire fuori strada.
Nonostante quel percorso fosse abbastanza praticato, e che quell’incidente non sembrava così inverosimile, qualcosa a Gryxis, soprattutto nell’atteggiamento dei tre uomini non tornava.
Era convinto che anche il senzacuore avesse avuto la stessa impressione, ma questi comunque accettò di aiutarli e, inventando una scusa per lui, smontò da cavallo accompagnando l’uomo sui suoi passi.
Quando raggiunsero gli altri due che erano rimasti a trafficare con il carro, sui loro volti si accese un sorriso beffardo e trionfale, pregustando già il successo del loro piano ai danni dei due ingenui malcapitati.
Gryxis seduto placidamente sulla sella, si sistemò platealmente in una posa da spettatore assorto mentre dalla vegetazione altri uomini, che ormai era ovvio fossero banditi, li accerchiarono intimandoli di consegnar loro quanto di valore possedevano se volevano salva la vita.
Il Cavaliere sorrise compiaciuto quasi rinvigorito da quella situazione: “Bene bene. Finalmente qualcosa ad animare questo viaggio: finora sembrava più una processione funebre!”.
L’Epico gli lanciò un’occhiata più per la battuta che per un monito a non intervenire, visto che comunque era ovvio dalla postura che aveva assunto che quello fosse la sua ultima preoccupazione.
Rivolgendosi ai banditi il senzacuore tentò la carta della diplomazia: “Prima che sia troppo tardi e io sia costretto a fare qualcosa che non voglio fare, rinunciate ai vostri intenti e lasciateci proseguire.”
I tagliaborse, prendendo quelle parole più come un tentativo disperato che come una minaccia reale, lo sbeffeggiarono e gli si avventarono contro. Il vampiro scostò la cappa per facilitare i movimenti ed impugnando la sua arma iniziò una macabra danza scivolando tra gli aggressori.
Tuttavia si limitò a ferirli con il solo intento di renderli inoffensivi.
Altri due uomini del gruppetto di tre che erano rimasti a sorvegliare Gryxis, andarono in soccorso dei compagni, subendo tuttavia la stessa sorte.
L’ultimo farabutto ancora in piedi, impaurito per l’inatteso sviluppo degli eventi, si avventò verso il Cavaliere nel vano tentativo di arraffare qualcosa di valore prima di darsi alla macchia, ma, prima che potesse solo sfiorarlo, questi, sbadigliando come annoiato dallo scadente ‘spettacolo’ a cui aveva assistito, gli assestò un calcio così violento da torcergli il collo e fargli sputare sangue ed alcuni denti.
Kainh rinfoderando la spada tornò verso il cavallo e poi si rivolse a Gryxis: “Era proprio necessario ucciderlo?”
Il Cavaliere sollevando le spalle gli rispose: “Avevo nutrito maggiori speranze e aspettative da loro, ma in fondo erano solo degli stolti bifolchi, niente più. Nessuno lo piangerà e anzi...direi gli ho fatto solo un favore.” - rise di gusto, con un’oscena risata bassa e priva di ogni umanità.
...e parve che KainH rimontando in sella rimase rattristito e scosso dalla cosa.
Percorsero ancora qualche chilometro prima che KainH pensasse a qualcosa di diverso dai banditi.
Sulle prime era rattristato dal comportamento di Gryxis, ma ben poco dopo quel sentimento mutò in pura rassegnazione, dal momento che poco si poteva fare per cambiare il carattere di quell'uomo.
Era così e basta, non c'era modo di farlo ragionare, e ne prese atto tenendone conto per il resto del viaggio, soprattutto per le decisioni che avrebbe dovuto prendere.
Niente innocenti e nemmeno banditi a tiro di Gryxis, quindi.
“Ehi, sergente di vascello, non hai più detto niente. Sarà mica un uomo morto a rattristarti così?”
“Se andiamo a vedere non avevo parlato nemmeno prima del fatto, Gryxis, ma penso ci sia ben poco da dire. E' successo e basta” disse il senzacuore scrollando le spalle.
“Si ma non è una cosa bella per te, giusto?” incalzò il cavaliere.
KainH sapeva bene che era un ulteriore tentativo di provocazione da parte del compagno, solo non capiva dove volesse arrivare con tutto ciò, per cui prese la via della diplomazia.
“Cosa dovrebbe importarne a me? Io non ho fatto nulla di male, ho solo fatto fuggire dei banditi, sono le tue mani sporche di sangue, non le mie”
“Ma non hai fatto nulla per impedirmelo...”
“Come dici tu, erano banditi, cosa importa ormai?”
Gryxis si innervosì ulteriormente, sbuffando
“Cosa pensi di ottenere facendomi queste domande fastidiose Gryxis?”
Non rispose.
Quando i due vampiri raggiunsero la capitale di Nosgoth, la notte stava volgendo al termine per lasciare spazio al giorno.
La notte, dopo quegli episodi e i vari scambi di battute, era passata veloce, letteralmente veloce.
I destrieri oscuri della Cattedrale infatti avevano loro permesso di raggiungere in una sola notte quella enorme distanza che li separava da Meridian, merito della magia oscura.
Non era però stata esente da imprevisti per i due notturni, dal momento che un po' di pioggia aveva bagnato i loro mantelli, con conseguente fastidio di Gryxis, che, pur ben coperto, qualche goccia d'acqua lo prese. Eccome.
Presero una stanza nella prima taverna che incontrarono, visto che i velenosi raggi solari li stavano cominciando a raggiungere, e si accomodarono sperando di non avere imprevisti, almeno lì.
I guai sarebbero cominciati nella Prigione, e speravano non prima.
“Che lurida topaia” protestò Gryxis una volta chiusa la porta alle sue spalle
“L'importante è che ci protegga dal sole, il resto non conta” replicò il senzacuore “tieni”
Porse al vampiro indebolito dalla pioggia presa, un otre di sangue
“Ti servirà, e magari non è meglio che ti riposi un po'?”
“E tu non riposi?”
“E' da un po' che non dormo, di questi periodi ho altri tormenti”
“Io penso invece che non ti fidi di me, sbaglio?”
“Perspicace, davvero”
“E sentiamo, dove dovrei scappare, a miglia di distanza dalla Cattedrale?”
“Ovunque ti passi per la testa, sei un uomo libero in fondo”
“Non mi pare, da come sono stato trattato sino ad ora, Epico”
“Non continuare a pensarci, Phobos” lo chiamò così “riposa un po'. Domani dovremo essere pronti ad attraversare il mare e raggiungere la destinazione”
“E ti ricordo che non abbiamo margine di errore, in quella traversata. Ricordi che l'acqua non mi è proprio amica, e ho avuto recentemente un imprevisto con questa maledetta”
“Non me ne sono dimenticato. Riposa “
Dal momento che suonava quasi come un'imposizione Gryxis non poté fare altro che rassegnarsi e gettarsi a capofitto in incubi diurni, mentre KainH si perdeva nei suoi tormenti perenni.
Sebbene fosse restio per vari motivi ad addormentarsi, la stanchezza degli ultimi tempi prese il sopravvento.
Dormì profondamente, nonostante incubi e tormenti gli venissero comunque a far visita, fino a quando fu tempo di riprendere il viaggio e KainH lo svegliò.
Si alzò stiracchiandosi, più per scena e per, in qualche modo, stuzzicare l’Epico che era rimasto sveglio.
Questi con noncuranza, finta o reale che fosse, ma comunque irritante, lo invitò a seguirlo per non perdere altro tempo.
Usciti dalla locanda il vampiro andò a passo spedito tra vicoli e stradine, tanto che Gryxis fu costretto ad accelerare il passo per stargli dietro.
Giunti di fronte ad una porta all’apparenza non dissimile da altre, l’Epico si fermò e, dopo essersi guardato attorno con fare circospetto, bussò con una cadenza ritmata.
Dopo qualche minuto una feritoia venne aperta, e due occhi indagatori li scrutarono. KainH fece un qualche cenno particolare che il Cavaliere non fu in grado di interpretare. L’uomo parve riconoscere e comprendere il segnale, ma rimase comunque guardingo per la presenza di Gryxis, fin quando l’Epico non lo rassicurò e questi aprì la porta facendoli entrare.
L’interno dell’edifico era caldo, e l’aria, satura dell’odore acre di fumo e di liquori, tanto da renderla irrespirabile.
Seguirono l’uomo che aveva aperto la porta attraverso un lungo corridoio su cui si affacciavano diverse stanze, dalle quali provenivano risate e parole sguaiate.
Alla fine dell’andito si trovarono di fronte ad un muro rivestito da un arazzo, sul quale era ricamato uno strano stemma, che tuttavia Gryxis credette di riconoscere. L’uomo armeggiò dietro l’elemento decorativo premendo qualcosa sulla parete rilevando un incavo.
Estrasse dal panciotto lurido una chiave dalla forma strana ed utilizzandola in quella che capiva essere una serratura, fece scorrere la parete, aprendo il corridoio su nuove stanze.
Giunsero infine in una sala riccamente addobbata nel quale un uomo sedeva ad una scrivania mentre scarabocchiava su fogli di pergamena.
Alle spalle dell’uomo si trovava di nuovo il simbolo presente sull’arazzo. Riguardandolo meglio finalmente capì di cosa si trattava: era il simbolo di una cricca di contrabbandieri che da anni si rendevano responsabili di gravi crimini.
Gryxis si chiese come mai il così virtuoso KainH conoscesse un simile posto, ma riflettendoci non trovava così strano che i vampiri, contro cui gli eserciti Sarafan erano in lotta da millenni, adottassero anche mezzi non proprio leciti a discapito di quelli convenzionali maggiormente rischiosi.
L’Epico si rivolse al compagno di viaggio invitandolo ad aspettarlo lì, mentre lui continuava verso la scrivania.
KainH e l’uomo parlarono per diverso tempo, fin quando quest’ultimo soddisfatto, con un largo sorriso di compiacimento, strinse la mano al vampiro come per suggellare l’accordo raggiunto. Vergò qualcosa su un foglio di pergamena e dopo averne impresso sopra il proprio emblema gliela consegnò.
Tornato verso Gryxis passò oltre senza dire nulla, e questi lo seguì subito intuendo che non fosse il momento di parlare.
Quando furono nuovamente in strada KainH ruppe finalmente il silenzio spiegando al Cavaliere quanto avrebbero dovuto fare.
Trascorsero parecchie ore nella bettola che li aveva ospitati per la notte. La sala che fino a poco tempo prima era animata da gente della più bassa estrazione sociale ora era vuota eccezion fatta per loro due e l’oste.
Kainh osservò il cielo dalla finestra vicino al loro tavolo: “E’ ora, andiamo.”
Appoggiò sul legno unto e scheggiato, vicino ai boccali ancora pieni, alcune monete, sicuramente più del dovuto secondo il parere di Gryxis che comunque non disse nulla, e fece cenno all’oste che li salutò con un sorriso.
Le strade erano deserte, a parte qualche gatto che fuggiva impaurito al loro passaggio o a qualche ubriaco che aveva perso i sensi al bordo della strada...mentre qualche ladruncolo li frugava in cerca di monete.
Giunsero al molo, e si diressero guardinghi ma rapidi, verso l’unica nave attorno alla quale vi era ancora attività.
La fregata, su cui venivano caricati casse dal dubbio contenuto, aveva la chiglia totalmente nera, e il nome, La Dilaniatrice, non era di certo rassicurante. La polena aveva le fattezze di una donna guerriera dal seno scoperto.
KainH si avvicinò ad un energumeno, che incuteva timore solo a guardarlo, e gli consegnò la pergamena che aveva ottenuto diverse ore prima. Dopo aver controllato il cartiglio si spostò di lato lasciandoli passare accompagnandoli con un sorriso.
Quando finirono di caricare, lo stesso uomo lanciò un ordine e la passerella fu portata a bordo.
L’ennesima tappa del loro viaggio ebbe inizio.
La notte era quasi trascorsa e i due vampiri si congedarono prendendo alloggio nella cabina che era stata loro assegnata.
Dalle condizioni del vano in cui erano stati sistemati, appariva evidente che raramente caricavano passeggeri oltre ai membri della ciurma.
La puzza di muffa impregnava l’aria, ma Gryxis, dopo la permanenza in cella e la camera alla locanda, trovò quella situazione un netto miglioramento.
I giorni trascorrevano monotoni, e l’inattività rendeva, se fosse possibile, l’umore del Cavaliere ancora più inquieto e pessimo.
Provocò una rissa con gli uomini dell’equipaggio, e solo il provvidenziale intervento di KainH scongiurò che le cose finissero in modo tragico.
Alla fine gli fu vietato di allontanarsi dalla cabina se non accompagnato dall’Epico, così finì per non uscire quasi mai, non avendo comunque nulla da fare e niente che stuzzicasse il suo interesse.
Il terzo giorno, data prevista per l’arrivo presso la Prigione Eterna, si prospettava un’ulteriore noiosa giornata all’insegna della solita grigia monotonia...e così fu fin dopo il tramonto.
La luna si levò dall'orizzonte mostrando un'ondulata distesa di acqua argentea, senza terre in vista.
Il vento era calato, e l'aria sembrava più calda. La vela si muoveva appena, ma il mare cominciò a gonfiarsi come se fosse sferzato dalla tempesta. Sembrava un’entità vivente scossa da un sonno popolato da indicibili incubi.
Il capitano mollò, forse inconsciamente, il timone, come se in quelle condizioni fosse inutile cercare di governare la nave ed urlò rapido degli ordini. L’imbarcazione veniva trascinata dalle onde impazzite.
Tutto era diventato improvvisamente irreale ed onirico.
Gli uomini lottavano disperati per non essere trascinati in mare, sorte che alcuni meno pronti e fortunati non riuscirono a scampare.
“Non avremmo dovuto accettare questo incarico...abbiamo stupidamente sfidato forze che vanno molto al di là della nostra portata!” - fu il grido disperato di un uomo prima di finire in mare e scomparire tra le violente onde.
I due vampiri salirono sul ponte. Gryxis rischiava molto in quella situazione, ma aveva deciso che morire senza fare niente sarebbe stato di gran lunga peggiore, quindi, non ascoltando gli avvertimenti del suo compagno, l’aveva seguito.
Da lontano, si udì un mormorio sommesso che crebbe e diventò uno stridio lamentoso.
All'improvviso la nave venne scagliata sulle onde e poi giù nel vuoto. Sopra di loro l'acqua azzurra e argentea apparve per un momento come una muraglia metallica...e poi precipitò scrosciando. La tiepida acqua piombò ruggendo su di loro, schiacciandoli come una mano gigantesca. La barca continuò a scendere, dando l’impressione che sarebbe finita stritolata sul fondale marino. Poi venne lanciata nuovamente verso l'alto.
Gryxis iniziò a subire gli effetti dell’acqua: larghe piaghe comparivano sul suo corpo dove il liquido mortale lo colpiva. Più volte parve cedere e KainH non riusciva a non preoccuparsene, ma poi, con orgoglio e testardaggine, il vampiro resisteva.
L’Epico si chiese se non fosse più saggio trascinarlo a forza sotto coperta, ma in fondo capiva ciò che il suo vecchio ‘amico’ provava.
Due occhi gialli comparvero tra le onde, seguiti dalla terrificante testa serpentina. La creatura aprì le fauci ruggendo contro la nave ed alitando un nauseabondo odore di decomposizione verso l’equipaggio, ora atterrito per l’orrore.
Il grosso muso colpì la fiancata della nave mentre schegge e uomini volarono verso il lato opposto. Gryxis subì la stessa sorte finendo col colpire l’albero maestro perdendo i sensi...
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